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Continuano le rivelazioni del pentito Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra

di Michele Riccio

“ C’era una volta la storia di un uomo d’onore che incominciò a morire quando decise di credere nelle istituzioni ed iniziò ad aprire una fessura dalla quale emergevano verità nascoste di patti scellerati, di continuità mafiose, di uomini politici, di pezzi dei servizi e dello stato, di massoneria deviata e di eversori di destra.
Di nuovi referenti esterni, continuità di quelli tradizionali che si erano defilati e riaffermavano la saggezza di quel pensiero criminale di come con lo stato non si dovesse fare la guerra, ma convivere.
Il progetto occulto, l’esistenza di una doppia linea: una moderata, l’altra dura ed armata, dove l’equivoco di due parti contrapposte ha consentito alla doppia linea di agire, di giocare con i suoi referenti esterni sulla confusione strumentale delle categorie istituzionali concorrendo in quel piano più ampio di sabotaggio economico e sociale, generando così un male lungo”.

“A Catania hanno ucciso Luigi”.
Quelle parole mi tolsero per un attimo il respiro e sentii una mano invisibile stringere violentemente il mio stomaco. Nella assurda speranza di leggere un’altra notizia guardai quella pagina di televideo, che mia moglie, pallida in volto, ancora fissava.
Non avvenne alcun miracolo né mi risvegliai da un brutto sogno, il tragico accaduto era ancora scritto in tutta la sua cruda realtà in quella pagina blu fluorescente del televideo.
Due killer a bordo di una motocicletta avevano affiancato all’improvviso Ilardo mentre stava varcando il portone della sua abitazione di Catania; senza scendere dalla moto avevano estratto e puntato contro di lui le pistole esplodendo più colpi.
Ilardo, nella sorpresa e nella rapidità dell’azione, non aveva avuto il tempo né di fuggire, né di trovare un riparo ed era caduto a terra, colpito a morte. Non volendo ancora credere che quell’uomo così forte, robusto e determinato ad affrontare ogni avversità pur di dare e vivere una vita diversa con i suoi cari, non avesse superato in qualche modo anche quella dura e violenta prova, telefonai alla sua abitazione di Catania.
“Pronto signora.. sono Bruno”. Non ebbi il tempo di aggiungere altro che una voce di donna, sua moglie, rotta dal pianto, mi tolse definitivamente ogni speranza, “…Bruno….ce lo hanno portato via”.
Abbassai il telefono e con l’animo gonfio di amarezza e rabbia raggiunsi mia moglie, la guardai e per un po’ rimanemmo in silenzio, vicini, dietro la porta a vetri del balcone guardando il buio di quella notte che aveva portato via una persona che poco a poco era diventata una parte della nostra vita.
Pensammo e parlammo del grande dolore di quella donna di Catania e dei suoi figli, che l’arroganza e l’impunità di altri avevano voluto che il suo futuro fosse quello di una vedova con i suoi orfani simile ad altri colpevoli di aver riposto la loro fiducia ed attese nelle istituzioni.
Colpevoli di non aver seguito una verità di compromesso, inquinata da altrui interessi.
Colpevoli di aver disatteso consigli e suggerimenti pur di essere onesti e leali ancor prima con sé stessi. Colpevoli di non aver venduto la propria dignità anche se la tentazione era grande. Ma la libertà è un bene irrinunciabile.
Omicidio questo, come altri, finalizzato anche a creare un crescente clima d’intimidazione diffusa per scoraggiare ulteriori forme di simile e leale collaborazione facendo leva sui sentimenti di sfiducia e senso della sconfitta che inevitabilmente seguono simili fatti di sangue.
Ed ora certi proclami altisonanti di somma verità di alcuni nuovi collaboratori molto attenti a non farsi distrarre da queste sciocche utopie mi inducono a sorridere, anche se con amarezza, sapendoli già schiavi e servi delle loro convenienze.
I nemici della libertà non sono quelli che la opprimono, ma quelli che la deturpano. La parola, la verità rendono l’uomo libero.
Dopo un po’ telefonai a Roma al col. Mori, vidi che era stato tempestivamente informato della morte di Ilardo ed al suo silenzio risposi che l’indomani mattina lo avrei raggiunto in ufficio a Roma.
Poche ore dopo presi il pendolino e per tutto il viaggio non feci altro che pensare a quell’omicidio così chirurgicamente eseguito. Dopo l’incontro di Roma al ROS avevo subito raggiunto Ilardo in Sicilia e per una settimana sovente eravamo rimasti insieme.
Proprio nel momento in cui ci eravamo lasciati, concordando di rivederci di lì a poco in Roma, per organizzare il suo ingresso - e di quanti del suo nucleo familiare lo avrebbero seguito in quella scelta - nel programma di protezione era stato assassinato.
Un omicidio che aveva risolto tanti problemi. Questo pensavo ancora pochi giorni fa nel riferire al presidente della Corte d’Assise del Tribunale di Palermo dinanzi al quale si stava celebrando il processo nei confronti dei mandanti mafiosi della morte dell’On. Pio La Torre, quanto di mia conoscenza su quel delitto per le confidenze ricevute da Ilardo ed anche registrate.
Questi mi aveva riferito che nel corso della sua collaborazione ufficiale all’Autorità Giudiziaria avrebbe fatto piena luce non solo su quel delitto, ma anche su quelli dell’On. Pier Santi Mattarella e di Insalaco già sindaco di Palermo.
Avrebbe svelato non solo le identità dei mandanti mafiosi del vertice di Cosa Nostra, ma anche quelle dei mandanti esterni che avevano richiesto quelle morti alla loro organizzazione.
Una morte espressamente voluta quella di Pio La Torre per il suo fermo, determinato e coraggioso impegno istituzionale scevro da compromessi e quindi scomodo, pericoloso, tanto da venire imposto a Cosa Nostra e le parole registrate di Ilardo ne sono drammatico riscontro:
<<…..E’ vero l’intreccio mafia e politica in Sicilia è avvenuto. La maggior parte dei delitti politici in Sicilia non sono stati a favore di Cosa Nostra, Cosa Nostra ha subito solo danni da questi omicidi, quelli che ne hanno tratto vantaggi sono stati solamente i politici, incominciando dall’uccisione di Mattarella, Insalaco e Pio la Torre……
..…dalle usanze che ci sono in Sicilia, quando un onorevole dava una battuta ad un “uomo d’onore” con il quale era in confidenza e diceva “quello sta rompendo le scatole”, in un certo qual modo significava che quello era un pericolo.
Quindi si doveva già incominciare a provvedere a farlo stare zitto, oppure toglierlo dalla scena completamente….>>
Un intreccio di rapporti e di scambi tra mafia, politica ed istituzioni deviate, priorità assoluta da tutelare e che doveva restare nell’ombra, stessa continuità che poi avrebbe ispirato un disegno strategico complessivo così destabilizzante per le istituzioni democratiche.
Trama che avrebbe poi condotto non solo alla perpetrazione di ulteriori gravissimi attentati agli uomini delle istituzioni ritenuti troppo pericolosi e preparati sul piano professionale investigativo e giudiziario, ma anche a quegli attentati stragisti degli anni ’92/’93 per i quali era iniziata la nostra indagine.
Scrivere ciò mi ha fatto ricordare quanto disse il collaboratore di giustizia Leonardo Messina più di dieci anni fa alla commissione parlamentare antimafia del tempo: “Cosa Nostra sta cambiando pelle, tutti quelli che appartengono alla sua storia devono morire, tutti quelli che hanno avuto un contatto con i politici devono in un certo senso perire. Non ci devono essere tracce, né memorie storiche del passato”.

Non ti fidare troppo del colore delle cose: Virgilio
Quando giunsi a Roma quella mattina di sabato 11 maggio 1996 entrando nel comando del ROS la prima persona che incontrai fu il generale Subranni, comandante, allora, della Divisione Palidoro dalla quale dipendeva anche quella struttura investigativa.
Appena mi vide acuì lo sguardo, con un sottile sorriso che gli attraversava il volto e la voce più roca del solito mi accolse dicendo: “….eh..eh ..ti hanno ammazzato il confidente…” …poi ….” faresti bene a non scendere più in Sicilia”.
Per un attimo fui sul punto di rispondere duramente e dire quanto pensavo di lui e di quanti gli erano solitamente intorno, dei suoi confidenti Ciancimino, Badalamenti … della gestione di Cancemi, di Ilardo ed altro ancora, ma con sforzo riuscii a trattenermi. Era più importante procedere come avevo già deciso di fare, mettere per iscritto tutta l’indagine.
Non avrei lasciato quel muto ed asettico rapporto, organigramma di nomi emersi nel contesto dell’indagine già consegnato su “loro” richiesta ad unica testimonianza e risultato di quella vicenda, anche se in parte, già non convinto del compito, ero riuscito ad infiltrare qualche scarna notizia sui rapporti di Cosa Nostra con gli ambienti politici e quelli istituzionali deviati.
Quanto raccolto in quei due anni e mezzo d’indagini non doveva andare perduto, ma essere messo al servizio di quanti, poi, avrebbero voluto verificare, approfondire i contenuti di quell’inchiesta, perché in quelle pagine, tra i tanti temi riportati, avrebbero trovato anche la causa della morte del collaboratore.
La vita di ognuno è segnata dalle scelte, sovente non facili e per nulla convenienti, ma la propria dignità è un valore irrinunciabile: le mie, le ho fatte da tempo.
Dopo aver oltrepassato il generale Subranni, entrai nell’ufficio del colonnello Mori e questi mi venne incontro, esitando, quasi non sapendo cosa dire.
Nel momento in cui senza preamboli e giri di parole gli dissi che ero certo che la morte di Ilardo era dovuta alla necessità di impedirgli di collaborare ufficialmente con la Giustizia in quanto temevano gli effetti delle sue dichiarazioni, questi senza commenti rispose che anche quello era il suo convincimento.
Aggiunse che aveva già informato l’autorità giudiziaria di Caltanissetta della morte di Ilardo ed era indeciso se informare o meno quella di Palermo. Lasciandolo a risolvere quel complesso dilemma rappresentai che sarei ritornato il lunedì mattina per iniziare a redigere un rapporto su tutto il lavoro svolto da consegnare ai vari magistrati che avevano seguito quell’indagine.
Quel sabato sera non ebbi la forza di ritornare a Genova, a casa mia, e preferii andare da mia madre a Salerno. Ricordo che rimasi sveglio fino a tardi aggiornando e rileggendo le mie agende dove, seguendo una vecchia abitudine investigativa, riportavo ogni dato e sviluppo di lavoro.
Rileggendo quegli appunti e pensando a quanto accaduto mi sentivo più che mai determinato ad andare avanti seguendo le scelte già fatte, mi ripetevo che la verità non è frutto né di compromessi, né di aggiustamenti, la verità è un diritto del cittadino, forma di controllo nei confronti dei governi ai quali i cittadini avevano affidato parte delle loro libertà, da Montesquieu memoria, per vedere garantiti ed affermati i propri diritti di libertà e di sicurezza sociale.
Nessuno, credo, può arrogarsi il diritto di gestire la verità o di manipolarla, non esiste nessuna casta di eletti, anche se sovente qualcuno o tanti pensano di proporsi come tali. Non servirà interferire o tentare d’influenzare i vari poteri dello Stato, né accaparrarsi gli organi d’informazione per condizionare il pensiero del cittadino.
I delitti rimangono delitti, quelli che sono: chiunque ed in nome di chiunque li compia.
La responsabilità non si può nascondere dietro concetti astratti e tutti da interpretare per il bene comune. E’ ingiusta quella giustizia che persegue il singolo cittadino, mentre assicura l’impunità a chi esercita il potere.
Il lunedì mattina ritornai al comando ROS, l’atmosfera era più distaccata, come se nulla fosse accaduto e con il superiore concordai che sarei ritornato in Sicilia il tempo necessario per redigere il rapporto e far trascrivere le cassette con le dichiarazioni registrate di Ilardo da consegnare poi alle varie Autorità Giudiziarie.
Dopo di che avrei raggiunto l’ufficio OAIO del 2° Reggimento presso la Divisione Palidoro, dove ero stato già trasferito, attività che soprintendeva all’addestramento ed all’impiego sul territorio dei battaglioni carabinieri.
Ricordo che anche in questa occasione, se con più distacco, trattando l’evento come se fosse un qualsiasi dato informativo affermò che la morte di Ilardo era dovuta alla necessità d’impedire la sua collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
Senza dirci altro e oltrepassando il solito generale Subranni in arrivo in quel momento, che mi consigliava ancora una volta con quel significativo sorriso di non scendere in Sicilia perché preoccupato per la mia incolumità, partii per raggiungere Caltanissetta.
Con l’aiuto del mio collega del ROS nisseno mi misi subito al lavoro, a scrivere quel rapporto. Rileggere le relazioni, le agende di lavoro ed ascoltare le varie registrazioni non fu un lavoro semplice. Tanta era la rabbia sorda ed impotente che mi prendeva nel constatare quanto si era perso e quanto ancora, era evidente, si sarebbe poi potuto conseguire che solo la volontà di mantenere fede a quell’impegno e fiducia che Ilardo ed i magistrati di Palermo e Catania avevano riposto nei miei confronti mi faceva andare avanti in quell’amaro compito.

Sapere aude
Ancora oggi quando penso a tutto ciò e spesso mi accade quando affronto una delle tante testimonianze su questa indagine, dico che tutto sarebbe stato perduto se non avessimo accumulato esperienza, se non avessimo vissuto da uomini, se non avessimo fatto qualcosa. Se non avessimo custodito la memoria.
Il tempo non è perduto, se di esso custodiamo la memoria dice un mio amico. Dimenticare a volte è un bene, ma ricordare e ripetere a noi stessi ciò che ci è stato insegnato dalla vita e dalla storia è parte di una esistenza responsabile. Questa è la memoria.
In quei giorni, il 10 giugno del ’96, D’Alessandro Salvatore, uomo d’onore di Riesi, cadeva vittima dei colpi d’arma da fuoco esplosi da ignoti killer e tutto faceva credere che questi fosse rimasto vittima della tragedia che da tempo lo contrapponeva al suo capo mandamento, il latitante Giuseppe Cammarata.
Era una disputa nota anche al Provenzano per la quale Ilardo si stava adoperando per far raggiungere ad un chiarimento le parti sempre in quell’ottica di pace che il capo di Cosa Nostra raccomandava costantemente e nella personale speranza che un nostro intervento gli sollevasse il problema arrestando il Cammarata.
Verso la fine di quel mese di giugno a darmi parziale conforto e soddisfazione giunse l’operazione della DDA di Catania condotta dal dr. Marino con il supporto della DIA di Catania, che portò all’arresto di Quattroluni Aurelio - e dei suoi più stretti collaboratori - da tempo assunto ai vertici della Famiglia del Santapaola dopo l’arresto di Galea Eugenio.
L’operazione era scaturita dalle informazioni che avevo riversato a due bravissimi investigatori della DIA di quel centro, due ispettori di polizia che  mi avevano aiutato con capacità ed impegno sin dagli inizi del mio lavoro e che sapientemente avevano approfondito ed ampliato le notizie ricevute con autonome indagini.
Fortunatamente non tutte le trazzere portano a Mezzo Juso.
Presentarsi presso le varie Procure per consegnare le trascrizioni ed i primi atti non fu facile. L’amarezza era notevole e dura da superare, così come era difficile ripercorrere le strade di quella terra: ora tutto mi sembrava diverso, vedevo altre immagini, sentivo altri odori.
Osservavo come la terra fosse spaccata, segnata profondamente dal sole, arsa, dove le poche piante dai colori violenti si facevano largo a fatica tra le tante pietre, esuberanti anche per comporre gli innumerevoli muri ed argini che correvano e s’intersecavano continuamente.
Nell’aria ora coglievo l’odore dello zolfo, del sale. Immagini di duro lavoro, di sofferenza e di sopravvivenza ad ogni costo si proponevano ai miei occhi ricordando come fosse stata costante e sotto più forme la violenza dell’uomo sull’uomo in questa terra di Sicilia.
Andai avanti nel mio lavoro e non prestai alcuna attenzione alle puntuali richieste che mi pervennero dai soliti colleghi di omettere dati investigativi. Né mi preoccupai più di tanto nel sentire chi temeva pericoli per la mia famiglia e lo stesso non mi preoccupai dopo aver consegnato il rapporto, quando altro mi collega mi confidò che avevo commesso un grande errore. Mi meravigliò solo che ciò me lo disse un collega che conoscevo da molto tempo e che ho sempre stimato.
Molti mi chiedono se un giorno scriverò mai una storia su questa vicenda, non lo so, forse inizierà come i racconti di quando ero bambino:
“ C’era una volta la storia di un uomo d’onore che incominciò a morire quando decise di credere nelle istituzioni ed iniziò ad aprire una fessura dalla quale emergevano verità nascoste di patti scellerati, di continuità mafiose, di uomini politici, di pezzi dei servizi e dello stato, di massoneria deviata e di eversori di destra.
Di nuovi referenti esterni, continuità di quelli tradizionali che si erano defilati e riaffermavano la saggezza di quel pensiero criminale di come con lo stato non si dovesse fare la guerra, ma convivere.
Il progetto occulto, l’esistenza di una doppia linea: una moderata, l’altra dura ed armata, dove l’equivoco di due parti contrapposte ha consentito alla doppia linea di agire, di giocare con i suoi referenti esterni sulla confusione strumentale delle categorie istituzionali concorrendo in quel piano più ampio di sabotaggio economico e sociale, generando così un male lungo”.


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Il colonnello dei carabinieri
Michele Riccio

Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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