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di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello dei carabinieri Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

“Li si mangia molto bene siciliano” per questa frase scritta nella parte inferiore di una mappa, disegnata su un foglio di carta, che indicava un ristorante della periferia di Roma, avvenne il primo contatto con Luigi Ilardo, nipote di quel Francesco “Ciccio” Madonia, boss di Caltanissetta, ucciso dai sicari del Di Cristina Giuseppe e cugino di Giuseppe “Piddu” Madonia, nuovo capo famiglia.
Gli echi degli scoppi delle bombe mafiose che negli anni ’92, ’93 e ’94 avevano colpito e scosso lo Stato sin alle sue fondamenta si erano da poco dissolti, perduti nel quotidiano che aveva ripreso a regolare ogni attività, ma la nostra ostinazione nel cercare di far luce su quei delitti che avevano offeso anche la nostra dignità di cittadini aveva un sussulto nel vedere da chi provenisse quella flebile ma significativa indicazione.
Illuso come altri, che dopo quelle morti, quelle stragi, ognuno a suo modo avrebbe reagito così anche quella parte delle Istituzioni solitamente più lontana alle problematiche mafiose, rifiutando ogni compromesso e vantaggio, sicuro tramite d’interessi oscuri, ascoltai avido di conoscenza le parole di quell’uomo di mafia antica.
“Colonnello: veda che Pietrino, Pietro Rampulla, è uno degli artificieri che sicuramente Cosa nostra ha utilizzato per realizzare gli attentati e le stragi, lo conosco molto bene, già in passato io e la mia Famiglia siamo ricorsi alla sua abilità nel confezionare bombe da attivare a distanza con congegni radio comandati. Rampulla vanta un passato importante fatto di frequentazioni negli ambienti della destra extra parlamentare, Ordine Nuovo, al tempo della nostra breve frequentazione dell’università di Messina conoscemmo persone come Romeo Paolo, Aldo Pardo e Cattafi Rosario di cui divenni grande amico.
Il gran maestro Savona Luigi è stato l’ambasciatore della Massoneria in Sicilia, sceso da Torino per incontrare i vertici di Cosa nostra. Incontri finalizzati ad ottenere l’appoggio della Mafia per attuare un colpo di Stato e che determinarono l’ingresso dei mafiosi nelle varie Logge, al progetto eversivo era partecipe anche tale Gianni Ghisena, amico del Savona, uomo di raccordo tra Mafia, ‘Ndrangheta e Massoneria ed a metà servizio anche con i Servizi Segreti.”
Ilardo disse questo ed altro. Al perché di questa premessa, che in seguito approfondì, rispose: “Cosa nostra non ha agito da sola, il piano è più vasto, articolato, se lei … voi, volete immaginare un’Italia del futuro non potete farlo senza far luce anche sui mandanti esterni di questi delitti.
Il contesto che ha ordito questa nuova strategia stragista e posta in essere da mandanti mafiosi ha la stessa matrice di quello che operò negli anni ’70 con analoga violenza per favorire gl’interessi ed i privilegi di una politica a loro più vicina”.
Già la Politica, questo tema, fu uno dei più ricorrenti dei nostri incontri a partire dall’ottobre 1993 a quella sera del 10 maggio del 1996 quando le prime ombre lo avvolsero nel cadere vittima dei colpi d’arma da fuoco esplosi dai killer di Cosa nostra.
Ilardo appena uscito dal carcere nei primi giorni del gennaio ’94 fu immediatamente riassorbito nell’organizzazione, quella operativa, ed andò a ricoprire un ruolo d’assoluto livello curando gli interressi dei Madonia e diventando il personaggio di riferimento per Bernardo Provenzano, nella Sicilia orientale, che gli affidò ogni incarico specie nel settore degli affari.
In quel tempo Bernardo Provenzano era impegnato a compattare Cosa nostra portandola sotto il suo comando, finalmente libero dall’ingombrante figura di Riina già tratto in arresto. Di quell’evento Ilardo si ripromise di raccontare alcune circostanze che in quel momento definì oscure.
Nell’impegno di raggiungere quest’obiettivo che considerava prioritario. Provenzano ebbe delle iniziali difficoltà con quella parte dell’organizzazione ancora fedele a Riina della quale i latitanti Leoluca Bagarella e Giovani Brusca erano i rappresentanti in libertà.
Anche in questo caso, il quanto mai provvidenziale arresto di questi due ricercati risolse ogni problema e contrapposizione interna, Provenzano ordinò che ogni loro contatto con le imprese fosse rilevato e posto sotto il suo controllo, così progressivamente riassunse il controllo del territorio, dei rapporti con gli ambienti che contano e la gestione di ogni flusso di denaro.
A Riina era contestato non tanto di aver stabilito intese e programmi con il Psi, che dopo gli iniziali successi e fortune reciproche aveva miseramente fallito, ma di aver imposto a Cosa nostra e poi attuato, quella strategia stragista contro lo Stato ed i suoi rappresentanti per indurlo ad allentare l’azione di contrasto contro la Mafia scendendo a compromessi.
L’unico risultato conseguito era stata quella “trattativa” avviata con i rappresentanti di alcuni settori delle Istituzioni presentando alcune richieste a favore dell’organizzazione in cambio della sospensione degli attentati ed anche questo tema Ilardo si riservò di approfondirlo in seguito.
Ancora una volta si parlò di compiere attentati contro lo Stato, fu nel corso di una riunione alla quale parteciparono 6 o 7 “palermitani” ed alla presenza di Provenzano e di Aglieri; la proposta venne da Giovanni Brusca che però era assente a quell’incontro.
Nella circostanza fu detto, che gli attentati dovevano assumere i connotati del tipo terroristico e propri dell’esperienza ETA, le formazioni basche operanti in Spagna, colpendo non singole persone, ma dispositivi delle forze dell’ordine o loro caserme in modo da generare la paura nella collettività e costringere lo Stato a riprendere le trattative con l’organizzazione per allentare la morsa repressiva sempre più strangolante.  
L’intesa con il Psi era nata nel 1985 con l’intento di dare una lezione alla Dc di Salvo Lima e di Giulio Andreotti, perché colpevoli di non aver saputo o voluto contrastare efficacemente l’Antimafia a differenza dei socialisti che in quei giorni erano diventati i paladini del garantismo.
Quell’accordo ebbe un infame e tragico suggello con l’attentato esplosivo attuato da Cosa nostra contro il giudice Carlo Palermo trasferito in Sicilia dopo aver osato in Trento svolgere indagini su connessioni emerse nei confronti di alcuni esponenti del Psi molto vicini a Craxi.
Nello scoppio della bomba al transito dell’auto sulla quale viaggiava il magistrato trovarono invece la morte, vittime casuali, una madre con i suoi due figli.
Nelle elezioni regionali del 1986 e poi in quelle nazionali del 1987 il Psi aumentò vertiginosamente il numero dei voti, gli On. Claudio Martelli per la provincia di Palermo e Salvo Andò furono i candidati di riferimento.
Per avervi partecipato quale accompagnatore di Aldo Ercolano, nipote di Santapaola, Ilardo raccontò che questi ed il Santapaola avevano incontrato Salvo Andò presso gli uffici d’alcuni cantieri del potente cavaliere del lavoro di Catania e costruttore Gaetano Graci.
Natale Emanuele, esponente di livello di Cosa nostra in Catania, gli confidò che i suoi uomini per sostenere la candidatura di Salvo Andò in città, avevano organizzato nel quartiere di Monte Po addirittura una sezione del Psi. L’uomo politico prima cercò ed ottenne il sostegno della Mafia promettendo iniziative giudiziarie a favore anche dei latitanti più importanti, come sanatorie, ma diventato Ministro della Difesa, nel timore di compromettere la sua carriera ed essendo già all’orizzonte i primi pericoli giudiziari, rinnegò ogni rapporto avversando la Mafia e come alibi della sua intransigenza inviò l’esercito in Sicilia, imitato in questo comportamento dal collega Claudio Martelli Ministro di Grazia e Giustizia. 
 “Colonnello se lei pensa che qualche uomo d’onore incontrò Andreotti, Craxi o Martelli in Sicilia, si sbaglia, i contatti avvenivano con i loro rappresentati, noti a tutti per essere tali, persone ad esempio come Salvo Lima, Salvo Andò, si parlava con loro, si prendevano accordi e questi dicevano andremo a Roma per riferire e vi faremo sapere e ci facevano comprendere chiaramente con chi sarebbero andati a parlare.”
Furono i socialisti a bruciare Falcone all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, circostanza che gli venne ufficialmente confermata quando era detenuto presso il carcere dell’Ucciardone anche dalla madre, latrice dei vari messaggi che gli venivano invitati dal vertice della famiglia. In quei giorni nella casa circondariale di Palermo lui come altri aveva seguito con attenzione i vari telegiornali per cogliere la notizia dell’attentato al magistrato che doveva essere eseguito impiegando un lancia missile, come gli aveva confidato il boss Filippo Marchese, ma poi tutto rientrò perché ci avevano pensato, come detto, i politici.
Negli ambienti di livello di Cosa nostra in seguito gli fu confidato che la morte di Falcone era stata addirittura ispirata da Martelli che agiva per conto di Andreotti.
In quei giorni Bernardo Provenzano aveva fatto sapere ai quadri direttivi delle varie famiglie di Cosa nostra, che superati i progetti di costituire un autonomo soggetto politico per meglio tutelare gli interessi dell’organizzazione, aveva stabilito un contatto e consolidate intese con un personaggio di rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi, erano “nelle mani giuste”.
Questi in cambio di un loro futuro appoggio alle elezioni politiche, votando Forza Italia, aveva assicurato che già dopo i primi sei mesi di governo avrebbero predisposto lo studio ed il varo di leggi più favorevoli per le persone detenute, più garantiste per quelle inquisite, promosso una revisione dei processi e lo Stato avrebbe progressivamente allentato l’azione di contrasto contro la Mafia favorendone lo sviluppo degli interessi economici, concedendo appalti e finanziamenti statali.
In seguito Ilardo mi svelava che il personaggio in grado di dare quelle assicurazioni era Marcello dell’Utri.
A seguito di queste relazioni Provenzano prevedeva, che entro 5/6 anni questo progetto sarebbe stato realizzato ed in ragione di ciò ogni famiglia mafiosa doveva raggiungere al più presto una propria stabilità interna, risolvendo pacificamente ogni disputa e nominando un unico referente per tornare infine alle vecchie attività criminali meno cruente: estorsioni, pizzo, ecc, dando a Cosa nostra una immagine più affaristica e colloquiante con lo Stato.
Parallelamente a queste direttive Ilardo si accorse che nel loro ambiente si stava diffondendo con particolare insistenza la voce che molti mafiosi, in maggior parte reclusi, erano intenzionati a dissociarsi da Cosa nostra e disposti ad ammettere unicamente le loro responsabilità. Questa volontà l’avevano affidata a vari sacerdoti per farla filtrare all’esterno del circuito carcerario.
Ilardo vedeva in questa presunta resa dei mafiosi un’altra componente del progetto di accordi stabilito da Provenzano con i vertici delle nuove forze politiche, strumentale ad inabissare la Mafia, rendendo noto solo quanto poteva essere intuibile, mentre occultamente avrebbe operato una nuova struttura criminale composta da insospettabili più compartimentata e dedita agli affari.   
Nel votare Forza Italia e lo schieramento del quale faceva parte i vari candidati, sui quali far confluire le preferenze, sarebbero stati indicati da “Palermo” se frutto di preventivi accordi con i vertici del nuovo soggetto politico, altrimenti ogni famiglia avrebbe favorito il candidato a lei più vicino.
Nel sottolineare come Provenzano fosse più abile di Riina nel gestire la Politica, Ilardo mi riferì che lo Zio in questo tema era persona di “ampie vedute”: una famiglia di Cosa nostra poteva anche favorire il candidato di uno schieramento avverso se gli accordi raggiunti con questi fossero stati particolarmente vantaggiosi per l’organizzazione, sempre previa valutazione ed assenso del capo di Cosa nostra..
Nel dire questo Ilardo mi confidava che Provenzano era legato a personaggi politico – istituzionali ed imprenditoriali diversi da quelli con i quali era in contatto Riina e con i quali non aveva mai smesso di dialogare.
Tanto è vero che quando aveva visto Simone Castello, l’imprenditore orto frutticolo di Bagheria, partire per la Calabria per imbucare le lettere che gli aveva affidato Provenzano e dire a quanti erano presenti della famiglia Madonia “ne vedremo delle belle”, nel commentarmi l’episodio, avanzò l’ipotesi che quelle lettere potessero avere uno scopo simile a quelle che avevano innescato la vicenda del corvo di Palermo.
Per Ilardo quegli scritti non erano frutto del capo di Cosa nostra, ma sicuramente gli erano stati ispirati da persone di assoluta fiducia di politici come Andreotti, Forlani o Craxi ai quali Provenzano era legato.
L’aver accolto e posto a lui vicino Pino Lipari, quando questi aveva abbandonato il vecchio patriarca di Cinisi (PA) Gaetano Badalamenti, da sempre vicino alle vecchie correnti della Dc, era ulteriore evidenza delle capacità di Provenzano sempre attento non solo a garantirsi le gestione delle imprese con le quali questi era in collegamento come i gruppi Lodigiano e Costanzo, ma ad avere un altro tramite con quegli ambienti politici di livello.    
Dove si spingessero le “ampie vedute” di Bernardo Provenzano avevo diretto e personale riscontro quando seguendo su indicazione di Ilardo le attività di Simone Castello, noto per essere uno dei “postini” più fidati di Provenzano per inviare messaggi alla famiglia Madonia, emergeva la figura del suo socio, Antonino Fontana, già vice sindaco di Villabate (PA).
Questi era già noto alle cronache e non solo giudiziarie, nel 1981 l’allora segretario comunista Pio La Torre, assassinato poi l’anno seguente da uomini di Cosa nostra, aveva tentato inutilmente di espellere il Fontana dal partito per via delle tante, troppe amicizie imbarazzanti con ambienti considerati vicino alla Mafia e per un suo stato di ricchezza raggiunto troppo velocemente.
Fontana, noto come mister Miliardo o l’uomo delle Coop rosse, più volte era stato accostato al giro delle truffe all’Aima, la Comunità europea rimborsava ai produttori di agrumi la macerazione della sovrapproduzione e questi, per moltiplicare gl’incassi, pesavano più volte il carico prima di distruggerlo.
Successive inchieste dell’antimafia hanno anche accertato i suoi rapporti di conoscenza con l’ingegner Giuseppe Montalbano altro importante e facoltoso esponente del Pci siciliano che aveva assunto come impiegata presso il suo complesso residenziale di Torre Makauda a Sciacca (AG) la figlia del Fontana, e più noto per essere il proprietario della casa in Via Bernini 52/54 dove Totò Riina si era rifugiato prima di essere arrestato.
A questo stesso ambiente politico facevano riferimento anche gli imprenditori Cavallotti e lo stesso Provenzano che, con i suoi “pizzini” inviati ad Ilardo per comunicare gli incarichi che doveva assolvere, dava riscontro ai rapporti:
Imp. Coop. Il progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina deve fare il consolidamento pile sul Fiume Gela sotto il Viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 Bis Importo 500 m circa questo lo comninceranno verso la fine Febbraio 1995.
Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml (miliardi)
Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml (miliardi)
Dammi una risposta se li raccomandi ho nò.
Carissimo, con piacere ho ricevuto il tuo scritto, mi piaccio tanto nel sentire, che godeti tutti di Ottima Salute. Lo stesso posso assicurvi di me.
Te ne sono grato del tuo interessamento per la ditta che ti ho segnalato (Cavallotti) e sendo tutto quello che tu mi dici in merito, e mi dispiace, sia quello che tu mi dici, e sia quello che loro mi dicono: Cioè mentre io cercavo, mi cercavano perché ci hanno rubbato un martellone, e due saldatrice, che io vi prego se poteti recuperarli, e lo comunicate a me, e non alloro voi direttamente, ditelo a che io lo comunico a colui che ti ho raccomandato.
Erano ancora i bigliettini di Provenzano dove chiedeva ad Ilardo di occuparsi della corretta ripartizione del denaro dato dalla SNAM con suoi impianti di estrazione del gas nelle province di Agrigento e Caltanissetta ai locali referenti di Cosa nostra o del ritiro del denaro dato dalla ditta Demoter in Barcellona Pozzo di Gotto (ME) e ricca delle commesse miliardarie di gruppi come La Saipem (ENI), le Ferrovie dello Stato o la SNAM progetti a confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, le tante e fruttuose relazioni politico – affaristiche dello Zio.
In relazione di ciò Ilardo mi riferì che Provenzano aveva contatti esclusivi e privilegiati con tale ing. Bracaletti, capo area della Lodigiani, che in quel tempo stava realizzando dei lavori presso la Diga Aidone e dell’ing. Bini, capo area della “Calcestruzzi s.p.a.” di Ravenna, appartenete al defunto Gardini che, con la protezione di Cosa nostra, aveva realizzato ben 29 impianti in Sicilia. Quando accennò a queste relazioni mi confidò che Provenzano aveva personali e riservate entrature con potenti ed importanti imprenditori del Nord Italia, ma nonostante le mie insistenze fece solo i nomi di Gardini e di Ligresti e come sempre rimandò ogni discorso in sede di collaborazione ufficiale.
Solita premessa che mi fece un giorno, quando più di altri, parlammo dei rapporti Mafia e Politica, in quella occasione mi disse che conosceva come uomini d’onore Salvo Lima e Gioia Giovanni entrambi potenti esponenti della Dc, mentre erano considerati “vicini” a Cosa nostra Carmelo Santalco già Sen. della Dc di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), l’On. Calogero Mannino della Dc, l’On. Salvo Andò del Psi, Pippo Campione già presidente regionale dell’antimafia, l’avv. Occhipinti, Maira Raimondo di San Cataldo (CL) nipote di Maira Beniamino, Enzo Coco Sen. della Dc, Dino Madaudo già sottosegretario agli Interni, Saverio D’Acquino già sottosegretario anche lui agli Interni del Pli.
Parlando dell’On. Mannino mi raccontò, che questi era strettamente controllato dalla famiglia di Cosa nostra di Agrigento e l’assassinio del m.llo dei carabinieri Guazzelli era stato anche un segnale di avvertimento nei confronti del politico essendo noti i suoi rapporti di stretta amicizia con il militare.
In quell’intesa ormai raggiunta e consolidata tra Provenzano ed il vertice di “Forza Italia” si mosse di conseguenza l’intera Cosa nostra ed Ilardo, come prima segnalazione di candidati sui quali sarebbero confluiti i voti della Mafia, mi riferiva che in Palermo avrebbero sostenuto tale Vincenzo La Russa, figlio del Sen. Antonino La Russa, candidato in una lista unica composta da Alleanza Nazionale e Forza Italia.
In Caltanissetta per tale Maira Raimondo Luigi Bruno era stata invece organizzata una lista ad hoc, “Solidarietà Occupazione Sviluppo”, perché troppo esposto per le sue amicizie e relazioni con ambienti vicini alla mafia e quindi poco opportuno da presentare come un candidato di Forza Italia.
Da quel giorno si susseguirono numerose le segnalazioni d’Ilardo d’incontri che ebbe con esponenti di quelle forze politiche nell’assolvere i vari compiti che gli erano stati affidati come rappresentante di Provenzano e dei Madonia. Presso il comune di Enna nel seguire i lavori della costituenda discarica partecipò a più riunioni con vari imprenditori interessati all’affare ed ebbe modo d’incontrare più volte il Sen. Roberto Grippaldi di Alleanza Nazionale, ora defunto.
L’uomo politico, nel chiedere l’appoggio di Cosa nostra, confermò che, in caso di vittoria del suo partito e della coalizione della quale faceva parte, si sarebbero subito impegnati ad ottenere una riduzione dei termini della custodia cautelare con maggiore selezione dei casi in cui applicarla.
Era importate battere l’attuale governo definito quello dei magistrati, perchè a suo dire era stato in grado solo di scatenare una indiscriminata repressione, impoverendo il Paese e determinando una grave crisi imprenditoriale con la chiusura di molte aziende e licenziamenti in massa della manodopera.
Queste stesse promesse e considerazioni Ilardo ebbe modo di ascoltarle nuovamente in Catania quando incontrò il Sen. Domenico Sudano del Cdu, l’uomo politico chiese il suo aiuto quale esponente di Cosa nostra per affrontare la prossima campagna elettorale. In un successivo incontro gli confidò che stava valutando la possibilità di non candidarsi più perché era sotto inchiesta giudiziaria per vicende di carattere terriero. Preoccupazione che evidentemente superò perché nel luglio 1996, due mesi dopo la morte d’Ilardo, si presentò come il Grippaldi alle elezioni regionali diventando Senatore nella lista dell’Udc.
Per tutelare maggiormente la figura dei vari candidati di Forza Italia e dei partiti del medesimo schieramento politico fu deciso che nella maggioranza dei casi sarebbero stati gli imprenditori a gestire la campagna elettorale nei confronti delle varie cosche mafiose, proprio come stava avvenendo in quei giorni in Gela (CL) per un esponente di Forza Italia candidato per il Senato e quella di uno di Alleanza Nazionale per la Camera dei Deputati.
Nel parlare del nuovo ruolo assunto dalla maggioranza degli imprenditori Ilardo mi rappresentò che per favorire l’affermazione di Forza Italia stavano strumentalmente alimentando la protesta delle loro maestranze grazie all’azione di loro referenti interni che accreditavano il ricorso alla cassa d’integrazione o del licenziamento quale conseguenza della indiscriminata lotta alla Mafia condotta dai Magistrati che, paventando collusioni in ogni settore, avevano reso ardua e pericolosa ogni loro iniziativa e relazione con i Politici causando difficoltà gestionali e minori commesse di lavoro .
In questa ricerca di consensi Ilardo mi raccontò, ed in un’occasione ebbi la possibilità di assistere anche ad un loro incontro, che un suo amico, l’avvocato Minniti d’Ardore (un paese in provincia di Reggio Calabria), che già lo aveva assistito in più vicende di carattere familiare e conoscente anche di suo cugino Giuseppe “Piddu” Madonia, lo aveva contattato in più occasioni per ottenere il suo appoggio anche in Calabria dove gli erano note le sue notevoli entrature anche sul quel territorio per sostenere la campagna elettorale di Forza Italia.
L’avv. Minniti, per quanto mi spiegò Ilardo, era considerato un autorevole rappresentante di Forza Italia in Calabria, perché nel passato aveva già ricoperto importanti incarichi in ambito politico stabilendo forti legami di amicizia con un Senatore del luogo e per quanto fosse sicuro di riscuotere un successo personale alle prossime elezioni aveva deciso di operare per ora solo per il partito.
Nel valutare e prendere in considerazione la possibilità di collaborare ufficialmente con la Giustizia, ciò accadde nell’ultimo periodo, Ilardo, nel farmi presente di aver appena incontrato un parente del boss Domenico Farinella con il quale era in contatto riservatamente, con la premessa di non fare alcun accenno ai miei superiori per ragioni della sua incolumità, mi confidò che questi era il terzo mandante mafioso degli attentati stragisti.
Il Farinella era molto legato all’imprenditore Michelangelo Alfano di Bagheria. Questi con le sue importanti relazioni politico – istituzionali in Roma era un altro canale strategico di Cosa nostra con gli ambienti deviati delle Istituzioni, della Politica e della Massoneria.
Rapporti che l’Alfano aveva maggiormente coltivato quando si era trasferito in Roma da Messina dove fino ad allora aveva operato come imprenditore di successo, aveva il monopolio delle pulizie per ogni carrozza ferroviaria circolante in Sicilia, cambio di residenza per rendere più difficili i riscontri alle accuse di connivenza con la Mafia, che gli aveva mosso Contorno e delle quali era stato riservatamente informato.
Ilardo nel riferirmi come Cosa nostra avesse seguito con attenzione l’improvvisa religiosità di Santapaola, temendo fosse il primo sintomo di un latente desiderio di pentimento, mi spiegò che l’organizzazione temeva le conseguenze di una collaborazione di un affiliato storico e di livello perché poteva colpire quelle connessioni con i vecchi ambienti politico – istituzionali ed i loro successivi referenti interni sede del vero potere di Cosa nostra.
Ilardo ormai organico a quel gruppo di gente, che tanto lo aveva colpito da giovane quando faceva da autista e guardia spalle allo zio Francesco Madonia, per il senso dell’amicizia e per come parlavano e si rivolgevano fra loro, modello di comportamenti, che gli aveva fatto comprendere che quelle persone così diverse dalle altre solitamente da lui frequentate si erano date delle regole e dei principi come uno Stato nello Stato, mi disse più volte, che nella sua collaborazione con la Giustizia avrebbe fatto luce anche su i mandanti esterni dei delitti degli On.li Pier Santi Mattarella e Pio La Torre e di Giuseppe Insalaco già sindaco di Palermo.
L’importanza e le probabili conseguenze di questa decisione le colsi nelle prime ore di quel pomeriggio del 2 maggio 1996 quando in attesa d’introdurre Ilardo a quel primo ed unico incontro con i magistrati di Palermo e di Caltanissetta convenuti in Roma presso il ROS lo presentai al col. Mario Mori.
Ilardo senza alcun convenevole disse al collega solo poche parole, che lo ascoltò muto ed impietrito: “molti degli attentati, che sono stati attribuiti esclusivamente a Cosa nostra, in realtà i mandanti risiedono delle Istituzioni”.
Altrettanto significative ed importanti furono le parole che mi disse Ilardo e che potei registrare pochi giorni dopo e poco prima di essere ucciso quel 10 maggio 1996 nell’imminenza di entrare nel programma di protezione:  
<<…..E’ vero l’intreccio mafia e politica in Sicilia è avvenuto. La maggior parte dei delitti politici in Sicilia non sono stati a favore di Cosa Nostra, Cosa Nostra ha subito solo danni da questi omicidi, quelli che ne hanno tratto vantaggi sono stati solamente i Politici, incominciando dall’uccisione di Mattarella, Insalaco e Pio la Torre……
..…dalle usanze che ci sono in Sicilia, quando un onorevole dava una battuta ad un “uomo d’onore” con il quale era in confidenza e diceva quello sta rompendo le scatole, detto in un certo qual modo significava che quello era un pericolo.
Quindi si doveva già incominciare a provvedere a farlo stare zitto, oppure toglierlo dalla scena completamente….>>
Michele Riccio

* Quanto riportato nel presente articolo è tratto dalle trascrizioni originali delle dichiarazioni di Luigi Ilardo registrate dal col. Michele Riccio nel 1996, depositate successivamente nel processo “Grande Oriente”. La morte del confidente Luigi Ilardo ha impedito che tali dichiarazioni potessero essere ripetute davanti ai magistrati al fine di effettuare i necessari riscontri; in alcuni casi non è stato mai avviato alcun procedimento penale a carico di taluni personaggi citati dal confidente.
Il col. Riccio ha deposto come teste nel processo per l’omicidio di Pio La Torre, nel procedimento penale denominato “Grande Oriente”, nel processo a carico dell’On. Salvo Andò e nel processo Dell’Utri.



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Il colonnello dei carabinieri
Michele Riccio


Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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