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di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello dei carabinieri Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

Così l’ha voluta chiamare qualcuno che fa parte degli ambienti diplomatici impegnati a trovare una soluzione all’inchiesta su la morte del funzionario del Sismi, Nicola Calipari, ucciso dal “fuoco amico” degli americani, per non pregiudicare i rapporti Italia – USA.
Con questo semplice, sintetico, ma efficace richiamo si volevano proporre le conclusioni di un’altra simile inchiesta, quella della morte del sergente bulgaro Gurdi Gurdev avvenuta il 2 aprile scorso ed ucciso anche lui dal “fuoco amico” dei soldati americani.
Quella morte venne definita un tragico incidente avvenuto in teatro di guerra, quindi condoglianze agli alleati bulgari, alla famiglia del sergente e tutto risolto.
Certo la perdita di uomo del livello di Calipari aveva affranto e turbato tutti, ma quando si opera in guerra sotto la costante minaccia di attentati suicidi del nemico terrorista, l’inosservanza del coordinamento tra gli alleati può determinare il tragico incidente e con questa aggiunta alla “ricetta bulgara” si sperava di chiudere il caso.
Per aver lavorato, come tanti, con gli americani ho imparato che una volta accertati e fondati i presupposti, svolte attente analisi anche dei contesti operativi, ritenuto utile e vantaggioso l’impegno ed accettabili i rischi, decidono di partire per un qualsiasi lavoro lo fanno con serietà e ferrea determinazione.
Stabiliti gli obiettivi, le linee d’azione e stanziati i fondi necessari all’impresa scendono allora in campo uomini e mezzi; la logistica è impressionante perché fondamentale per conseguire il risultato, anche se lo strumento da solo non risolve le problematiche.
Un computer, il più sofisticato possibile, dotato del più avanzato software, ha bisogno di dati attendibili e costantemente aggiornati per operare utili elaborazioni, così è importante conoscere cosa far osservare ai satelliti, dove posizionare le microspie e chi è utile far seguire.
Importante ancora è saper leggere e decifrare il materiale raccolto perché l’avversario, una volta che ha compreso di essere l’oggetto di tali attenzioni, può anche offrire astutamente una falsa realtà agli occhi ed alle orecchie del nemico.
Pertanto fondamentale al supporto tecnologico che sosterrà lo sforzo sul campo operativo è l’infiltrazione nelle file dell’avversario e la ricerca delle fonti, Giuda è da sempre l’arma più efficace, l’armonia tra le esperienze del passato ed il moderno è il procedere più pagante.
Una volta fatta la scelta di procedere insieme agli americani è fondamentale il rapporto di lealtà, furbizie ed ambiguità non sono paganti.
La guerra in Iraq non ci doveva vedere partecipi. Fasulli e strumentali gli ideali di portare la democrazia, questa è stata una guerra americana tesa solo al controllo del petrolio, rovesciando un ex alleato che aveva preso strade autonome e costellate anche di orrori  per porvi un altro regime più fedele alle direttive del potente padrone.
Un conflitto dove erano prevedibili tutti i rischi e le conseguenze di una successiva occupazione, dove la nostra partecipazione come quella di altre nazioni aveva solo lo scopo di accreditare una fasulla idea di coralità. Una guerra dove le regole sono dettate dagli Stati Uniti in modo ben chiaro: non si tratta con il nemico né tanto meno con i terroristi.
Alle prime difficoltà subito è emersa la nostra solita furbizia ed ambiguità, mentre si confermava la linea della fermezza parallelamente si trattava con il nemico, si pagavano riscatti sotto la voce di rimborsi spese su vie trasversali come tante volte gli stessi servizi segreti avevano pagato analoghi sequestri di persona in Italia.
Ma non si può come sempre contare sulla pelle di quei pochi fedeli servitori dello Stato pronti a sacrificarsi quando, per mancanza di mezzi, si è costretti a muoversi sotto gli occhi di tutti e quando avviene la disgrazia, la cosiddetta tragica fatalità, ecco riemergere più dirompente che mai la confusione e le nostre ambiguità che da sempre ci penalizzano e ci etichettano.
Mentre si commenta il sacrificio eroico dei nostri uomini già si lasciano filtrare i primi commenti negativi, voci di comportamenti dilettantistici, di mancanza di coordinamento, di scelta errata degli uomini che al primo sparo in zona di guerra vengono colti dal panico, ciò per coprire e giustificare l’aver disatteso gli impegni con l’alleato.
Voci che cercano pian piano d’individuare un possibile capro espiatorio perché consapevoli che gli Stati Uniti mai avrebbero sacrificato per ragioni di opportunità politica un loro soldato che ogni giorno pone in gioco la vita per la sua Nazione.
Voci che giorno dopo giorno sono diventate anche arma per avviare lotte di potere tra gli stessi ambienti dei Servizi segreti ed i loro mentori dando l’ennesimo poco edificante spettacolo di inaffidabilità e doppiezza, continuando ad accreditare nell’immaginario internazionale l’italiano che non si sa bene da quale parte stia e pronto a fuggire ogni responsabilità.
Pur di uscire da questa situazione ecco anche il ricorrere alla magistratura, con il potere politico che convoca il magistrato per trovare una soluzione al fine di dimostrare una verità non controproducente… e sarà solo un caso che i resti dell’auto usata da Nicola Calipari ora si trovano per essere esaminati nello stesso hangar in cui giacciono i resti dell’aereo di linea abbattuto su Ustica.
Uomini, mezzi, eseguire gli ordini, scelte operative, combattere il terrorismo come la Mafia… ne avevo discusso manco a dirlo giorni or sono con un giornalista nel commentare l’esperienza vissuta con il gen. Dalla Chiesa.
Per il Generale la tecnologia aveva una sua efficacia nella misura in cui un uomo sapeva valorizzarla, ma senza farsene condizionare per non appiattire la cultura e di conseguenza lo sforzo operativo.
I mezzi erano un binomio imprescindibile dall’uomo per affrontare un’indagine ma ogni scelta doveva avere necessariamente anche una buona dose di fantasia. Fondamentale era raggiungere la migliore professionalità.
Il Generale morì, quando gli mancò il supporto d’uomini e mezzi che gli era stato promesso ed assicurato più volte per inviarlo come prefetto di Palermo ad affrontare la Mafia.
Qualcuno al potere, per tutelare i suoi privilegi, ancora una volta aveva deciso di tradire un fedele servitore dello Stato approfittando del suo amore e senso della lealtà alle Istituzioni.
“ Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa,… glielo dovevamo fare questo favore !”
E’ quanto dice Giuseppe Guttadauro medico e capo mandamento di Brancaccio mentre parla, intercettato, con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, entrambi inquisiti nell’inchiesta della magistratura di Palermo su mafia e politica che vede coinvolto il presidente della regione Sicilia, Totò Cuffaro.
Falcone e Borsellino questa realtà la chiamarono convergenza d’interessi tra Cosa nostra e settori politici ed economici.
Ancora Giovanni Falcone, a chi gli chiedeva come sconfiggere la Mafia e così qualsiasi altra organizzazione criminale, rispondeva: “sembra strano che di fronte a simili fenomeni nel nostro Paese anziché potenziare le nostre strutture, elevare la professionalità, si tenti solo di combatterla modificando gli strumenti legislativi”.
La mafia ed il terrorismo sovente hanno gli stessi obiettivi e convergenze d’interessi e nel contrastarli spesso ci siamo imbattuti in carenze investigative non casuali, come sottolinea anche la sentenza d’appello del Borsellino bis, carenze che avevano condizionato e posto dei limiti alla risoluzione dei delitti eccellenti del 1992.
Non s’interviene a Mezzo Juso per catturare subito Bernardo Provenzano nell’operazione Grande Oriente, per asserite mancanze di mezzi, si sospendono poi le attività nei confronti dei suoi favoreggiatori, vedi pedinamenti la Barbera.
Cinque anni dopo, quando poi questi viene tratto in arresto da altre forze di polizia insieme al latitante Benedetto Spera preso proprio quel casolare di Mezzo Juso, ecco gridare al mancato coordinamento che fa fallire le indagini su Provenzano.  Quali ?  
Significativo è quanto poi si confidavano, intercettati nel 1999, altri due mafiosi Giuseppe Leone e Antonino Giannusa che, nel commentare l’imprendibilità di Provenzano, affermavano; ”Allo Stato non interessa prenderlo, lo sanno che altrimenti c’è la rivoluzione industriale”.
Mezzi ed ancora mezzi sono parte di quella strategia con la quale chi è al vertice condiziona le inchieste e la verità, tutto deve essere precario, labile e sfumato per confondere ed inquinare.
Avere giustizia è sempre di più un’utopia, la verità è morta da tempo nelle strade, nelle piazze e nelle autostrade, testimoni muti di tante stragi.
Centinaia di vittime, ostaggi con le loro famiglie degli interessi e dei poteri di settori deviati della politica e delle Istituzioni che si esplicano con aiuti e protezioni a terroristi e mafiosi stragisti, condizionando in alcuni casi la magistratura ed i lavori delle commissioni parlamentari.
E’ il momento di avere coraggio, di resistere, di continuare a procedere nel cammino del rinnovamento, di ritrovare uomini preparati per affermare quel bisogno di onestà e di obbligazione morale, contrastando la corruzione ambientale, dove il ricatto si esercita ovunque anche per avere giustizia: “paghi o non avrai nulla”, non c’è solo la mafia delle cosche, ma anche quella di settori delle Istituzioni, basta  sapersene servire anche se per servirsene, bisogna servirla.
Perché si è voluto indagare sulla corruzione della prima metà degli anni ’90 e nessuno ha voluto seguire con determinazione e volontà la ricerca dei mandanti e finanziatori delle stragi pur avendo a disposizione innumerevoli tracce ?
Perché non si ricercano i mandanti anche nel mondo finanziario ed economico, quando questi sono i primi a trarre vantaggi ad ogni accadimento o mutamento significativo?
Tante volte Ilardo mi ha parlato, avendoli vissuti, dei tanti interessi di Cosa nostra con settori della politica corrotta, dell’eversione di destra, di logge massoniche “coperte”, d’imprenditori e finanzieri d’avventura e di pezzi dello stato composti da funzionari infedeli. Così come dell’enorme quantità di denaro prodotta dalle tante attività criminali avviate da Cosa nostra e dalla criminalità organizzata che ne ha reso necessario il suo reinvestimento in attività apparentemente lecite.
Condizione che ha portato alla ricerca e all’individuazione di contesti ed operatori economici con i quali lavorare anche nel settore degli appalti di opere pubbliche.
Strategia questa che ha dovuto tenere conto anche dell’alto indice di burocratizzazione di alcuni settori del potere amministrativo e politico con i quali era obbligatorio interagire per superare ostacoli anche legali che sarebbero diventati insormontabili.
Da qui l’interesse di Cosa nostra per favorire carriere e la permanenza poi, di determinati soggetti nelle varie amministrazioni e della politica in un mutuo scambio di favori, dove la Massoneria ha avuto un ruolo fondamentale grazie alla sua infiltrazione nei vari settori istituzionali.
Nell’apprestarmi ad affrontare queste indagini non ho mai dimenticato e non dimenticherò mai le parole che mi disse nel 1994 l’allora procuratore capo della Repubblica di Genova, quando gli feci presente che sarei andato definitivamente in Sicilia per proseguire il mio lavoro nei confronti di Cosa nostra: “attento le hanno levato la protezione”.
Non diedi tanta importanza a quel discorso, sapevo che mi voleva bene e poi ero determinato a riprendere i fili di quell’inchiesta interrotta tanti anni prima con il Gen. Dalla Chiesa e l’allora col. Bozzo visto che Ilardo, non volendo, me ne aveva offerto l’opportunità.
Quale Mafia ha ucciso, Pio La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e tanti altri rappresentanti dello Stato, già cadaveri eccellenti per essersi impegnati seriamente nella lotta alla Mafia?
Chi ha determinato la morte d’altri fedeli e coraggiosi servitori dello Stato come D’Antona, Biagi e Calipari?
Credo che sia necessario guardare anche in noi stessi, le piccole viltà, l’opportunismo, il disinteresse, le ingenuità.
So che a volte è difficilissimo parlare di soggetti che appartengono alla nostra stessa classe sociale, che sovente hanno fatto i nostri stessi studi, frequentato i buoni salotti, è come dire: “il re è nudo”, ma bisogna avere la forza di fare i conti con se stessi e con la propria storia.
Si tratta di una verità scomoda a molti, anche se parzialmente già scoperta. “Viva la Mafia, viva Ciancimino” si scriveva sui cartelli a Palermo in occasione di licenziamenti di operai e Ciancimino già allora era un confidente degli stessi ambienti e non aveva bisogno del figlio poi per aprire trattative.
Innumerevoli pressioni gravano sulle spalle dei giudici, è un dato di fatto che la giustizia sovente sbagli ed anche in questo caso è giusto che siano altri giudici a vagliare le singole posizioni.
Il generale Dalla Chiesa, alla domanda del giornalista Biagi che gli chiedeva perché in Genova avesse pronunciato all’indomani della sentenza che assolveva il prof. Fenzi per terrorismo BR: “l’ingiustizia che assolve”, rispose che: “pur considerando la Magistratura come un altare, come cittadino, poteva anche ammettere che il sacerdote qualche volta sbagli la liturgia”.
Fenzi circa un anno dopo era tratto in arresto in un covo di Milano insieme a Mario Moretti uno dei capi delle BR.
Lo Stato con un chiaro indirizzo politico deve fare il suo dovere proteggendo in modo inequivoco, con leggi appropriate, la libertà e la dignità di tutti i cittadini, ma anche di quelli preposti alla tutela dell’ordine spesso con meno garanzie rispetto ai vari delinquenti.
Non dimenticherò mai le parole con le quali Ilardo commentò la decisione di accettare la collaborazione ufficiale con la giustizia: “Colonnello sa che questa decisione cambierà la mia vita le chiedo solo di starmi vicino, vedrà quante ce ne faranno passare”.
Poco tempo dopo quelle parole veniva ucciso con nove colpi di pistola a Catania ed io, mesi dopo, inquisito e poi rinviato a processo, ancora in corso, istruito e condotto dagli stessi magistrati che avevano diretto e voluto le operazioni che ora mi contestavano e denunciati da altri per fatti di quelle stesse operazioni che poi mi attribuivano a loro difesa.  
Nessuno può arrogarsi il diritto di gestire la verità, non esiste nessuna casta d’eletti, anche se sovente qualcuno pensa di esserlo.
I delitti rimangono delitti, quelli che sono: chiunque ed in nome di chiunque li si compia, la legge è uguale per tutti ed il giudice è chiamato a far rispettare questo inviolabile principio che garantisce la democrazia.
La responsabilità non si può nascondere dietro concetti astratti e tutti da interpretare per il bene comune. E’ ingiusta quella giustizia che persegue il singolo cittadino, mentre assicura l’impunità a chi esercita il potere.                                                           

Michele Riccio
Così l’ha voluta chiamare qualcuno che fa parte degli ambienti diplomatici impegnati a trovare una soluzione all’inchiesta su la morte del funzionario del Sismi, Nicola Calipari, ucciso dal “fuoco amico” degli americani, per non pregiudicare i rapporti Italia – USA.
Con questo semplice, sintetico, ma efficace richiamo si volevano proporre le conclusioni di un’altra simile inchiesta, quella della morte del sergente bulgaro Gurdi Gurdev avvenuta il 2 aprile scorso ed ucciso anche lui dal “fuoco amico” dei soldati americani.
Quella morte venne definita un tragico incidente avvenuto in teatro di guerra, quindi condoglianze agli alleati bulgari, alla famiglia del sergente e tutto risolto.
Certo la perdita di uomo del livello di Calipari aveva affranto e turbato tutti, ma quando si opera in guerra sotto la costante minaccia di attentati suicidi del nemico terrorista, l’inosservanza del coordinamento tra gli alleati può determinare il tragico incidente e con questa aggiunta alla “ricetta bulgara” si sperava di chiudere il caso.
Per aver lavorato, come tanti, con gli americani ho imparato che una volta accertati e fondati i presupposti, svolte attente analisi anche dei contesti operativi, ritenuto utile e vantaggioso l’impegno ed accettabili i rischi, decidono di partire per un qualsiasi lavoro lo fanno con serietà e ferrea determinazione.
Stabiliti gli obiettivi, le linee d’azione e stanziati i fondi necessari all’impresa scendono allora in campo uomini e mezzi; la logistica è impressionante perché fondamentale per conseguire il risultato, anche se lo strumento da solo non risolve le problematiche.
Un computer, il più sofisticato possibile, dotato del più avanzato software, ha bisogno di dati attendibili e costantemente aggiornati per operare utili elaborazioni, così è importante conoscere cosa far osservare ai satelliti, dove posizionare le microspie e chi è utile far seguire.
Importante ancora è saper leggere e decifrare il materiale raccolto perché l’avversario, una volta che ha compreso di essere l’oggetto di tali attenzioni, può anche offrire astutamente una falsa realtà agli occhi ed alle orecchie del nemico.
Pertanto fondamentale al supporto tecnologico che sosterrà lo sforzo sul campo operativo è l’infiltrazione nelle file dell’avversario e la ricerca delle fonti, Giuda è da sempre l’arma più efficace, l’armonia tra le esperienze del passato ed il moderno è il procedere più pagante.
Una volta fatta la scelta di procedere insieme agli americani è fondamentale il rapporto di lealtà, furbizie ed ambiguità non sono paganti.
La guerra in Iraq non ci doveva vedere partecipi. Fasulli e strumentali gli ideali di portare la democrazia, questa è stata una guerra americana tesa solo al controllo del petrolio, rovesciando un ex alleato che aveva preso strade autonome e costellate anche di orrori  per porvi un altro regime più fedele alle direttive del potente padrone.
Un conflitto dove erano prevedibili tutti i rischi e le conseguenze di una successiva occupazione, dove la nostra partecipazione come quella di altre nazioni aveva solo lo scopo di accreditare una fasulla idea di coralità. Una guerra dove le regole sono dettate dagli Stati Uniti in modo ben chiaro: non si tratta con il nemico né tanto meno con i terroristi.
Alle prime difficoltà subito è emersa la nostra solita furbizia ed ambiguità, mentre si confermava la linea della fermezza parallelamente si trattava con il nemico, si pagavano riscatti sotto la voce di rimborsi spese su vie trasversali come tante volte gli stessi servizi segreti avevano pagato analoghi sequestri di persona in Italia.
Ma non si può come sempre contare sulla pelle di quei pochi fedeli servitori dello Stato pronti a sacrificarsi quando, per mancanza di mezzi, si è costretti a muoversi sotto gli occhi di tutti e quando avviene la disgrazia, la cosiddetta tragica fatalità, ecco riemergere più dirompente che mai la confusione e le nostre ambiguità che da sempre ci penalizzano e ci etichettano.
Mentre si commenta il sacrificio eroico dei nostri uomini già si lasciano filtrare i primi commenti negativi, voci di comportamenti dilettantistici, di mancanza di coordinamento, di scelta errata degli uomini che al primo sparo in zona di guerra vengono colti dal panico, ciò per coprire e giustificare l’aver disatteso gli impegni con l’alleato.
Voci che cercano pian piano d’individuare un possibile capro espiatorio perché consapevoli che gli Stati Uniti mai avrebbero sacrificato per ragioni di opportunità politica un loro soldato che ogni giorno pone in gioco la vita per la sua Nazione.
Voci che giorno dopo giorno sono diventate anche arma per avviare lotte di potere tra gli stessi ambienti dei Servizi segreti ed i loro mentori dando l’ennesimo poco edificante spettacolo di inaffidabilità e doppiezza, continuando ad accreditare nell’immaginario internazionale l’italiano che non si sa bene da quale parte stia e pronto a fuggire ogni responsabilità.
Pur di uscire da questa situazione ecco anche il ricorrere alla magistratura, con il potere politico che convoca il magistrato per trovare una soluzione al fine di dimostrare una verità non controproducente… e sarà solo un caso che i resti dell’auto usata da Nicola Calipari ora si trovano per essere esaminati nello stesso hangar in cui giacciono i resti dell’aereo di linea abbattuto su Ustica.
Uomini, mezzi, eseguire gli ordini, scelte operative, combattere il terrorismo come la Mafia… ne avevo discusso manco a dirlo giorni or sono con un giornalista nel commentare l’esperienza vissuta con il gen. Dalla Chiesa.
Per il Generale la tecnologia aveva una sua efficacia nella misura in cui un uomo sapeva valorizzarla, ma senza farsene condizionare per non appiattire la cultura e di conseguenza lo sforzo operativo.
I mezzi erano un binomio imprescindibile dall’uomo per affrontare un’indagine ma ogni scelta doveva avere necessariamente anche una buona dose di fantasia. Fondamentale era raggiungere la migliore professionalità.
Il Generale morì, quando gli mancò il supporto d’uomini e mezzi che gli era stato promesso ed assicurato più volte per inviarlo come prefetto di Palermo ad affrontare la Mafia.
Qualcuno al potere, per tutelare i suoi privilegi, ancora una volta aveva deciso di tradire un fedele servitore dello Stato approfittando del suo amore e senso della lealtà alle Istituzioni.
“ Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa,… glielo dovevamo fare questo favore !”
E’ quanto dice Giuseppe Guttadauro medico e capo mandamento di Brancaccio mentre parla, intercettato, con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, entrambi inquisiti nell’inchiesta della magistratura di Palermo su mafia e politica che vede coinvolto il presidente della regione Sicilia, Totò Cuffaro.
Falcone e Borsellino questa realtà la chiamarono convergenza d’interessi tra Cosa nostra e settori politici ed economici.
Ancora Giovanni Falcone, a chi gli chiedeva come sconfiggere la Mafia e così qualsiasi altra organizzazione criminale, rispondeva: “sembra strano che di fronte a simili fenomeni nel nostro Paese anziché potenziare le nostre strutture, elevare la professionalità, si tenti solo di combatterla modificando gli strumenti legislativi”.
La mafia ed il terrorismo sovente hanno gli stessi obiettivi e convergenze d’interessi e nel contrastarli spesso ci siamo imbattuti in carenze investigative non casuali, come sottolinea anche la sentenza d’appello del Borsellino bis, carenze che avevano condizionato e posto dei limiti alla risoluzione dei delitti eccellenti del 1992.
Non s’interviene a Mezzo Juso per catturare subito Bernardo Provenzano nell’operazione Grande Oriente, per asserite mancanze di mezzi, si sospendono poi le attività nei confronti dei suoi favoreggiatori, vedi pedinamenti la Barbera.
Cinque anni dopo, quando poi questi viene tratto in arresto da altre forze di polizia insieme al latitante Benedetto Spera preso proprio quel casolare di Mezzo Juso, ecco gridare al mancato coordinamento che fa fallire le indagini su Provenzano.  Quali ?  
Significativo è quanto poi si confidavano, intercettati nel 1999, altri due mafiosi Giuseppe Leone e Antonino Giannusa che, nel commentare l’imprendibilità di Provenzano, affermavano; ”Allo Stato non interessa prenderlo, lo sanno che altrimenti c’è la rivoluzione industriale”.
Mezzi ed ancora mezzi sono parte di quella strategia con la quale chi è al vertice condiziona le inchieste e la verità, tutto deve essere precario, labile e sfumato per confondere ed inquinare.
Avere giustizia è sempre di più un’utopia, la verità è morta da tempo nelle strade, nelle piazze e nelle autostrade, testimoni muti di tante stragi.
Centinaia di vittime, ostaggi con le loro famiglie degli interessi e dei poteri di settori deviati della politica e delle Istituzioni che si esplicano con aiuti e protezioni a terroristi e mafiosi stragisti, condizionando in alcuni casi la magistratura ed i lavori delle commissioni parlamentari.
E’ il momento di avere coraggio, di resistere, di continuare a procedere nel cammino del rinnovamento, di ritrovare uomini preparati per affermare quel bisogno di onestà e di obbligazione morale, contrastando la corruzione ambientale, dove il ricatto si esercita ovunque anche per avere giustizia: “paghi o non avrai nulla”, non c’è solo la mafia delle cosche, ma anche quella di settori delle Istituzioni, basta  sapersene servire anche se per servirsene, bisogna servirla.
Perché si è voluto indagare sulla corruzione della prima metà degli anni ’90 e nessuno ha voluto seguire con determinazione e volontà la ricerca dei mandanti e finanziatori delle stragi pur avendo a disposizione innumerevoli tracce ?
Perché non si ricercano i mandanti anche nel mondo finanziario ed economico, quando questi sono i primi a trarre vantaggi ad ogni accadimento o mutamento significativo ?
Tante volte Ilardo mi ha parlato, avendoli vissuti, dei tanti interessi di Cosa nostra con settori della politica corrotta, dell’eversione di destra, di logge massoniche “coperte”, d’imprenditori e finanzieri d’avventura e di pezzi dello stato composti da funzionari infedeli. Così come dell’enorme quantità di denaro prodotta dalle tante attività criminali avviate da Cosa nostra e dalla criminalità organizzata che ne ha reso necessario il suo reinvestimento in attività apparentemente lecite.
Condizione che ha portato alla ricerca e all’individuazione di contesti ed operatori economici con i quali lavorare anche nel settore degli appalti di opere pubbliche.
Strategia questa che ha dovuto tenere conto anche dell’alto indice di burocratizzazione di alcuni settori del potere amministrativo e politico con i quali era obbligatorio interagire per superare ostacoli anche legali che sarebbero diventati insormontabili.
Da qui l’interesse di Cosa nostra per favorire carriere e la permanenza poi, di determinati soggetti nelle varie amministrazioni e della politica in un mutuo scambio di favori, dove la Massoneria ha avuto un ruolo fondamentale grazie alla sua infiltrazione nei vari settori istituzionali.
Nell’apprestarmi ad affrontare queste indagini non ho mai dimenticato e non dimenticherò mai le parole che mi disse nel 1994 l’allora procuratore capo della Repubblica di Genova, quando gli feci presente che sarei andato definitivamente in Sicilia per proseguire il mio lavoro nei confronti di Cosa nostra: “attento le hanno levato la protezione”.
Non diedi tanta importanza a quel discorso, sapevo che mi voleva bene e poi ero determinato a riprendere i fili di quell’inchiesta interrotta tanti anni prima con il Gen. Dalla Chiesa e l’allora col. Bozzo visto che Ilardo, non volendo, me ne aveva offerto l’opportunità.
Quale Mafia ha ucciso, Pio La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e tanti altri rappresentanti dello Stato, già cadaveri eccellenti per essersi impegnati seriamente nella lotta alla Mafia?
Chi ha determinato la morte d’altri fedeli e coraggiosi servitori dello Stato come D’Antona, Biagi e Calipari?
Credo che sia necessario guardare anche in noi stessi, le piccole viltà, l’opportunismo, il disinteresse, le ingenuità.
So che a volte è difficilissimo parlare di soggetti che appartengono alla nostra stessa classe sociale, che sovente hanno fatto i nostri stessi studi, frequentato i buoni salotti, è come dire: “il re è nudo”, ma bisogna avere la forza di fare i conti con se stessi e con la propria storia.
Si tratta di una verità scomoda a molti, anche se parzialmente già scoperta. “Viva la Mafia, viva Ciancimino” si scriveva sui cartelli a Palermo in occasione di licenziamenti di operai e Ciancimino già allora era un confidente degli stessi ambienti e non aveva bisogno del figlio poi per aprire trattative.
Innumerevoli pressioni gravano sulle spalle dei giudici, è un dato di fatto che la giustizia sovente sbagli ed anche in questo caso è giusto che siano altri giudici a vagliare le singole posizioni.
Il generale Dalla Chiesa, alla domanda del giornalista Biagi che gli chiedeva perché in Genova avesse pronunciato all’indomani della sentenza che assolveva il prof. Fenzi per terrorismo BR: “l’ingiustizia che assolve”, rispose che: “pur considerando la Magistratura come un altare, come cittadino, poteva anche ammettere che il sacerdote qualche volta sbagli la liturgia”.
Fenzi circa un anno dopo era tratto in arresto in un covo di Milano insieme a Mario Moretti uno dei capi delle BR.
Lo Stato con un chiaro indirizzo politico deve fare il suo dovere proteggendo in modo inequivoco, con leggi appropriate, la libertà e la dignità di tutti i cittadini, ma anche di quelli preposti alla tutela dell’ordine spesso con meno garanzie rispetto ai vari delinquenti.
Non dimenticherò mai le parole con le quali Ilardo commentò la decisione di accettare la collaborazione ufficiale con la giustizia: “Colonnello sa che questa decisione cambierà la mia vita le chiedo solo di starmi vicino, vedrà quante ce ne faranno passare”.
Poco tempo dopo quelle parole veniva ucciso con nove colpi di pistola a Catania ed io, mesi dopo, inquisito e poi rinviato a processo, ancora in corso, istruito e condotto dagli stessi magistrati che avevano diretto e voluto le operazioni che ora mi contestavano e denunciati da altri per fatti di quelle stesse operazioni che poi mi attribuivano a loro difesa.  
Nessuno può arrogarsi il diritto di gestire la verità, non esiste nessuna casta d’eletti, anche se sovente qualcuno pensa di esserlo.
I delitti rimangono delitti, quelli che sono: chiunque ed in nome di chiunque li si compia, la legge è uguale per tutti ed il giudice è chiamato a far rispettare questo inviolabile principio che garantisce la democrazia.
La responsabilità non si può nascondere dietro concetti astratti e tutti da interpretare per il bene comune. E’ ingiusta quella giustizia che persegue il singolo cittadino, mentre assicura l’impunità a chi esercita il potere.                                                           
Michele Riccio


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Il colonnello dei carabinieri
Michele Riccio


Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


ANTIMAFIADuemila N°44

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