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Continuano le rivelazioni del pentito Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra

di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.


Tragedie

Quel Natale 1995, con le sue feste di fine Anno, giunse all’improvviso. D’un tratto mi ritrovai a percorrere strade illuminate a festa ed affollate di gente chiassosa che si riversava continuamente nei negozi ed io, ancora una volta, a rimandare ogni impegno con la mia famiglia, promettendo che quella sarebbe stata l’ultima volta.
Non erano giorni facili quelli per Ilardo, le insidie e le tragedie sembravano improvvisamente moltiplicarsi, creando un clima d’inquietudine. Subodorando una imboscata, aveva respinto con abilità e prudenza la richiesta di un incontro che il Francesco La Rocca gli aveva fatto giungere tramite Scalia Orazio, il braccio destro di Quattroluni Aurelio, detto Lello e rappresentante del gruppo di Santapaola in Catania.
L’incontro si sarebbe dovuto verificare in una località non nota in provincia di Catania e sarebbe stato a tre, con la presenza di Cammarata Giuseppe, il transfuga della famiglia di Riesi. Ma, come detto, Ilardo, sospettando un tranello, aveva respinto l’offerta e abilmente memore del desiderio di Provenzano di raggiungere al più presto una pax mafiosa in seno all’Organizzazione, aveva dato la sua incondizionata disponibilità ad incontrare il solo La Rocca ovunque egli volesse.
Altra ansia che non lasciava tranquillo l’infiltrato era la situazione di Gela. La tregua tra il Monreale Maurizio, il rappresentante dei Rinzivillo e gli uomini dei fratelli Emmanuello, i "carusi", era più che precaria e minacciava da un momento a l’altro di precipitare. Ilardo, con preoccupazione, la paragonava a quel sordo brontolio che quando lo senti salire dalle viscere dell’Etna, ti porta ad alzare lo sguardo e nel vedere salire anche in cielo un denso pennacchio di fumo dal suo cratere, allora sei sicuro che da un momento all’altro assisterai allo scoppio di una violenta eruzione.
Giorni dopo, incontrando il Quattroluni, aveva avuto la conferma che non era il solo a diffidare del La Rocca, anche il responsabile del gruppo di Santapaola, gli aveva confidato le stesse perplessità nei confronti dell’anziano mafioso di Santo Cono, che aveva giudicato ambiguo, pericoloso ed abile nell’architettare "tragedie", ricorrendo senza scrupoli ad inviare lettere anonime alle forze dell’ordine, per denunciare i suoi avversari.
Il Lello era certo che le continue attenzioni di cui era oggetto in quei giorni da parte degli uomini della Questura di Catania, che lo seguivano costantemente, impegnando notevoli mezzi e personale, erano dovute proprio alle iniziative del La Rocca, come gli avevano confermato alcuni suoi contatti all’interno di quegli uffici di polizia.
La Rocca, contrariamente alla sua scelta di seguire le direttive del Provenzano, aveva preferito abbracciare la linea operativa di Brusca e non perdeva occasione per attaccarlo, sicuro poi di contare sull’appoggio del suo Capo, per ottenere l’assoluto ed esclusivo controllo della Famiglia di Catania.
Ilardo, prudentemente soddisfatto delle parole del Lello, aveva rappresentato che anche lui riteneva il La Rocca l’autore delle voci che ultimamente circolavano in certi ambienti di Cosa Nostra che lo indicavano intenzionato ad espandere la sua influenza sul territorio fino ad assumere il controllo della Famiglia di Catania meditando anche l’assassinio dello stesso Quattroluni. Queste voci erano false e calunniose, egli eseguiva solo i compiti che gli venivano assegnati da Provenzano e pertanto era intenzionato a denunciare questa situazione al Capo di Cosa Nostra.
A quelle parole anche Quattroluni faceva presente che stava seguendo la medesima strategia, aveva già programmato di recarsi nei prossimi giorni a Palermo e denunciare ai suoi referenti quanto stava accadendo a Catania ed era anche pronto ad accompagnarlo dal Provenzano, per sostenersi a vicenda nelle loro accuse al La Rocca.
Come aveva poco dopo riscontrato, effettivamente il Quattroluni si era recato in Palermo ed era stato il suo vice, Scalia Orazio, a dargliene notizia, quando gli aveva consegnato le ultime tranche di denaro da far recapitare agli affiliati di Adrano, incarico che aveva già eseguito.
La difficoltà di stabilire una intesa con il La Rocca, peraltro confortata dalle affermazioni del Quattroluni che incontrava i medesimi ostacoli, ci sembrarono il tema principale da sfruttare per ottenere un nuovo incontro con il Provenzano, anche se Ilardo sperava che da un momento all’altro, il ROS, con la sua azione investigativa su Mezzojuso gli risolvesse ogni problema, assicurandogli anche un migliore futuro !

I tentativi di cattura degli Emmanuello e l’assassinio di Monreale Maurizio

Sempre in quei giorni, più volte con Ilardo ci impegnammo nel porre gli uomini del ROS nelle condizioni più ottimali per conseguire la cattura degli Emmanuello, nell’intento di eliminare un problema.
La fonte aveva riferito che era un giovane di circa 30 anni di nome Giovanni, a bordo di un fuoristrada Niva Lada di colore bianco, targato GE, ad accompagnare i due fratelli agli appuntamenti che avevano con lui e che si effettuavano in una campagna della frazione di Ciolino del comune di Resuttano; sovente utilizzavano anche una Fiat Uno di colore marrone metallizzato targata AL o SV come staffetta.
Il Giovanni, oltre a svolgere compiti d’autista, ospitava i due latitanti nella sua casa con ovile dove risiedeva con gli anziani genitori e quindi doveva trovarsi sempre in quella frazione notoriamente popolata da pastori tutti amici fra di loro.
E’ ancora vivo il ricordo di quella notte, quando con Ilardo camuffato, ed un mio collega, ci recammo in quei luoghi per fare un sopralluogo della trazzera che veniva percorsa dai latitanti e dai loro favoreggiatori per raggiungere il posto dell’incontro con la fonte.
Avevamo da poco iniziato l’esplorazione, quando ci sorprese un imprevisto e violento temporale che ci costrinse a lasciare impantanato nel fango il nostro fuoristrada e percorrere a piedi per chilometri e chilometri nel buio quelle campagne, letteralmente staccando i piedi dal fango che creava tamponi sotto le scarpe, alla ricerca di una strada, per dare poi un preciso riferimento ai soccorsi, ciò senza creare allarmi sul territorio. Sul finire di quella odissea, per un buon tratto di strada si accodò una muta di cani randagi che ci seguì con un brontolio non molto rassicurante.
I timori di Ilardo che la tregua su Gela fosse aleatoria, trovarono tragica conferma la sera del 15 Dicembre, quando Monreale Maurizio, il rappresentante dei Rinzivillo sul territorio, veniva assassinato da due "carusi" che, in una scena non nuova per quei luoghi, lo avevano affiancato velocemente a bordo del loro ciclomotore e quello seduto posteriormente, senza scendere, gli aveva esploso contro più colpi di pistola. Dopo averlo colpito a morte e sostenuto un breve, quanto violento conflitto a fuoco con dei poliziotti presenti casualmente sul posto, i due erano fuggiti indenni disperdendosi tra la folla accorsa poi dopo gli spari.
Il giorno seguente, Ilardo nel corso di un fugace contatto mi riferiva di non aver incontrato gli Emmanuello e così non aveva consegnato loro il cellulare che gli avevano richiesto, apparecchio che mi ero fatto dare dal ROS, per facilitare la loro cattura.
Nel commentare il tragico evento che poteva pregiudicare gli equilibri non solo in Gela, mi rappresentava di essere certo che i due fratelli fossero i mandanti dell’omicidio, pur non avendo avuto alcun preavviso dell’azione, ciò perché tempo prima era stato informato che il Monreale aveva cercato di uccidere Rosario "Saro" Trubia, il referente nella cittadina dei latitanti che era miracolosamente scampato all’agguato.
Uno dei principali motivi che li avevano condotti allo scontro era il controllo di una casa da gioco clandestina che il Trubia gestiva insieme al altro gruppo di mafiosi del luogo noti come i "I Pecorai".
Prima di raggiungermi Ilardo aveva già incontrato Barbieri Carmelo, detto "il professore", suo vice capo mandamento per le famiglie di Gela, Niscemi e Mazzarino, paesi di cui si era riservato il controllo, disponendo di convocare il Trubia per conoscere i motivi dell’omicidio. Ciò, non solo in quanto responsabile della Famiglia di Caltanissetta, ma anche perché, prima di nominare Daniele Emmanuello "uomo d’onore" e di porlo al vertice della Famiglia di Gela, aveva assicurato al Rinzivillo Crocefisso che nulla sarebbe accorso al Monreale Maurizio.
Come previsto, il Saro Trubia, una volta dinanzi Ilardo confermava di essere il mandante dell’omicidio, informato delle intenzioni del Monreale di ritentare un agguato ai suoi danni. Nel vedere alcuni suoi uomini aggirarsi nei pressi della sua abitazione, aveva infatti deciso di anticipare le mosse del suo avversario.
Ottenuto il nulla osta all’azione dai suoi capi, gli Emmanuello, aveva incaricato alcuni suoi ragazzi di compiere l’attentato, che con fredda determinazione ed impudenza, dopo lo scontro a fuoco con i poliziotti, erano ritornati poco dopo sul luogo dell’agguato, mescolandosi tra i curiosi per crearsi un alibi.
Ilardo sperava che al più presto si potesse conseguire la cattura degli Emmanuello, perché li considerava troppo instabili e pericolosi, molti degli ultimi omicidi avvenuti in quei luoghi erano attribuibili a loro, come quello Di Martino, un altro mafioso di Santa Caterina di Villarmosa, strangolato, perché responsabile, secondo i due fratelli, di una serie di danneggiamenti nei confronti di una ditta di un suo concorrente del luogo, loro amico, per lavori di movimento terra.
Le uniche note positive in quei giorni provenivano da Quattroluni che, di ritorno da Palermo, nel dimostrare tutta la sua amicizia all’Ilardo, lo aveva voluto nuovamente incontrare per confermargli, con soddisfazione, di aver rappresentato ai suoi referenti la situazione presente in Catania come loro l’avevano concordata.
Il Lello, ancora una volta, gli aveva confermato che La Rocca non rivestiva alcun ruolo di vertice nella Famiglia Etnea, ma che la struttura era divisa in due aree ben distinte, una vicina alle posizioni di Brusca, con il gruppo di Ercolano, i Ferrera, il La Rocca ed il suo amico Cammarata Giuseppe di Riesi e l’altra, sulle posizioni di Provenzano, rappresentata dai vari componenti del gruppo di Santapaola, quali Galea, Natale Emanuele, Quattroluni, Mangion, Zuccaro ecc.
L’amico, in vena di confidenze, gli aveva riferito che per trovare il mandante dell’omicidio della moglie di Santapaola non si doveva tanto andare lontano dall’ambito familiare, tanto da fargli ritenere che il responsabile potesse essere lo stesso Santapaola o al massimo il nipote Ercolano.
Le ultime indicazioni sull’assassinio dell’avvocato Famà portavano, al momento, ad escludere un ruolo di Cosa Nostra, deduzione originata dalle dichiarazioni rese dal mafioso D’Agata nel corso di un processo che, in quei giorni si stava celebrando in Catania; questi, come appartenente a Cosa Nostra, si era dissociato dall’assassinio.
Al riguardo potevano assumere una certa importanza le accuse mosse al Legale da altro mafioso catanese non affiliato a Cosa Nostra, il Puglisi, che l’aveva duramente criticato perché colpevole di aver sottovalutato le revoca del mandato difensivo fatta, poco dopo l’arresto, da altro mafioso, il noto Pulvirenti; gesto che chiaramente precludeva l’imminente collaborazione con la Giustizia.
Nel vedermi impegnato a rassicurarlo, consigliandolo ad affrontare come sempre le avversità con attenzione e cautela per non incorrere in errori o sottovalutare una situazione, Ilardo, sorridendo, mi fermava e mi pregava di non aver alcun timore, perché era avvezzo a quel tipo di vita, era solo che ora non la sentiva più sua e quei comportamenti che prima erano anche stimolo crudele per affermare la propria superiorità, ora li rigettava perché gli evidenziavano tutta la loro malvagità.
A riscontro che aveva tutto sotto controllo, mi mostrava l’ennesimo bigliettino che il Provenzano gli aveva mandato, ricordandomi ancora una volta…" Vede Colonnello… l’unico timore che ho, è quello che ci possano tradire…. lo Zio… ancora una volta, mi ha dato compiti d’assoluta fiducia e importanza, mi ha chiesto d’interessarmi per l’assegnazione di alcuni appalti ammontanti a più decine di miliardi, per la costruzione di una grossa discarica di rifiuti in località Raddusa (EN) …. Poi dopo devo avvicinare i titolari della ditta Stallone, in Santa Croce di Camerina (RG), perché hanno fatto sapere di voler avere un contatto con un appartenete a Cosa Nostra, in grado di assicurare loro fiducia e livello adeguato per consegnare il Pizzo stabilito….
Nel corso d’incontri con altri affiliati a Cosa Nostra. aveva visto Gino Di Salvo di Bagheria che, in separata sede, gli aveva confidato come fosse precaria ora la situazione in Palermo dopo la cattura di Bagarella. L’influenza di Riina era notevolmente scemata ed era in atto una sfrenata lotta, senza esclusione di colpi, per occupare quel vuoto di potere e ciò creava instabilità e poca sicurezza per tutti.
Nell’occasione gli era stato anticipato che presto si sarebbe dovuto occupare anche della concessione di alcuni vantaggiosi appalti ammontanti a più decine di miliardi di lire che sarebbero stati aggiudicati all’interno della base militare di Sigonella ed, allo scopo, gli sarebbe stato presentato l’imprenditore in grado di gestire le assegnazioni.
Questa opportunità era stata offerta dal Galea Eugenio ai fratelli Tusa con i quali divideva la stessa casa circondariale. Il boss catanese aveva chiesto il loro aiuto per contattare Piddu Madonia e portarlo a conoscenza che poteva gestire dall’interno del carcere, con l’aiuto dei familiari che venivano a trovarlo, l’imprenditore, un siciliano che operava all’interno della base americana ed in grado di pilotare la concessione degli appalti.
Non aveva voluto interessare la Famiglia di Catania perché gli equilibri esistenti al momento non gli garantivano la riuscita dell’operazione.
Qualche giorno prima di Natale si realizzavano le condizioni per tentare la cattura degli Emmanuello, evento, come detto, alquanto gradito ad Ilardo che avrebbe eliminato uno spinoso problema. Questi, nel corso di ennesimo incontro, mi rappresentava di aver visto poco prima il Saro Trubia, il referente dei latitanti, che gli aveva richiesto per conto dei fratelli un incontro concordato per l’indomani.
Le operazioni di cattura venivano organizzate dal ROS di Caltanissetta che aveva così il modo di verificare ancora una volta la precisione delle indicazioni dell’infiltrato, notando, all’ora indicata, la segnalata Fiat Uno marrone targata AL precedere come staffetta, arrivando nel comune di Ciolino (CL) dalla strada che lo collega al comune di Resuttano (CL), il noto fuoristrada Niva Lada di colore bianco, targato GE con a bordo due persone.
Sempre delle comunicazioni radio dei Carabinieri del ROS potevo sentire che la Fiat Uno si fermava all’imboccatura della trazzera che conduceva nella campagna, solito luogo degli incontri con l’Ilardo che avevamo già individuato ed esplorato nella notte tragica del diluvio, mentre il fuoristrada proseguiva la sua marcia andando incontro alla Fonte.
Trascorsa poco più di un’ora da quella prima segnalazione, sempre via radio, i Carabinieri del ROS comunicavano il transito della Fiat Uno e del Niva Lada che ritornavano dal luogo dell’incontro, prendendo la strada che conduceva in direzione della frazione di Re Cattivo del comune di Villarmosa (CL).
L’improvviso e non previsto intervento in quella landa desolata di una autoradio dei Carabinieri di Caltanissetta vanificava l’intervento dei Carabinieri del ROS di Caltanissetta che, come poi rappresentavano, perdevano anche il controllo visivo degli automezzi, consentendo ai latitanti ed ai loro favoreggiatori di allontanarsi indisturbati.
Quella sera, dopo le spiegazioni dei militari, mi ritrovai ancora una volta a giustificare ad un Ilardo deluso il mancato intervento dei Carabinieri del ROS. Questi, non potendo fare altro che augurarsi momenti più favorevoli, mi riferiva di aver incontrato soltanto Davide Emmanuello che era giunto accompagnato dal solito Giovanni alla guida del fuoristrada. Il latitante gli aveva rappresentato che l’omicidio del Monreale Maurizio era da attribuirsi ad una autonoma iniziativa del Saro Trubia.
Solo una volta commesso l’omicidio, il Trubia li aveva informati, spiegando che i suoi uomini avevano incontrato casualmente in una strada di Gela solo e senza guardaspalle il Monreale e, per non perdere la favorevole opportunità, avevano deciso all’istante di ucciderlo per anticiparne le mosse nei loro confronti.
Il Davide Emmanuello alle ovvie contestazioni che quella era una giustificazione poco credibile, anche per il Rinzivillo Crocefisso al quale Ilardo aveva peraltro promesso di tutelare il Monreale, gli aveva risposto che il Rinzivillo doveva accettare per forza la morte del suo uomo, quale normale e logica conseguenza dei precedenti tentativi che questi aveva posto in essere per far uccidere il Trubia.
In caso avverso loro, gli Emmanuello, avrebbero dato vita ad una guerra che si sarebbe svolta anche sulle piazze di Milano e Genova, dove le due organizzazioni vantavano comuni interessi fronteggiandosi da tempo e l’esito non poteva essere che favorevole agli Emmanuello, "i Formiculuni", dato che i loro uomini erano di gran lunga più numerosi ed agguerriti.
Anche in Cosa Nostra gli altri affiliati avrebbero fatto bene a tenere nella giusta considerazione il loro gruppo che riconosceva solo il predomino di Ilardo e della sua Famiglia, i Madonia. Loro avevano la forza militare necessaria per sostenere qualsiasi scontro ed, in caso contrario, erano anche pronti ad uscire dall’Organizzazione e procedere per loro conto.
Il Davide, in quell’occasione, aveva rifiutato il telefono cellulare procuratogli dalla fonte in quanto superato e facile alle intercettazioni, anche perché in quei giorni stava per ottenere un modello di ultima generazione, un GSM con scheda ed aveva chiesto alla fonte un aiuto nel cercare un fuoristrada più potente e confortevole di quello che stavano utilizzando, dato il perdurare delle avverse condizioni climatiche che rendeva sempre più impraticabile le zone in cui loro solitamente si muovevano.
Ilardo aveva pertanto promesso che avrebbe fatto una ricerca di un mezzo più idoneo, anche perché quella poteva costituire una occasione per posizionare a bordo dell’auto un segnalatore e rendere così più agevole la cattura dei latitanti.

Aumentano i dubbi e le perplessità
Il 23 Dicembre, prima di rientrare per qualche giorno a Genova per trascorrere il Natale in famiglia, avevo modo d’incontrare ancora una volta Ilardo che, nell’occasione, mi faceva leggere una breve lettera mandata da Provenzano e la sera prima consegnatagli da Barbieri Carmelo.
Nello scritto il Capo di Cosa Nostra, nella consapevolezza di chiedere un notevole favore, lo pregava di mettere da parte gli attriti che lo contrapponevano in quel tempo al La Rocca e di incontralo in tempi brevi insieme al Lorenzo Vaccaro ed al Leonardo Fracapane che aveva da poco rilevato, nel ruolo di capo provinciale di Agrigento, il padre Salvatore da noi arrestato tempo prima.
Scopo del Provenzano era quello di condurre al più presto Cosa Nostra in contesti più tranquilli e coesi.
Chiudeva il biglietto, con la richiesta di conoscere quali fossero le persone e le imprese di Bagheria che "I Madonia" avevano interesse a contattare, per impiegare nei lavori inerenti agli appalti che stavano per acquisire in Sigonella in società con il Galea Vincenzo.
Aveva già eseguito una prima verifica che gli aveva permesso di riscontrare ancora una volta che, quando c’era molto denaro in gioco, i suoi parenti non avevano perso tempo ad agire nell’esclusivo interesse personale, Tusa Salvatore, zio di Piddu Madonia e padre di Francesco e Lucio detenuti insieme al Galea, aveva già incontrato in Bagheria Vincenzo Giammanco, suo caro amico ed altro affiliato a Cosa Nostra, stabilendo intese per operare in Sigonella.
Informato come sempre il Superiore di ogni novità, sempre più perplesso, la mattina del 24 Dicembre 1995, partivo alla volta di Genova guardando in continuazione dal finestrino dell’aereo le fitte nubi sotto di noi, sperando di cogliere al più presto l’immagine dei monti della Liguria che avrebbero annunciato l’imminente atterraggio. Non vedevo l’ora di arrivare finalmente a casa e stare un po’ tranquillo con la mia famiglia.
Avevo assoluto bisogno di stare un po’ sereno, per meglio esaminare con maggiore distacco i pensieri che sempre più si rincorrevano e si accavallavano nella mia testa assumendo l’aspetto di quelle malefiche matasse che solo il filo da pesca, quando decide di aggrovigliarsi, è capace di regalarti.
La gestione dell’operazione da parte del Superiore continuava sempre meno a piacermi ed i dubbi e le perplessità crescevano. Le mie critiche ora stavano andando un po’ oltre nel considerare le inefficienze riscontrate nel lavoro o le ambiguità che sovente contraddistinguevano certi comportamenti del Superiore, quando pensa che certe sue decisioni e direttive anche sui contesti più banali, un domani possano pregiudicarne la carriera e i vantaggi…  Maschere !
Dubbi e perplessità non certo comprensibili quando emergevano nel contesto di una struttura di livello, preposta alla lotta contro la MAFIA, e che pretendeva di tramandare le tradizioni ed il metodo operativo del Gen dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino ….  Maschere !
Il Dr. Falcone, il suo metodo di lavoro nei confronti del Crimine Organizzato, lo riassumeva in pochi e chiari concetti. Bisognava prepararsi ad affrontare indagini di ampio respiro raccogliendo il massimo delle informazioni, anche quelle meno utili, per poi trovarsi davanti un quadro complessivo ed iniziare così a costruire una strategia: ciò avrebbe consentito di sapere sempre quello che si stava facendo e di adeguare lo strumento investigativo alle varie esigenze.
Metodo il cui spirito era quello di condurre una lotta intelligente, efficace, senza riserve e zone d’ombra, specialmente quando l’avversario si chiama Cosa Nostra che trae la sua forza anche dalle tante cointeressenze anche a livello Istituzionale.
Già poco sopportavo, e non ero il solo, il comportamento confidenziale di alcuni colleghi, quando li vedevo abbracciare e salutare, baciando sulle guance Salvatore Cangemi, chiamandolo confidenzialmente "Totò" e nemmeno far caso che nell’ufficio dove poi si sarebbero chiusi per ore a colloquiare e tranquillizzare il collaboratore, sul muro erano affisse le gigantografie di Falcone e Borsellino e del Generale dalla Chiesa…. Maschere !
Bastava una stretta di mano ed allora, oltre ad inquietarmi, ripensavo alle parole di Ilardo, quando gli avevo chiesto come Cosa Nostra avesse commentato la decisione di Cangemi di voler collaborare con la Giustizia e lui mi aveva risposto che nell’Organizzazione tutti erano in apprensione, perché a differenza degli altri collaboratori di giustizia, questi poteva infliggere notevoli e seri danni…
Non era stato solo il riscontro di certe approssimazioni o inefficienze operative, nonostante le mie segnalazioni, a rendermi così critico o pessimista: pensare che fossero figlie di superficialità, di mancanza di cultura, di perfido calcolo o di quant’altro, mi creava inquietudine ed accresceva i miei sentimenti di sospetto e di diffidenza.
Stato di malessere ulteriormente alimentato quando, giorni prima, nel riferire al Superiore quanto mi aveva rappresentato Ilardo di rientro da Enna, dove si era recato per seguire gli appalti per le discariche dei rifiuti da realizzare in Raddusa, questi era rimasto impassibile, senza mostrare apparentemente alcun interesse e dandomi direttive che mi avevano lasciato più che perplesso.
Ilardo, nell’ambito dei tanti incontri che aveva avuto con gli imprenditori del luogo interessati alla realizzazione della discarica e contigui a Cosa Nostra, aveva incontrato alcune volte il Sen. Grippaldi Roberto di Alleanza Nazionale, ora defunto, che gli aveva confidato di sperare al più presto in nuove elezioni, anche se queste al momento non sembravano possibili, perché era certo che lo schieramento politico, di cui il suo partito faceva parte, avrebbe vinto.
Successo politico che avrebbe interessato non solo la Sicilia, ma tutto il Meridione con una pesante sconfitta della Sinistra.
Il Sen. Grippaldi e gli imprenditori avevano espresso giudizi negativi sul Governo in carica, definendolo "Quello dei magistrati" che, secondo loro, aveva soltanto realizzato una indiscriminata repressione, con la conseguenza di gettare il Paese in uno stato di povertà, dove tantissime aziende erano destinate alla chiusura con licenziamenti in massa delle maestranze.
Il Sen. Grippaldi aveva affermato che, in caso di vittoria del loro schieramento politico, si sarebbero impegnati in una riduzione dei termini della custodia cautelare, per una maggiore tassatività in merito ai casi di applicabilità e leggi più favorevoli e garantiste sia per i detenuti che per gl’inquisiti.
In Catania aveva incontrato nuovamente il Sen. Sudano Domenico del CCD che ben conosceva e l’Onorevole gli aveva chiesto il suo aiuto ed impegno nel sostenerlo nella prossima auspicata campagna elettorale, perché, in caso di successo, si sarebbe impegnato per assicurare anche lui quei benefici giudiziari promessi dal Sen. Grippaldi.
Allora come far allontanare dalla mente il sospetto ed il timore che era in atto un sotterraneo ritorno al passato con l’amaro sospetto che non si stava già più combattendo quella malefica alleanza Mafia – Politica e che saremmo stati ben presto costretti a subirla per via delle necessità economiche e questa volta avremmo perso la reale dimensione della corruzione sociale ed economica?
Un ritorno all’antico, di quello Stato Mafia di cui Falcone parlava che, forte delle esperienze maturate, avrebbe, sotto mutate vesti, progressivamente e scientemente rioccupato lo Stato, le Istituzioni e le zone mediatiche d’influenza, creando un benessere virtuale che invece soffocherà ogni libertà.


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Il colonnello Michele Riccio

Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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I boss del «Grande Oriente» in libertà

Il dibattimeno era durato oltre i termini di custodia cautelare e la Corte di Cassazione non ha potuto fare altro che ordinare la scarcerazione. Dunque l’hanno avuta vinta gli avvocati e Simone Castello, Carlo Guttadauaro, Nicolò e Leonardo Greco, e Vincenzo Giammanco sono tornati in libertà. Solo che non si tratta di mafiosi comuni, ma dei fiancheggiatori di Provenzano, condannati recentemente a dieci anni di reclusione nell’ambito del processo Grande Oriente.
In particolare - secondo l’ordinanza della Corte - vista «la gravità del reato ascritto a Castello, nonché l’assoluta pericolosità del sodalizio mafioso del quale egli è imputato di aver fatto parte e la severa sanzione a lui inflitta, radicano la sussitenza di spiccatissime esigenze di tutela della collettività, nonché del pericolo di fuga», l’ex carcerato dovrà rispettare alcuni obblighi e fissare la sua residenza fuori da Palermo. Infatti ora il Castello si trova a Pachino dove possiede alcuni terreni.
Per Carlo Guttadauro divieto di risiedere a Palermo e provincia, quindi il boss, che nella sentenza di condanna era stato definito, l»addetto alle relazioni esterne» del guppo di fedelissimi del Provenzno con una «particolare passione per le cose della politica», come lui stesso ha spiegato, si è stabilito a Roma, in un lussuoso albergo del quartiere Parioli.
Nicolò Greco si è quindi stabilito ad Agrigento, mentre Giammanco a Pomezia. E’ andata peggio a Leonardo Greco che deve scontare un vecchio obbligo di soggiorno in una casa di lavoro a Prato, dove dovrà restare per un anno.
Le ragioni sarebbero da ricercare nel groviglio legislativo risultato del pacchetto giustizia del 2000 e nelle gravi carenze di organico nei tribunali palermitani. Due anni come tetto massimo per celebrare il giudizio di primo grado sono impossibili da rispettare.
Alla Procura non resta che monitorare i processi a rischio scarcerazione. A.P.


ANTIMAFIADuemila N°28

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