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di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello dei carabinieri Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

Una notte non più afosa di altre che avevano caratterizzato quel luglio 2003 vedeva un vecchio e sofferente siciliano “col volere del Signore” partire in auto da Bagheria per raggiungere la Francia.
A Marsiglia, presso la clinica La Ciotat, lo attendevano tutta una serie di accertamenti clinici propedeutici ad un successivo intervento chirurgico alla prostata, male che da tempo lo affiggeva.
In quel viaggio il vecchio non era solo, lo accompagnavano il figlio ed un amico di questi per alternarsi alla guida dell’autovettura. Aveva deciso di viaggiare in auto perché era più pratico, muoversi con treni o con aerei avrebbe richiesto più spostamenti e quindi fastidi, per non parlare poi dei soliti ritardi o degli scioperi sempre frequenti in quel periodo.
Viaggiare in aereo gli aveva fatto sempre paura e non sarebbe stata quella maledetta prostata a convincerlo questa volta a venire meno alla sua innata prudenza.
Prima d’imboccare il casello autostradale a Casteldaccia distrattamente gettò un’occhiata alla gente che affollava come sempre a quella ora il lungomare con la piazzetta di quel piccolo paese incollato a Bagheria, dove l’unico locale offriva meravigliose granite e gelati con la brioches indispensabili a quel popolo notturno per accompagnare l’ultima chiacchiera prima di recarsi a dormire.
Quando l’ultima luce si perse dietro l’auto, l’anziano signore chiuse gli occhi, che in quel volto magro e scavato dal trascorrere del tempo diventarono due impercettibili fessure, poi nel rilassarsi sul sedile posteriore dove aveva preso posto, come per verificarne la presenza, strinse per un attimo la borsa di pelle che non aveva voluto riporre con la valigia nel bagagliaio dell’auto.
Preferiva avere accanto a se i suoi documenti, quanto necessario per il viaggio e la documentazione medica che avrebbe mostrato al suo arrivo ai medici francesi per meglio attestare lo stato della sua malattia, così le autorizzazioni dell’Usl 6 di Palermo che lo autorizzavano a visite, ricoveri ed interventi in Francia.
Come sempre – considerò - aveva cercato di fare tutto per bene e per tempo, senza lasciare nulla al caso, alla fine delle cure pensò con una fugace sensazione di soddisfazione avrebbe richiesto anche il rimborso delle spese sostenute. Rincorrendo quell’ultimo pensiero il sig. Gaspare Troia, 72 enne di Villabate, come attestavano i suoi documenti nella borsa, si addormentò tranquillamente.
Prima di traghettare fu svegliato dal figlio Salvatore e da Nicola Mandalà, vedere la Sicilia  allontanarsi a poco a poco gli dava sempre una certa emozione, era come salutare una persona a cui si voleva bene e a cui si prometteva di rivederla al più presto.
Il sig. Gaspare Troia quel luglio 2003 presso la clinica “La Licornie” di Marsiglia fece come previsto tutti gli accertamenti clinici richiesti e con le stesse modalità di viaggio ritornò nella città francese il 1° di ottobre per essere ricoverato ed operato in un altro ospedale.
Affrontò ben due interventi e tra il primo ed il secondo ricovero trovò dimora presso un residence della città accudito da sua nuora, Madaleine Orlando, moglie di Salvatore, brava e premurosa non solo come infermiera, ma anche come madre di due figli.
Qualche volta Madaleine andò a trovarlo in ospedale, ma le chiese gentilmente di lasciarlo solo per meglio riposare e riprendere le forze tanto che chiese alla direzione dell’ospedale di non mettergli il telefono in stanza.
Era sicuro che parenti ed amici non avrebbero resistito alla tentazione di chiamarlo per sapere come stava e come procedevano le cure, aveva bisogno di “pace e tranquillità” la migliore medicina per risolvere ogni problema, non per nulla era il “consiglio” che dava da sempre a tutti.
Salvatore e Nicola Mandalà li vide ancora meno, neanche in quelle rare passeggiate che nell’attesa del secondo intervento riuscì a fare per la città, vicino al porto, dove l’aria era più fresca ed i quartieri più simili a Palermo.
In ogni modo quei due non si annoiarono, uscirono sovente ed anche il vicino Casinò li vide qualche volta tentare la fortuna ai tavoli della roulette, in fondo potevano permetterselo, aveva fatto loro un bel regalo, così come alle loro rispettive famiglie, per il disturbo arrecato e si sa, quando i vecchi vogliono essere generosi lo sono particolarmente.
Il 4 novembre finalmente il sig. Gaspare Troia lasciò l’ospedale di Marsiglia e ritornò nella sua bella terra di Sicilia per la convalescenza.
Quanto raccontato sembrerebbe la cronistoria al quanto banale e noiosa del viaggio e del soggiorno di un qualsiasi malato per curarsi presso una struttura medica ospedaliera straniera una volta ottenuta la prescritta autorizzazione, ma tutto assume una luce diversa, quando poi si afferma che quell’anziano e sofferente malato non è Gaspare Troia, ma Bernardo Provenzano.
La verità su quel viaggio emergerà due anni dopo a seguito l’arresto di un mafioso, tale Mario Cusimano, eseguito dalla Polizia di Stato nel gennaio 2005 nell’ambito di una più vasta operazione nei confronti di numerosi affiliati mafiosi e responsabili anche della gestione della latitanza di Provenzano.
Il Cusimano racconterà ai magistrati di Palermo che Salvatore Troia e Nicola Mandalà, tratti in arresto nella stessa circostanza, non aveva accompagnato in Francia Gaspare Troia padre di Salvatore, ma Bernardo Provenzano e la moglie di Salvatore aveva accudito con tanta premura non il suocero, ma il capo della più sanguinaria organizzazione criminale presente in Italia e latitante da 42 anni.
Come se nulla fosse accaduto
Pochi giorni prima del primo viaggio in Francia di Provenzano e dei mafiosi della cosca di Villabate, le cronache dei giornali davano ampio risalto all’arresto eccellente di un altro personaggio di Villabate accusato di associazione mafiosa insieme ad altre 15 persone Antonino Fontana.
I titoli di quel 10 giugno 2003 riportavano: “Mafia arrestato l’ex vice sindaco di Villabate, Antonino Fontana, socio di Simone Castello postino di Provenzano e già noto 20 anni fa come mister Miliardo”. “Arrestato per Mafia l’uomo delle coop rosse”.
L’arresto dell’ex dirigente del Pci – Pds era avvenuto nel corso di un’inchiesta condotta dalla Procura di Palermo che aveva fatto luce su ambienti politico imprenditoriali in grado di pilotare le commesse pubbliche e che avevano strette relazioni con gli ambienti di Cosa nostra.
Già nel 1981 l’allora segretario comunista Pio La Torre, assassinato poi l’anno seguente da uomini di Cosa nostra su input anche di mandanti esterni all’organizzazione mafiosa, aveva tentato inutilmente di espellere dal partito quel dirigente tanto “chiacchierato”, dalle tante, troppe amicizie imbarazzanti e con uno stato di ricchezza raggiunto troppo velocemente.
In quei tempi il nome di Antonino Fontana, presto battezzato “mister Miliardo”, dopo aver assunto con altri soci la guida dell’associazione produttori agricoli, circolò con insistenza nel giro delle truffe all’Aima: la Comunità europea rimborsava ai produttori di agrumi la macerazione della sovrapproduzione e questi per moltiplicare gl’incassi pesavano più volte il carico prima di distruggerlo.
Nel 1994 nell’ambito dell’inchiesta Grande Oriente si riparlò delle sue relazioni inquietanti con gli ambienti di Cosa nostra per i suoi rapporti con il socio Simone Castello, l’imprenditore d’agrumi di Bagheria accusato e poi condannato con l’accusa di essere stato uno dei “postini” più fidati di Bernardo Provenzano, trait d’union tra il capo di Cosa nostra ed i vertici della famiglia mafiosa di Giuseppe “Piddu” Madonia ed amico dei più importanti uomini d’onore di Bagheria.
Nonostante ciò nulla fermò Antonino Fontana. Nel 1997 venne nominato stretto collaboratore del sindaco di Ficarazzi, un comune incollato a Villabate e poco dopo entrambi i Municipi insieme a quello di Bagheria con decreto ministeriale venivano sciolti per mafia.
Sempre in quei giorni più volte il suo nome emerse nelle carte dell’inchieste dell’antimafia per i rapporti di conoscenza con l’ingegnere Giuseppe Montalbano, il padrone della casa dove si era rifugiato Totò Riina e proprietario del complesso residenziale di Torre Makauda a Sciacca (AG) dove sua figlia era impiegata.   
L’arresto di Antonino Fontana, le indagini e le varie perquisizioni in Villabate non preoccuparono più di tanto Provenzano nonostante il suo nome e le ricerche nei suoi confronti venissero ancora una volta rilanciate su i giornali, partì tranquillamente per la Francia con i due suoi affiliati della cosca Villabate, sapendoli evidentemente non oggetto di quell’inchiesta.
La stessa tranquillità e sicurezza Provenzano l’ostentò anche in occasione del secondo viaggio ottobre - novembre 2003 nonostante fossero in corso altre importanti inchieste della Procura di Palermo che lo chiamavano ancora in causa e si fosse da poco spento l’eco di una intervista resa ai telegiornali televisivi dal ministro dell’Interno Pisanu che annunciava la sua imminente cattura dopo la scoperta del suo ennesimo covo.
In quei giorni, dopo mesi d’indagini, giungeva con fragore l’arresto dell’imprenditore Michele Aiello che scuoteva gli ambienti politico – imprenditoriali ed istituzionali di Palermo.
Questi, conosciuto come “l’ingegnere”, era presto definito anche il signore della sanità siciliana perché al capo di un piccolo, ma ricchissimo impero costituito da una miriade di aziende edili e di un centro diagnostico e di cura di altissima tecnologia in Bagheria, “villa santa Teresa” ed il tutto prosperato vertiginosamente sotto la protezione di Bernardo Provenzano.
Stessa sorte di Aiello seguivano anche due marescialli: Ciuro della Guardia di Finanza in servizio alla DIA ed impiegato presso la Procura di Palermo e Riolo dei Carabinieri in servizio al ROS specializzato nell’installare micro telecamere e  micro spie nelle indagini sulla mafia e per la ricerca dei latitanti.
I due militari, molto noti negli ambienti dell’Antimafia, erano accusati di far parte integrante di una rete riservata d’informatori al servizio dell’Aiello e quindi di Cosa nostra, transitando dati e notizie per tutelare gli affari connessi alle attività “dell’ingegnere” che lo vedevano in relazione anche con  il presidente della regione siciliana Totò Cuffaro.
In quel clima di pesante imbarazzo e di grandi sospetti che si addensava giorno dopo giorno con crescente intensità sul Palazzo di Giustizia di Palermo già scosso da quelle indagini condotte così riservatamente da essere sconosciute a metà della Procura, i giornali iniziarono a tratteggiare con maggiore interesse la figura dell’Aiello.
Nonostante fosse una delle figure imprenditoriali più note di Palermo era riservato come pochi, non amava ostentare la grande ricchezza raggiunta preferendo mantenere lo stesso tenore di vita di quando giovane impresario edile di Bagheria rincorreva ogni lavoro anche nella landa più impervia e desolata della Sicilia.
L’essere disponibile con tutti, pronto a fare un favore o dare un consiglio presto gli aveva creato consenso e rispetto, specie in Bagheria dove era di pubblico dominio l’amicizia che fin da ragazzi lo legava a Pietro Lo Iacono, uomo d’onore e fedelissimo di Provenzano.    
Fiore all’occhiello delle tante e “fortunate” attività che aveva realizzato era la clinica di “santa Teresa” nota per essere il centro medico più attrezzato dell’Italia meridionale.
Tra le apparecchiature d’avanguardia, la più importante era quella per la cura dei tumori anche per quelli presenti nella zona addominale e pelvica come la prostata, ma Provenzano già da tempo aveva preferito rivolgersi altrove evidentemente “consigliato” in tal senso.
La grande illusione
Si è detto che negli anni Settanta e Ottanta nessuno avesse cercato Bernardo Provenzano, molti collaboratori hanno poi raccontato di averlo visto in quegli anni già latitante girare tranquillamente per Palermo utilizzando sovente una cinquecento come il pentito Calogero Gangi che ricorda di averlo visto arrivare ogni sabato mattina alla macelleria di via Lancia di Brolo, alla Zisa per comprare la carne migliore e più tenera ai figli.
Dopo le tante stragi degli anni Novanta, si disse che era ora di recuperare il tempo perduto. Fu detto da tanti, ma furono pochi a metterlo in pratica.
Quando iniziai l’indagine Grande Oriente che aveva come obiettivo principale i mandanti esterni degli attentati stragisti degli anni ’92 - ’93, nodo che genera ogni problema ed inquinamento, una delle prime notizie che acquisii e riferii superiormente fu quella di un Provenzano ancora in vita, capo di Cosa nostra perché mente dell’organizzazione e di un Riina braccio armato che credeva di comandare perché violento.
Provenzano era già afflitto da una seria malattia alla prostata tanto da essere stato ospite obbligato in una villetta di Bagheria, dove per un certo periodo di tempo aveva ricevuto cure ed assistenza medica.
Il fatto che lo Zio fosse ancora in vita fu un problema che si risolse quasi subito, l’occasione la diede lui stesso quando, grazie alle indicazioni d’Ilardo Luigi, riscontrammo che Simone Castello si era recato a Reggio Calabria per spedire una lettera firmata dal latitante con la quale comunicava al Tribunale di Palermo la nomina dei suoi difensori di fiducia per alcuni processi in corso.
La seconda indicazione invece trovò più resistenze e per molto tempo, non venne né contestata o commentata, ma semplicemente ignorata e si continuò a dire che era Riina il capo di Cosa nostra al quale nessuno era in grado di opporsi.
Imparai a conoscere questo comportamento o metodo sempre di più con il trascorre del tempo.
Rappresentai una disamina che si era affrontata con Ilardo sulla situazione interna a Cosa nostra e delle strategie che Provenzano stavano perseguendo.
Questi stava man mano assumendo il controllo dell’organizzazione: l’ala stragista e fedele a Riina sempre più in difficoltà, anche a seguito degli arresti che l’avevano colpita; positivi i primi contatti con un nuovo soggetto politico: Forza Italia.
Soggetto relativamente nuovo perché i vecchi ambienti politici da sempre vicini a Cosa nostra erano confluiti in quel grande contenitore e Provenzano era legato da tempo ad alcuni di quei personaggi molto più abili e diversi anche politicamente da quelli in contatto con Riina.
Riina, dopo aver avviato una trattativa con un settore delle Istituzioni, incontrando alcuni suoi rappresentanti al fine di trovare un accordo per ottenere migliori condizioni di sopravvivenza di Cosa nostra in cambio della fine degli attentati, era stato arrestato nel corso di un’operazione dietro alla quale aleggiavano molte ombre.
Quel giorno Ilardo non volle aggiungere altro, aveva già detto troppo e rinviando ogni approfondimento aggiunse solo: “In Sicilia gli uomini d’onore si ammazzano o si vendono”, lasciando intendere che Riina era stato vittima della sua stessa trattativa.
Nella villetta di contrada Incorvina in Bagheria dove lo Zio era stato “curato” aveva ricevuto anche le visite di Maria Stella Madonia sorella di “Piddu” e della moglie di Giuseppe “Piddu” Madonia, che di rientro da un viaggio in Roma gli avevano portato delle medicine difficilmente reperibili in Sicilia.
Accertai, sempre confortato dall’aiuto di Ilardo, che Provenzano utilizzava alcune volte per i suoi spostamenti una delle auto-ambulanze del centro assistenza “Associazione fratellanza” gestito dai familiari e dalla moglie di Lo Iacono Pietro.
Delle condizioni precarie di salute di Provenzano dovute sempre dal male alla prostata Ilardo parlò ancora a seguito l’incontro che ebbe con il latitante presso il casolare di Mezzo Juso.
Uno dei pastori che tutelava la latitanza dello Zio gli aveva preparato quel giorno della carne cotta al sangue e senza sale, il latitante stesso gli raccontò che giorni prima, per recarsi ad un incontro importante e che non aveva potuto rimandare, aveva dovuto levarsi il catetere prima di partire.
Non essere intervenuti a Mezzo Juso, la superficialità con la quale furono organizzate le indagini dalle quali fui escluso, nonostante avessi richiesto di parteciparvi dopo aver fatto presente di aver già tratto in arresto in quella stessa inchiesta latitanti mafiosi di livello con meno dati informativi di ora, fu davvero sorprendente.
Tutto era noto, luoghi, favoreggiatori, auto e telefoni utilizzati, anche il tipo esatto di malattia che affliggeva Provenzano, era pertanto possibile stabilirne le evoluzioni e necessità di cura alle quali sarebbe andato incontro. Precise anche le descrizioni somatiche, alto non più di 1,70 m, magro con il volto scarno, le guance incavate, le tempie segnate da due fossette ed i capelli fortemente stempiati tendenti al bianco con tracce di rossiccio evidente residuo di tinta.
Già nota l’area di favore nei confronti di Aiello, alcuni dei pizzini ne davano indicazione: Ditta Aiello deve fare lavoro strada interpoderale budello lago di Pergusa - Enna ;  Ditta Aiello deve fare lavoro strada interpoderale al bivio Catena Piazza Armerina.
La dimostrazione di quel livello così poco professionale d’indagine la diede 5 anni dopo la Polizia di Stato di Palermo quando nella presumibile certezza di sorprendere Provenzano fece irruzione nel gennaio 2005 in quel casolare di Mezzo Juso.
La notizia di un incontro tra affiliati dell’organizzazione al quale avrebbe dovuto partecipare il capo, filtrata dall’ascolto delle microspie installate nel casolare, determinò l’intervento che condusse all’arresto del latitante Benedetto Spera uno dei fedelissimi di Provenzano e del pastore Nicolò La Barbera uno dei partecipanti al summit con Ilardo.
Un fortuito ritardo al summit salvò lo Zio dalla cattura, l’operazione permise inoltre alla Polizia di ottenere per la prima volta la registrazione della voce di Provenzano.
 La storia di Cosa nostra è fatta anche di personaggi collusi con la mafia, il potere di un capo si misura anche in relazione alle protezioni di cui gode, il favore, la soffiata giusta che ti assicura l’impunità e la fuga al momento opportuno sono retaggio e cultura di sopravvivenza e questo Riina l’ha riscontrato sulla sua pelle.
Tempo dopo l’incontro con Ilardo  a Mezzo Juso Provenzano ebbe ancora la soffiata giusta quando “qualcuno” gli consigliò di non effettuare più incontri con alcuni suoi affiliati presso l’autoscuola Primavera, posta nel cuore di Palermo, perché era sorvegliata dai Carabinieri nell’attesa di catturarlo.

I pifferai magici
La mafia, come si vede, è sempre la stessa. Ha solo cambiato vestito. Ora c’è una nuova generazione fatta di manager che amano dirigere, d’imprenditori che rincorrono operazioni in borsa maneggiando denaro altrui, di politici rampanti e super poliziotti e Provenzano da uomo abile ed intelligente, comprendendo le nuove esigenze, è riuscito a trasformare ed inabissare una parte dell’organizzazione realizzando una continuità fra passato, presente e futuro.
Provenzano ha reso possibile l’intromissione dell’economia di Cosa nostra nell’economia legale, arma potente e coinvolgente, pericolo nascosto perché invisibile, ora l’organizzazione dispone di propri soggetti esterni come Michele Aiello in grado di operare con successo nei settori economici e finanziari, di essere attenti alla Politica e costituire canale per condurre l’infiltrazione mafiosa sempre più nel cuore delle istituzioni.
Vecchie strategie come quella che aveva visto Provenzano proteggere la carriera politica di Ciancimino, solo più aderenti alle nuove esigenze di sopravvivenza e di invisibilità. 
In questi anni ha stabilito accordi con i nuovi referenti politici, indirizzato il consenso elettorale nei confronti di Forza Italia e dei suoi alleati con una tale dimostrazione di potenza ed efficienza da realizzare una vittoria senza precedenti in Sicilia alle ultime politiche del 2001, 61 seggi a zero.
Ha riportato Cosa Nostra a perseguire crimini meno cruenti e più tradizionali come l’estorsione, il traffico di droga, il controllo dell’assegnazione dei lavori pubblici, degli appalti e della fornitura dei materiali, nuovamente colloquiante con lo Stato, una mafia “buonista” che ha addirittura ventilato ambigue proposte di dissociazione attraverso i suoi vari canali anche religiosi.
Denaro e preghiere sovente procedono a braccetto, ma questa sarà una prossima storia.
Un progetto di così grande respiro del quale Bernardo Provenzano era motore e guida non poteva vedere la sua realizzazione e nemmeno la presa in considerazione senza alcuni fondamentali presupposti come il poter contare su coperture di livello adeguato da parte dello Zio che gli assicurassero libertà d’azione.
Personaggi come i marescialli Ciuro della Guardia di Finanza e Riolo del Ros anche se ben addentro alle attività di contrasto a Cosa nostra non posso assolutamente garantire simili coperture, ma solo costituire terminale sul territorio della piramide delle collusioni delle Istituzioni con la mafia.
Da qualche tempo ogni qual volta si parla di mafia ho visto molti media sempre più dare spazio all’immagine di un Provenzano sempre più solo, segnato dal tempo e dalle sofferenze di una grave malattia, accreditando così nell’immaginario collettivo che Provenzano e mafia siano un’unica componente.
L’effetto più insidioso credo che sia quello di creare progressivamente una atmosfera di confusione e di dubbio, con il risultato che fino a tempi recenti per molti l’esistenza della mafia era poco più di un sospetto o di una teoria e quando un giorno avremo la notizia della morte o della cattura di Provenzano riterremo definitivamente sepolto il concetto di mafia e tutto ricondotto ad un qualsiasi fenomeno di criminalità organizzata. 
Quale sarà il futuro di Provenzano m’interessa relativamente e se la sua latitanza durerà ancora qualche giorno di più, ancora meno, certo che tutto ciò ora avviene in prossimità di nuove elezioni politiche e questo a me, sbirro fetente, induce a pensare che lo Zio con “il volere del Signore” stia per terminare il suo compito.
Poi se si costituirà o sarà qualche altro Di Maggio con la solita e consolidata prassi a dire dove trovarlo e se tutto questo accadrà prima o dopo le elezioni anche questo poco m’interessa, sono però  certo che sarà curato con professionalità ed assistito con “religioso” conforto.
Le mie esperienze investigative che sovente mi hanno fatto anticipare molte strategie del capo di Cosa nostra grazie alla collaborazione d’Ilardo che ha pagato con la vita il suo impegno, c’era anche quella che molti responsabili del sodalizio avrebbero aggravato le loro condizioni di salute per aggirare le restrizioni carcerarie e tendere poi ad un’incompatibilità del loro stato con il regime di detenzione.
Tutto ciò riconduce al disegno ed al processo decisionale di una casta superiore che tenta d’imporre una cappa totalitaria per istituire ordine e stasi e così da mettere tutte le cose al “giusto posto” e del quale Provenzano è parte autorevole quale vertice di uno Stato parallelo.
No alla falsa democrazia, alle verità di comodo, nell’attesa di tempi migliori, l’uomo potrà difendere la sua libertà solo cercando di conoscere la verità, sapendo rinunciare al privilegio, anche se si ha diritto di riscuoterlo, ricordando che anche piccole decisioni o non decisioni posso produrre importanti conseguenze.
Se vi vuole costruire un futuro migliore bisogna coltivare l’abitudine di controllare gli eventi quando sono ancora controllabili perché conoscere poi la verità non è di alcun aiuto, ancora meno quando sono altri Stati che la offrono dopo averla prima condizionata e deturpata a loro interesse.


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Il colonnello dei carabinieri
Michele Riccio


Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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