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di Michele Riccio

L’impunità per Cosa nostra ha valenza maggiore della naturale speranza di sfuggire alla responsabilità penale per i reati commessi.
L’affermazione dell’organizzazione, la sua legittimazione agli occhi del cittadino, il senso di diffusa potenza che essa è in grado di far sentire è priorità assoluta rispetto alla necessità di salvaguardare la posizione dei singoli affiliati.
Annullare un processo, avvicinare un magistrato, condizionare una campagna elettorale, far eleggere un proprio candidato per ottenere leggi più favorevoli e garantiste dei loro interessi conferiscono un crisma di legalità materiale alle operazioni dell’organizzazione.
Il conseguimento di questi obiettivi determina per il vertice dell’organizzazione facilità di comando e carisma agli occhi degli uomini d’onore e di qui l’interesse per Cosa nostra di valutare le profferte di quanti chiedono il suo appoggio.
E’ così vitale tale strategia che la Mafia non esita a ricorrere, dopo il fallimento di un cauto avvicinamento alla persona interessata ed al successivo esito negativo di azioni intimidatorie, all’omicidio preventivo o punitivo.
Con il crescere del suo potere economico Cosa nostra ha esteso rapporti non solo con altri ambienti, ma è stata più attenta all’assetto politico dello Stato coltivando un suo preciso schema politico, mirando a penetrare gli ambienti Istituzionali per determinare condizioni che avrebbero favorito e protetto i suoi interessi.
A Cosa nostra non interessano politici, magistrati ed appartenenti alle varie istituzioni onesti e trasparenti, ma permeabili alla sete di potere, di carriera e di denaro e quando sono presenti tali condizioni è fondamentale coltivarle, alimentarle e proteggerle per tutelare il benessere e l’esistenza dell’organizzazione.
Per raggiungere questi obiettivi la Mafia ha preferito dialogare con gli ambienti politico-istituzionali ed imprenditoriali piuttosto che affrontarli da posizioni contrapposte, coabitazione che ha favorito e condotto al successo più tentativi d’infiltrazione. Strategia attuata ad ogni livello sia nazionale che locale dove sovente si è conseguita la nomina ai vertici delle amministrazioni regionali e comunali di persone in alcuni casi organiche a Cosa nostra, realizzando così un modello criminale poi seguito da altre organizzazioni mafiose come la Camorra e la ’Ndrangheta.
Nacquero pertanto cordate d’interesse tra singoli politici, imprenditori, professionisti e mafiosi, nelle quali gli uomini politici, che realmente contavano, avevano propri imprenditori, propri professionisti e propri capimafia, determinando in qualche occasione scontri contrapposti.
Tale cancrena progressivamente ha avvelenato la legalità amministrativa. Le funzioni pubbliche e la lotta politica sono diventate strumento per conseguire vantaggi di mercato a scapito dei concorrenti.
In questo contesto Cosa nostra ha operato da centro di gravità presso il quale era discussa ed affrontata ogni problematica interloquendo per ogni scelta, anche politica, facendo e disfacendo alleanze, minacciando fino a giungere all’eliminazione fisica di chi osasse ostacolare gli assetti raggiunti pur di tutelare il profitto che, oltre alla ricchezza ,avrebbe dato anche maggiore potere agli uomini d’onore.
Cosa nostra come è noto operava non solo nel settore degli appalti, dell’edilizia, ma in qualsiasi altra attività imprenditoriale o di manutenzione, bastava che assicurasse un gettito di denaro e stesse attenta nell’espandersi, modernizzarsi ed integrarsi in ogni ambiente dove ha portato la cultura dello scambio del favore.
Il contesto diventato fondamentale per alimentare questo progetto e che ha portato gli uomini di mafia a sedere allo stesso tavolo con gli uomini dello Stato, dell’imprenditoria, della politica e delle professioni private è stato quello delle logge massoniche ed il vincolo della solidarietà massonica assicurava rapporti organici e continuativi.
Da quanto mi raccontò Ilardo e i collaboratori come Calderone, Buscetta, Mutolo, Messina, Siino, Cancemi ed altri all’autorità giudiziaria, l’ingresso nelle logge di molti uomini d’onore avvenne secondo una precisa strategia tesa ad ampliare il potere di Cosa nostra.
Inchieste come il caso Sindona, quello della loggia massonica P2,  della loggia C.a.m.e.a. di Rapallo (GE), del Centro sociologico italiano in Palermo via Roma 391, della loggia Scontrino di Trapani, oltre a far emergere una fitta rete di altre logge tutte collegate fra loro di cui molte coperte, confermarono che  sotto gli archi celesti dei vari templi di quelle logge si favorirono carriere, si combinarono affari ed appalti, si procacciarono voti, si operò riciclaggio di denaro e si aggiustarono processi ed inchieste giudiziarie.
Lo stesso Savona Luigi il Gran Maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale degli Antichi Liberi Accettati Muratori Obbedienza di Piazza del Gesù che realizzò nel 1977 l’ingresso di Cosa nostra nella Massoneria nel corso della sua missione in Sicilia, terra natia, corse in soccorso del boss di Trapani, Mariano Agate e di alcuni suoi accoliti imputati con altri mafiosi di livello in un processo presso il Tribunale di Trapani, sfruttando il vincolo massonico per avvicinare gli ambienti giudiziari.
Agli amici massoni Cosa nostra mise a disposizione il sistema bancario in Sicilia permeabile agli uomini d’onore, così la possibilità di creare fondi neri per centinaia di miliardi nell’ambito appalti, un metodo fu quello delle false fatturazioni e la disponibilità di enormi capitali provento delle attività illecite per farli reinvestire.  
L’esame degli elenchi degli affiliati delle logge, acquisiti nel corso nelle varie perquisizioni, sovente regalò sorprese. Per esempio esaminando i 2441 iscritti del Centro sociologico italiano di Palermo in via Roma, gli inquirenti accertarono che, nonostante due precedenti arresti, era stato nominato Gran Maestro il ragioniere Pino Mandalari, l’amministratore del patrimonio di Riina.
Tra professionisti, imprenditori, militari e magistrati come Federico Ardizzone, Presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, ed avvocati come Vito Guarrasi, fiduciario di Enrico Cuccia anche lui iscritto alla massoneria, si trovarono personaggi mafiosi o in odore di mafia come Salvatore Greco, gli esattori Salvo, il medico Joseph Miceli Crimi, Stefano Bontade, Calderone Giuseppe, Giacomo Vitale, ecc.
Per non far torto all’amico Guarrasi anche Cuccia nella loggia “Giustizia e Libertà” era in buona compagnia, il mafioso Agostino Coppola, Michele Sindona, il gen. Giovanni De Lorenzo (piano Solo) Raffaele Ursini (scandalo Liquigas) ed altri signori responsabili dei maggiori scandali politico e finanziari di quegli anni.
Non meno sorprese regalarono le indagini sulla loggia “Scontrino” di Trapani, Gran Maestro risultò un amico del Mandalari, un ex sacerdote, tale Giovanni Grimaudo. Presso questo centro si accertò la presenza di altre sei logge e dall’esame della carte sequestrate ne emerse un’altra coperta, la segreta loggia C della quale poco e nulla venne scoperto.
Negli elenchi degli affiliati tra i vari imprenditori, professionisti, bancari, militari, pubblici amministratori e dipendenti di prefetture, regione, province e comuni emersero ancora quelli di personaggi mafiosi come Mariano Agate, Natale L’Ala boss di Campobello Mazzara, Mariano Asaro, Calogero Atria boss di Partanna, Fundrò Pietro solito operare insieme all’altro boss Natale Rimi ed altri ancora come Gioacchino Calabrò e Calogero Minore.
Non meno importante fu il ritrovare la presenza negli elenchi dei quattro capi ripartizione del comune di Trapani: Bartolomeo Agugliaro, Filippo Sparla, nel 2001 poi coinvolto nello scandalo degli asilo nido, Giuseppe Ferrato, Giovanni Soldano o del questore Giuseppe Varchi iscritto anche alla loggia P2 e dell’ex assessore ai lavori pubblici Salvatore Bambina.
A conferma che non fosse lo studio e l’approfondimento di questioni esoteriche l’attività preminente di questi massoni e che il concetto di solidarietà massonica era inteso in modo un po’ troppo estensivo i magistrati trovarono, negli armadi di quelle logge, una impressionante quantità di documenti propri di un comitato d’affari.
Saltarono fuori atti sui grandi affari, raccomandazioni per sollecitare promozioni o trasferimenti di amici nelle varie amministrazioni o negli uffici pubblici quasi sempre nell’ottica di posizionarli in posti chiave per meglio poi conseguire gli interessi dei fratelli.
Emersero collegamenti del Gran Maestro Giovanni Grimaudo con ambienti mafiosi dai quali aveva ottenuto appoggio per sostenere le campagne elettorali di uomini politici amici come per Nicolò Nicolosi, Aristide Gunnella e di Francesco Canino, che in seguito confermò la sua appartenenza alla massoneria.
Si accertò che era Piazza del Gesù l’obbedienza che contava in Sicilia il maggior numero di logge, molte erano strutturate in base alla comune professione degli iscritti ed alcune coperte per meglio tutelare la professione e l’identità dei loro affiliati. Gli elenchi di quelle più delicate non furono mai ritrovati o acquisiti, alcuni fratelli erano detti “all’orecchio”, noti cioè solo al Gran Maestro.
Tutto ciò portò ancora una volta a sottolineare lo spiccato interesse che mostravano queste comunità massoniche verso il mondo così detto “profano”, evidenziando uno spirito ben lontano da quello della massoneria originaria, quella inglese, che vieta di occuparsi di questioni politiche, giudiziarie, amministrative e affaristiche, per non determinare grave interferenza nelle funzioni delle varie amministrazioni.    
Con la massoneria Cosa nostra, nei suoi rapporti, manterrà sempre una logica utilitaristica e mai subalterna ed il rifiuto dato all’appoggio di sogni golpisti di massoni e militari ne è stata la conferma, diversi e mutevoli sono stati invece i rapporti con il mondo politico verso il quale ha operato attraverso il controllo dei voti ed il meccanismo degli appalti.
Cosa nostra non ha mai avuto preclusioni verso nessun schieramento o partito Provenzano ne è l’esempio. La scelta di un partito o del candidato da sostenere è pura convenienza, più è importante il partito, maggiore è la disponibilità dell’organizzazione ed il controllo del territorio sarà fondamentale per condizionare la politica e l’imprenditoria. L’ossequio di questa equazione produrrà affermazione e ricchezza per una famiglia mafiosa.
In una terra di Sicilia sempre più arsa ed assetata, ma che in realtà trasuda acqua in abbondanza più di altre regioni italiane, perché la mafia deve guadagnare anche su questo, (delle dighe, mai completate, ne funzionano solo quattro sulle 25 fino ad ora realizzate, sui dissalatori e sulle condotte, che devono mal funzionare affinché l’acqua venga persa o rubata) la gente di Agrigento, la terra di Luigi Pirandello e di Leonardo Sciascia per vivere si è dovuta arrangiare.
Ecco gente costruire le vasche sui tetti, fare lunghe file alle poche fontane delle strade per riempire bidoni, comprare l’acqua nei negozi, prelevarla dalle autobotti chissà dove e contadini darsi da fare per costruire invasi nei terreni da destinare alla raccolta delle acque piovane perché l’acqua degli acquedotti arriva poche volte in un mese e per poche ore.
Lentamente anche in questa provincia prendono avvio le prime inchieste giudiziarie tra mille difficoltà e ritardi tanto che alcune volte fanno gridare come l’intreccio massonico, politico e mafioso possa tutto coinvolgere e soffocare, inquinando in alcuni casi, anche quella magistratura ultima speranza di affermazione della legalità.
Le cronache finalmente danno notorietà a quello che molti già conoscevano anche per amara e personale esperienza. Vengono alla luce i cosiddetti “colletti bianchi” quelli che, grazie alle loro contiguità, all’interno della pubblica amministrazione sono in grado di pilotare l’assegnazione di aste e licitazioni.
Tutto era controllato dalla costruzioni di acquedotti, alle strade, agli ospedali, fino ai concorsi ed ai bandi per assegnare un posto di lavoro e quando non si riusciva a favorire i propri amici per l’assegnazione dei lavori ecco la mafia convincere gli imprenditori concorrenti, con la politica degli attentati e delle bombe ai cantieri, a partecipare al grande affare o abbandonare il campo.
Trascorsi i tempi dei rappresentati del gruppo Gradini: Buscemi, Bini e di Filippo Salomone che si spartivano con gli uomini d’onore i grandi appalti, la maggior parte delle inchieste giudiziarie dicono che, in questi anni, a farla da padrone ad Agrigento sono alcuni big dell’Udc, amici e compagni di partito del presidente della regione Salvatore Cuffaro.
Primo fra tutti l’uomo che è stato maestro e guida del governatore: l’ex ministro DC ed ora esponente di rilievo dell’Udc Calogero Mannino. La Corte d’Appello di Palermo dovrà ancora una volta stabilire se l’uomo politico è colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa.
Gli verranno ancora una volta contestati i rapporti con i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo, quelli con i vertici del clan Grassonelli di Agrigento e quelli con esponenti di livello della Stidda per la gestione degli appalti e per aver stipulato con le cosche un patto elettorale.
Alle dichiarazioni di pentiti come Gaspare Mutolo, Leonardo Messina, Gioacchino Pennino, Francesco di Carlo, Giuseppe Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, si aggiungeranno quelle di altri, come Francesco Campanella.
Nel 2004 a Palma di Montechiaro veniva tratto in arresto il consigliere regionale dell’Udc Rosario Icardona per associazione finalizzata alle estorsioni con altre 16 persone tra le quali tale Totuccio Pace fratello di uno dei killer del giudice Rosario Livatino.
Dopo anni di buio più totale, chiusi in chissà quale armadio, gli esiti di più denunce nei confronti degli imprenditori Scifo e Ruscello, che comprovavano il grave quadro d’inquinamento presente presso la provincia ed il comune di Agrigento, sfociavano nella primavera del 2006 nell’inchiesta denominata “Alta mafia” che dimostrava come funzionari dello IACP e del comune della città si fossero lasciati corrompere. Pubblici funzionari che avevano assegnato in modo del tutto illegale appalti sullo smaltimento dei rifiuti del costo di oltre 44 miliardi di lire all’imprenditore ed ex consigliere regionale dell’Udc Gaetano Scifo ed al suo socio Calogero Ruscello ritenuto elemento di livello di Cosa nostra e finalmente emergeva dagli armadi anche quella perizia disposta dalla locale procura che aveva dimostrato come il bando di gara fosse stato redatto con i computer della impresa Scifo e non con quelli del comune.
I due imprenditori, noti anche con l’appellativo “i sodani”, per essere considerati dei fedelissimi dell’ex sindaco ora Sen. Udc. Calogero Sodano, furono anche sponsorizzati infelicemente dal vescovo di Agrigento monsignor Carmelo Ferraro che, sempre poco felicemente, insieme ad alcuni suoi preti, in più riunioni, tentò di convincere i suoi parrocchiani a non ostacolare la realizzazione del mega centro commerciale che Scifo e Ruscello dovevano realizzare a pochi passi dai Templi.
Progetto edilizio che, stando alle accuse, aveva visto sborsare per la sua realizzazione dal duo Scifo – Ruscello forti tangenti a politici e burocrati, primo fra tutti a beneficiarne il deputato regionale ed ex assessore ai lavori pubblici l’Udc, Vincenzo Lo Giudice.
Questa vicenda evidenziò che un nipote del Ruscello, l’avvocato Salvatore Franzone poi difensore dello Scifo, prima di essere rimosso della giunta comunale di Agrigento, si era adoperato per favorire gli affari dello Scifo e dello zio, presiedendo commissioni edilizie e supportando l’approvazione dei progetti relativi al predetto centro commerciale.
Grossi guai li ebbe anche Vincenzo Lo Giudice, ex deputato regionale Udc, assessore al territorio nel governo Cuffaro, già condannato nel 2003 in primo grado per truffa, abuso d’ufficio e falso, nell’ambito dell’urbanizzazione del quartiere di Favara ovest e per abuso d’ufficio nell’attribuzione di un appalto per un depuratore fu tratto in arresto. Accusato di associazione mafiosa e di aver affidato terreni confiscati alla mafia ad una cooperativa legata agli stessi ambienti, non fu il solo ad essere arrestato. Gli fecero compagnia altri due esponenti dell’Udc, Salvatore Iacono e l’ex consigliere regionale Gaetano Scifo, il suo collaboratore Calogero Greco, funzionari pubblici, ingegneri e professionisti tutti accusati a vario titolo di associazione mafiosa, turbativa d’asta e corruzione, per un totale di 43 ordini di custodia cautelare.
Le indagini fecero altresì emergere che, nel corso delle elezioni nazionali e regionali del 2001, la sua candidatura fu appoggiata dai clan mafiosi della provincia di Agrigento e la perquisizione del suo domicilio portò alla luce 500 milioni di lire, frutto di una tangente, nascosti sotto le mattonelle di uno stanzino. Denaro che stava tentando di convertire in euro.
In ulteriori disavventure giudiziarie incorreva anche il Sen. Udc Calogero Sodano, il mitico ex sindaco di Agrigento, già per altro condannato dalla Corte di Cassazione per omissione di atti d’ufficio per non aver controllato il fenomeno dell’abusivismo edilizio.
L’uomo politico eletto con oltre 50 mila voti, secondo l’accusa, incorreva in abusivismo edilizio, alterazioni di bellezze naturali di luoghi sottoposti a vincolo paesaggistico, falso ideologico ed abuso d’ufficio. Sembra che da sindaco avesse irregolarmente trasformato in villa un ovile intestato prima a sua suocera e poi a sua moglie in una zona del Parco dei Templi.
Nel novembre 2006, nel corso di un’inchiesta della procura della Repubblica di Agrigento, veniva tratto in arresto Michele Pellegrino, direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera di Sciacca (AG) e consigliere dell’Udc. a Ribera (AG).
Al direttore era stato contestato di aver pilotato, nel corso delle selezioni della commissione esaminatrice della quale era il presidente, l’aggiudicazione di 11 posti per collaboratore amministrativo bandito dall’Usl II di Agrigento nel 1998.
Nello stesso procedimento erano indagati il dimissionario direttore sanitario dell’Usl I Armando Savarino, sua figlia Giusy Savarino, deputata regionale dell’Udc, altra fedelissima di Cuffaro, il consigliere provinciale di Agrigento dell’Udc Calogero Gattuso e Francesco Miccichè presidente della commissione esaminatrice di un altro concorso.
Armando Savarino, padre del deputato regionale dell’Udc, stando alle accuse, avrebbe manipolato le prove per l’assegnazione di 7 posti di autista per autoambulanza e di 20 posti per la mobilità volontaria, gli assunti, a quanto sembra, avrebbero dovuto dare in cambio il loro voto e quello dei loro parenti in favore della Giusy Savarino candidata all’ARS nel 2001 e 2006.
Le cronache del 19 ottobre 2004 riportavano che ad Agrigento si erano tenute alcune audizioni promosse dalla Commissione nazionale antimafia per meglio conoscere l’incidenza del fenomeno mafioso nella provincia di Agrigento, fortemente radicato sul territorio, e per conoscere l’esito delle indagini in corso.
Nell’ambito di quei lavori si acclarava che un componente della commissione presente alle riunioni, il Sen. Dell’Udc. Giuseppe Ruvolo, era il vice presidente della provincia di Agrigento, oggetto delle indagini.
Il presidente della Commissione l’On. di F.I. Roberto Centaro commentava che la presenza del Ruvolo, assente alle audizioni del sindaco e della provincia di Agrigento, era sì un fatto gravissimo, ma il collega era tenuto a tutelare il segreto delle audizioni.
I manifesti fatti affiggere dal presidente della regione Salvatore Cuffaro sui muri delle città siciliane recitano che la mafia fa anche “schifo”, ma è un dato incontestabile che in tutta la Sicilia specie nelle zone occidentali molti suoi amici ed esponenti di partito sono finiti in carcere o coinvolti in vicende giudiziarie dove più volte è ricorsa la contestazione di concorso esterno in associazione mafiosa.
Il governatore l’ha scampata questa accusa, a lui è contestato il reato di favoreggiamento a Cosa nostra, ancora ribadito il giorno in cui i pubblici ministeri della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ottenevano la condanna a 8 anni per concorso esterno ad un altro dei suoi uomini, il medico ed assessore comunale alla sanità per l’Udc. Domenico Miceli.
Medico che era spesso ospite nella casa di Giuseppe Guttadauro anche lui medico e anche capo della “famiglia” di Brancaccio, un fedelissimo di Bernardo Provenzano. Secondo i pubblici ministeri il Miceli era il tramite del boss Guttadauro con la politica, fino ai vertici politici regionali, ovvero il governatore Salvatore Cuffaro.
Sarà tutto un caso ma l’Udc che è una grande forza politica in Sicilia, dove ha raccolto un consenso quattro volte superiore che nel resto d’Italia, vede, ed è un dato certo, da tempo i suoi maggiori esponenti sotto inchiesta.
E’ scarsa selettività dei propri rappresentanti o strategia di potere ?
Nel tentativo di dare una risposta qualcuno tende ad offrire l’immagine di un partito ancora condizionato da una classe dirigente legata alle vecchie strategie della DC, un partito a trazione meridionale come evidenziato dagli esiti elettorali, dove trova linfa un “metodo Cuffaro” proprio di una persona che si presenta con fare rassicurante, con la voglia di fare qualcosa di nuovo, ma condito di vecchia e sana politica clientelare.
Un metodo per cui qualcuno si chiede se far politica coincide nel soddisfare anche gli interessi dei mafiosi o se il desiderio così forte di far politica con indiscriminata vocazione clientelare spesso porta ad incrociare interessi mafiosi.
Di contrasto abbiamo anche un “metodo Lo Giudice” per cui la regia è in mano alla politica e la mafia in posizione subalterna che fornisce la forza intimidatoria in cambio della partecipazione a qualche affare legato alla realizzazione di opere pubbliche.
La storia dei rapporti mafia e politica anche in relazione a quanto appena detto conferma che non esiste un metodo unico di relazione tra la politica e la mafia, un contesto dove uno primeggi sull’altro, tutto è variabile: in qualche caso avremo la preminenza dell’uomo politico in altri quella del mafioso.
Le qualità degli interpreti, l’importanza degli affari in gioco ed eventuali superiori intromissioni determineranno la leadership; in fondo sono solo fatti di ordinaria compromissione, ma l’aspetto più importante e grave è che il processo democratico è compromesso.
Al di la di ogni configurazione ed esito giudiziario il cittadino non potrà mai più avere fiducia in simili modi di far politica, di amministrare la cosa pubblica e di gestire le risorse economiche, evidenza solo di un uso spregiudicato e, perché no, criminale del potere.




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Il colonnello dei carabinieri
Michele Riccio


Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla Dia, dove riceve da Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina “Grande Oriente” dal nome in codice del confidente Luigi Ilardo - vicerappresentante provinciale di Caltanissetta –, appunto “Oriente”. Al quale Riccio aggiunge il termine “Grande” con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. E’ lo stesso colonnello a raccogliere in prima persona le dichiarazioni del boss, grazie al quale viene svelata parte della vita occulta dell’organizzazione Cosa Nostra e vengono catturati numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte della criminalità organizzata siciliana. Luigi Ilardo verrà ucciso a Catania pochissimi giorni dopo essersi incontrato a Roma con i vertici del Ros e con i procuratori capo delle procure di Palermo e Caltanissetta Gian Carlo Caselli e Giovanni Tinebra per manifestare la propria volontà a divenire collaboratore di giustizia. Il resto è storia o cronaca.


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