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Continuano le rivelazioni del confidente Luigi Ilardo

di Michele Riccio

Proseguiamo, dal numero precedente, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

La cattura di Santo Sfameni

Il mese di Maggio del 1994 vedeva Ilardo più che mai impegnato nel compito di riportare le Famiglie della Sicilia Orientale sotto l’influenza del Provenzano e nel corso dei numerosi incontri con gli esponenti più in vista di quelle Famiglie, sovente, incontrava dei latitanti.
Eugenio Galea e Vincenzo Aiello, della Famiglia di Catania, erano i primi a fare la loro comparsa. Gli destarono immediatamente una notevole impressione, per il loro modo tranquillo, ma attento, di affrontare le varie problematiche, sintomo latente di capacità e di forza, tanto che, nel riferirmi dell’incontro, mi confidava che gli era sembrato di rivedere personaggi della più efficiente Cosa Nostra di un tempo.
Altro latitante che Ilardo incontrava era Santo Sfameni, uno dei pochi uomini d’onore della provincia di Messina. Questi, pur avendo delegato ultimamente la gestione delle attività criminali a referenti più giovani ed attivi, continuava ad essere un personaggio influente e di rispetto tanto che tutti, anche i suoi successori, ricorrevano ai suoi consigli e pareri.
Lo Sfameni, proprio a conferma delle sue qualità, immediatamente aveva riconosciuto la validità del progetto “Provenzano” ed aveva assicurato piena adesione e sostegno. Ilardo, nel farmi un quadro del personaggio, mi spiegava ancora che questi vantava una notevole influenza anche negli ambienti di “livello” della città, che non disdegnavano di ricorrere al suo aiuto.
Tempo prima un professionista piuttosto importante di Messina si era rivolto allo Sfameni per chiedere “giustizia” nei confronti di un professore dell’Università, reo di aver bocciato ancora una volta la propria figlia ad un esame. Il mafioso, raccolta la richiesta, aveva inviato alcuni suoi uomini che avevano sparato vari colpi d’arma da fuoco alle gambe del docente, ferendolo.
Avevo iniziato ormai a conoscere bene Ilardo ed anche la mimica sintetica, ma significativa, che alcune volte accompagnava certe sue affermazioni e pertanto, quando diceva: “…è un casino Messina…” e nel contempo piegava l’angolo della bocca, scuotendo la testa, comprendevo subito che la situazione nella città era allarmante.
Idea che si rafforzava quando mi riferiva che molti mafiosi del luogo, quando erano interessati a conoscere le dichiarazioni rese nei loro confronti dai collaboratori di giustizia, ricorrevano ad un Maresciallo dei Carabinieri preposto alla gestione dei pentiti ed il militare non si faceva scrupoli a fornire informazioni ed alcune volte anche copia dei verbali.
I mafiosi avevano avvicinato il sottufficiale dell’Arma nel venire a conoscenza del suo rapporto con un usuraio di Milazzo, un notaio, al quale si era rivolto assillato dai debiti.
Messina con i suoi verminai, che ancora ricorreranno nell’indagine e nelle tante inchieste giudiziarie di questi ultimi anni, sono state altro puntuale riscontro del nostro lavoro.
Nel riferirmi ancora che altro latitante di livello, Gullotti Vincenzo, esercitava la sua negativa influenza nel circondario di Milazzo e Barcellona, pur comprendendo la necessità di garantire massima sicurezza all’infiltrato, riuscivo a convincerlo ad aiutarmi a catturare uno dei menzionati personaggi.
Il risultato, oltre a liberare il territorio della loro soffocante presenza, avrebbe meglio agevolato il nostro impegno e simili interventi, precisavo, avrebbero dovuto in seguito interessare anche la sua Famiglia di Caltanissetta.
L’occasione di eseguire un primo intervento si presentava nei confronti del Santo Sfameni, dato che questi commetteva l’imprudenza di ricevere presso l’abitazione dove si nascondeva, e non in altro luogo, le persone che si recavano a trovarlo.
L’unica precauzione che adottava era quella di riceverle solitamente di sera, quindi  richiedeva loro di fermarsi agli inizi del paese di San Saba, luogo del suo rifugio posto sul litorale di Messina, dopo di che le mandava a prelevare da un suo uomo di fiducia.
Nel riscontrare che in quella località ed in quelle ore della sera era assente qualsiasi tipo di traffico e considerando che il collaboratore mi aveva riferito di aver percorso un tragitto piuttosto breve e rettilineo, con alcuni miei fidati militari mettevo in pratica un sistema di pedinamento solitamente adottato dalle Brigate Rosse, e riscontrato al tempo del mio lungo impegno contro quel fenomeno.
Il servizio, molto semplice, veniva svolto a piedi e prevedeva l’impiego di un militare appostato nei pressi del luogo dove veniva prelevato il nostro infiltrato, con il compito di comunicare via  cellulare, ai colleghi disposti sempre a piedi e più lontano a controllo dei vari incroci e traverse, possibile deviazione del percorso, il tipo, il colore e la targa del mezzo giunto.
Attività che veniva ripetuta, in altro incontro, con le stesse modalità, posizionando il dispositivo di controllo dal punto in cui si era perso l’Ilardo nell’ultimo servizio, lasciando fermo solo l’uomo preposto alla segnalazione della partenza dell’auto giunta a prelevare l’infiltrato.
Essendo, come detto, breve e rettilineo il tragitto da ricostruire ed anche grazie alla sommaria descrizione della casa che ospitava il latitante, dopo due incontri veniva localizzato il nascondiglio del ricercato.
Con la richiesta di far trascorrere alcuni giorni prima di eseguire l’intervento, per meglio tutelare la sicurezza dell’Ilardo, comunicavo alla mia direzione della D.I.A. i dati relativi all’ubicazione del rifugio dello Sfameni, che venivano inoltrati alla Questura di Messina, consentendo poi a quel personale di effettuare la cattura del latitante, nel posto indicato, in data 18 Maggio 1994.
Le cronache giudiziarie, in seguito, avevano ancora modo di evidenziare lo spessore criminale del personaggio e l’ombra oscura che allungava sulla città di Messina quando riportavano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Santi Timpani, che chiamava in causa il Santo Sfameni per aver inquinato le indagini a favore dei mafiosi palermitani Gerlando Alberti e Giovanni Sutera.
Questi criminali, responsabili di aver assassinato, una sera del Dicembre 1985, la commessa diciassettenne di una lavanderia, Graziella Campagna, che, casualmente, era venuta in possesso, lavando gli abiti dei mafiosi, per altro latitanti, di una agendina molto compromettente, erano stati assolti grazie “all’interessamento” del mafioso.
Drammatica vicenda che, come tante altre storie siciliane, ha registrato puntuali denuncie di depistaggio o di superficialità, poste in essere dagli inquirenti.

Inizia la caccia a Provenzano
L’indagine registrava un ulteriore importante passo in avanti quando, poco dopo, una sera, un Ilardo particolarmente soddisfatto mi telefonava e mi chiedeva di raggiungerlo al più presto, anticipandomi che aveva potuto leggere fugacemente un biglietto del “ragioniere”.
Una volta insieme, e con gli occhi che gli scintillavano, mi riferiva che da quel momento, per decisione superiore, avrebbe fatto da raccordo tra il vertice della sua Famiglia ed il Provenzano, ritirando e consegnando al Simone Castello anche le varie comunicazioni scritte, i noti “bigliettini”.
Già la sera precedente, nel consegnare uno dei biglietti al Tusa Antonino, suo cugino, aveva potuto leggere furtivamente e memorizzare la seguente frase: “…la persona che è stata avvicinata, ha detto che tutto si sistemerà in merito al discorso di Vinciullo…”
La comunicazione aveva attinenza alla vicenda dei soldi scomparsi, i 500 milioni, frutto della protezione nei confronti della azienda della Megara di Catania, e la persona menzionata doveva essere coinvolta nei fatti.
Il Castello, che era uno dei canali autonomi della Famiglia Madonia per contattare il Provenzano, gli aveva fatto inoltre presente che il capo di Cosa Nostra era molto soddisfatto per come stava operando, presto lo avrebbe convocato per esaminare insieme le varie problematiche ed affidargli alcuni incarichi importanti e delicati.
Quanto occorso, commentavano, era importante perché non solo ora era in diretto rapporto con il capo dell’Organizzazione, ma l’esame delle lettere sarebbe stato utile per meglio comprendere la strategia di Provenzano, acquisire conoscenza dei suoi affari e degli uomini di Cosa Nostra impegnati a supporto delle attività.
Lo scambio epistolare avrebbe inoltre consentito di effettuare pedinamenti mirati del Castello che, condotti con mille precauzioni e pronti ad essere sospesi al minimo accenno di essere scoperti, avrebbero sicuramente permesso, nel tempo, di evidenziare quella rete di complicità attiva nel favorire la latitanza del Provenzano e, se fortunati, giungere anche ad individuare il covo del ricercato.
Non nuovo a simili impegni, e prevedendo le tante difficoltà che avremmo incontrato, non solo nell’eseguire i pedinamenti ma anche per le incognite che il trascorrere del tempo ci avrebbe riservato, consigliavo pertanto all’Ilardo, che conveniva con il mio pensiero, che l’unica certezza sulla base degli elementi fino a quel momento acquisiti per garantirci la cattura del latitante era quella, già concordata, di ottenere un incontro con il Provenzano.
Inasprire la già forte contrapposizione che vedeva in quel tempo i vertici della sua Famiglia ostili al Giuseppe Cammarata di Riesi, vicenda per altro ben nota al Provenzano, sarebbe stata la chiave per ottenere l’incontro. Una volta tanto avremmo utilizzato a nostro vantaggio la strategia della “tragedia”.
Con Ilardo, infine, concordammo che, nonostante le ferree disposizioni del Provenzano di distruggere le lettere una volta noti i contenuti, egli dopo avermele fatte leggere invece le avrebbe nascoste, per poi consegnarmele al termine dell’indagine. Stessa prassi l’avrebbe adottata per quelle inviate in risposta, ovviamente conservando una copia.
Il nascondiglio di Provenzano era certo che fosse in Bagheria o nei suoi dintorni. Solo restando sul territorio poteva esercitare efficacemente il comando ed il “controllo” dell’Organizzazione, tessendo in tranquillità le sue tele ed ascoltando le tante voci, senza considerare che i contatti con i suoi uomini fuori dal solito contesto ambientale sarebbero stati più evidenti.
Il latitante, oltre al fatto che pochi lo avevano veramente cercato, si sentiva alquanto sicuro, non solo nei confronti delle Istituzioni, ma principalmente nei confronti dei suoi possibili avversari presenti nell’Organizzazione, anche perché da tempo si avvaleva di una rete di favoreggiatori sconosciuta agli ambienti di Cosa Nostra Palermitana e composta nella maggioranza da insospettabili; alcuni legati riservatamente ai Madonia di Caltanissetta.
A conferma di ciò, mi riferiva che il cugino “Piddu” aveva trascorso parte della sua latitanza in Bagheria prima di trasferirsi nel Vicentino, dove poi sarebbe stato localizzato ed arrestato, e la figlia di Leonardo Greco, una delle Famiglie più potenti di Cosa Nostra che risiedeva  in quella cittadina e notoriamente legata al Provenzano, aveva sposato Francesco Tusa, altro suo cugino.
I Madonia di Caltanissetta erano i più fedeli alleati del Provenzano e gli garantivano, inoltre, in qualsiasi momento, l’apporto di un grande numero di uomini armati, pronti a tutto e sconosciuti a Cosa Nostra. Bastava al riguardo considerare quello che poteva fornire “il serbatoio” di Gela, già sperimentato in altre guerre trasversali.
Altra conferma che il Provenzano fosse nascosto in Bagheria l’aveva avuta dalle donne della sua famiglia che, tempo prima, si erano recate in quella cittadina per portare al latitante delle medicine di cui ne aveva fatto preventiva e specifica richiesta, per seri problemi di prostata che lo avevano alquanto debilitato.
Una di quelle donne era sua zia Maria Stella, sorella del “Piddu”, molto stimata e considerata dal  Provenzano che, sovente, quale segno della sua considerazione ed affetto, le inviava un tipo di formaggio ad ella particolarmente grato, attenzione che faceva la donna elemento di spicco non solo per i componenti della famiglia.
Le parenti erano andate in Bagheria con la solita giustificazione di fare visita ai Greco, i parenti acquisiti, o di recarsi dal loro dentista di fiducia, un medico di origine svedese che aveva in cura anche altri mafiosi, e nell’accorso era venuto a conoscenza che il Provenzano era momentaneamente ospite presso una villa ubicata nella periferia della cittadina, per essere più adeguatamente curato.
La villa doveva essere di proprietà di Giacinto di Salvo, detto “Gino”. Genero di un mafioso locale, poi identificato in Francesco Scordato detto “Ciccio Bellavia”, il di Salvo era un altro dei contatti utilizzati dalle Famiglie di Cosa Nostra per giungere al loro Capo.
Provenzano, una volta curato, era ritornato ad essere ospite di un imprenditore ortofrutticolo, sempre di Bagheria, una persona di circa 40 anni, alta e distinta che in tempi più tranquilli lo aveva impiegato come ragioniere presso la sua ditta di vendita di agrumi. Da qui il vecchio soprannome di “ragioniere”.
Il dr. De Gennaro, edotto dei nuovi progressi, nell’intravedere un filo che conduceva direttamente al Provenzano disponeva che dovevo porre sul terreno un adeguato dispositivo di uomini per seguire il Castello nelle sue missioni di “postino”.
Il gruppo di uomini doveva essere non percepibile all’avversario, che poteva contare sul pieno controllo del territorio e mirare ad evidenziare la rete di complicità che proteggeva il latitante e raggiungendo, con l’apporto dell’Ilardo, la cattura del Provenzano o l’ubicazione del suo rifugio.
Con lo scopo di fare un primo sopralluogo, per studiare l’ambiente in cui avrei lavorato, mi recavo pertanto in Bagheria e non potevo non essere catturato dalla bellezza e dalla storia delle sue tante Ville, quali Villa Valguarnera, Villa Palagonia, Villa Rammacca ecc.. Contestualmente rilevavo l’evidente benessere presente in quel paese rispetto agli altri visti fino a quel momento.
Numerose erano le tante boutique rappresentati le migliori firme, le gioiellerie di livello, le imprese, e che dire della ostentata magnificenza delle vetrine di tante pasticcerie così come delle belle macchine che in gran numero affollavano quelle strade.

In quella occasione volli recarmi anche a Palermo, bellissima città. Andai in via Carini, dove la sera del 3 Settembre 1982 venivano ferocemente assassinati, dagli uomini di Cosa Nostra, il Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa, la sua seconda moglie Emanuela Setti Carraro ed il loro unico uomo della scorta ed autista, l’agente di P.S. Domenico Russo.
Non c’ero mai stato ed immediatamente il mio pensiero corse al giorno in cui avevo accompagnato, con l’allora Ten. Col. Bozzo, il Generale al porto di Genova per imbarcarsi su quel traghetto che, con la moglie, lo avrebbe condotto a Palermo.
Era sorridente e contento e, nell’accompagnarlo in cabina, mi disse di tenermi pronto, perché fra non molto l’avrei raggiunto per continuare a svolgere il mio lavoro d’investigatore e questa volta contro la Mafia.
Nel confermargli la mia più completa disponibilità e quella dei miei uomini, con me c’era anche il mio autista che il Generale ben conosceva, gli dissi sorridendo di essere un po’ dispiaciuto che non fosse più diventato il Prefetto di Napoli, come era previsto in un primo tempo, quando mi aveva dato l’incarico di trovargli una casa sulla costiera Amalfitana data la mia origine di quei luoghi.
Quante volte ancora con mia madre, alla quale avevo delegato l’incarico, ricordiamo quella assolata mattina di primavera, quando aveva incontrato in Vietri (SA) il Generale e le sue due figlie per illustrare i primi esiti della ricerca per “l’Ingegnere”, termine che usava nelle agenzie per tutelare la privacy del Comandante.
Nelle successive telefonate che avevo con il Generale, anche per assolvere suoi altri incarichi personali, intuivo immediatamente che il suo compito si stava presentando più arduo del previsto. Era molto dispiaciuto anche del fatto che gli era stata revocata la possibilità di alloggiare nella Foresteria della Divisione Carabinieri di Palermo e che il mio collega, quello che per tanti anni gli aveva fatto da segretario, questa volta non lo avrebbe seguito.
Compresi che si sentiva solo e subito gli chiedevo di poter sostituire il collega, ma Egli, con quel suo solito vocione rispose: …”ragazzo, tu verrai, quando mi daranno gli uomini che mi hanno promesso, perché quello è il tuo compito”
Questo malessere, dovuto al Suo progressivo isolamento, lo avevo già colto anche quando ero andato, sempre con il Ten. Col. Bozzo, a trovarlo presso il Comando Generale dell’Arma in Roma, nel corso di una delle nostre solite riunioni delle Sezioni Anticrimine.
Era allora il Vice Comandante dell’Arma, incarico che fu di breve durata, e nell’occasione, alquanto contrariato, disse di sentirsi inutile. Gli chiedevano solo di partecipare a cerimonie commemorative ed al suo ufficio non venivano neanche  inoltrate le segnalazioni dei Comandi dell’Arma in merito agli avvenimenti che si verificavano quotidianamente nel Paese.
Ricordo altrettanto, e bene, la telefonata che seguì al suo rientro da Roma, dove si era recato per affrontare quella situazione che ancora non vedeva rispettate quelle promesse fatte di assegnarli uomini e mezzi, condizione imprenscindibile per assumere l’incarico di Prefetto di Palermo.
Questa volta era più sereno e con voce risoluta mi disse di preparami presto a scendere, in quanto gli era stato assicurato l’invio, al più presto, degli uomini e mezzi promessi e pertanto dovevo verificare, tra il mio personale più efficiente, quanti di loro fossero pronti a seguirmi nel nuovo impegno e predisporre un elenco.
Mi misi subito in azione, ma dopo due – tre giorni da quella telefonata, ne giunse un’altra. Era di sera ed era un mio amico giornalista che, con voce grave ed affranta, mi diede la notizia della morte del Comandante. Non mi sentii mai così solo.
Fu la stessa considerazione che facemmo con il Ten. Col. Bozzo, il giorno dei funerali di Milano.
Molti, tanti, dopo la morte del Generale, hanno espresso giudizi o considerazioni sulle cause che potevano averla determinata. Alcuni hanno anche cercato di conoscere il mio pensiero, ma ho sempre allontanato quella gente, imparando sempre più a conoscere quel sorriso sfuggevole e quel lampo improvviso negli occhi che accompagna le loro parole.
La difesa, il rispetto delle Istituzioni, sono state costante fondamento dell’azione del Generale, anche per ottenere l’incarico dal Ministero degli Interni di riformare nel Settembre del 1978 i Reparti Speciali per la lotta al Terrorismo, che comandò fino al Dicembre 1979 per poi assumere il Comando della Divisione Podgora di Milano.
In quella occasione ebbe notevole aiuto dall’On. Taviani, che anche dopo il Generale non mancò di andare a trovare ed io lo scortavo, così come quando incontrava l’On. Pecchioli che, tramite suoi referenti, fornì prezioso aiuto al mio ufficio per individuare elementi delle BR presenti in Genova.
Il Generale ci ha insegnato a lavorare in gruppo, amalgamando le tecniche operative e rendendo più flessibile e meno statica la struttura, pronta a far gravitare uomini e mezzi dove maggiore era l’esigenza .
Sacrificio, lealtà, intelligenza e fantasia era quello che richiedeva a noi ufficiali, obbligandoci ad operare un continuo scambio d’informazioni che realizzava anche con frequenti riunioni presso i più diversi Comandi Arma, impegnandoci sovente con viaggi, nel pieno della notte, per poi essere aggiornato e discutere delle indagini.
Azione di coordinamento che in più occasioni, permise l’identificazione di un brigatista o l’individuazione di un covo.
Come diceva il Dr. Falcone - quando tanti cercavano di convincersi che l’inefficienza dello Stato era dovuta all’entrata in scena di una nuova Mafia più violenta di quella precedente - la Mafia è una sola da sempre, tutto è già scritto, basta leggere i vecchi rapporti di Polizia.
Il sentire in questi ultimi tempi riportare d’attualità il traffico della droga come una delle problematiche principali per contrastare efficacemente Cosa Nostra, senza voler considerare, come già detto sin dagli inizi della nostra indagine, che il Vertice criminale aveva emanato la direttiva di diminuire anche nell’entità il fenomeno delle estorsioni, sintomo evidente di un transito già in atto in altre attività apparentemente lecite, mi fa alquanto pensare.
Il giudice Falcone affermava che non si può efficacemente affrontare Cosa Nostra su vecchi terreni.
La Guerra è momento di creatività e si combatte ogni volta con strumenti diversi mentali e materiali.
Ho sempre visto il Generale affrontare i problemi di petto, d’impeto come era suo carattere. Non erano sue altre strade, conosceva il problema, le origini e sapeva pertanto come affrontarlo.
L’aver assolto brillantemente i tanti incarichi, con competenza e professionalità, che gli hanno consentito d’intuire e probabilmente conoscere gli aspetti più reconditi del problema, è stato elemento penalizzante e sintomo di instabilità per quegli ambienti che, per conseguire la loro più conveniente stabilità politica ed economica, avevano prima posto in essere quel progetto definito da alcuni “il tintinnar di sciabole”,  poi lo avevano fatto naufragare raccogliendone anche i meriti, per poi transitare al “sistema degli affari”, alimentando il concetto “potere – profitto” che meglio legava e comprometteva tutti.
Il Generale dalla Chiesa, come riferì ai magistrati Turone e Colombo di Milano nel suo verbale del Maggio 1981, non ebbe mai l’interesse personale di aderire alla Loggia P2, quando già dal 1979 aveva dato incarichi anche specifici, all’allora Ten. Col. Bozzo ed a chi ha scritto questo articolo, con indagini sulla Massoneria.
Adesione che fu strumentale per tranquillizzare quegli ambienti anche interni all’Arma (vedi verbale del 1981 ed articolo edito su “i Siciliani” – “Generali Eccellent”i) a lui ostili e che non avevano visto di buon occhio, all’epoca del suo comando della Brigata Carabinieri di Torino, il predisporre all’interno di quel primo Nucleo per la lotta al Terrorismo, già per altro osteggiato, di un gruppo di uomini dedito al contrasto dell’Eversione di Destra.
Come a Torino, anche nella Provincia di Savona le indagini in merito agli attentati dinamitardi degli anni ‘74/’75 ebbero lo stesso esito e videro poi il Generale affermare che, in lui, si era radicato il sospetto che per quegli attentati, come in altri fatti criminali dell’epoca ed attribuiti all’estrema destra, questa, nel porli in atto, avesse trovato supporto o sostegno in Ambienti Politici e non lontani dalla Massoneria.
Clima ostile che, puntualmente, si manifestò quando poi le indagini sugli attentati ebbero nuova linfa nell’ambito della inchiesta “Teardo”, condotta con la direzione dell’allora Ten. Col. Bozzo e da questa “attenzione”, non furono esenti i magistrati competenti dell’epoca, il P.M. Michele del Gaudio ed il G.I. Francantonio Granero.
Quel verbale del Maggio 1981, pertanto, costituiva una pericolosa e probabile verità, rappresentata da un Generale dei Carabinieri come dalla Chiesa, massimo esperto in fatti di Eversione, dai risultati incontestabili per quell’Ambiente sopraddetto che si sentiva esplicitamente chiamato in causa e che vedeva, anche, una dichiarazione d’impegno professionale e morale di sovvertire quelle regole che troppe volte avevano obbligato ed ancora vedono il cittadino con i suoi diritti e doveri, cedere il passo ai Clan, al Clientelismo politico, alla Mafia, alla Massoneria.  
Questo impegno che non transitava da “trattative” e che non prevedeva compromessi, evidentemente decretava la fine del Comandante e non quella accecante ambizione da taluni strumentalmente prospettata.
Il giudice Falcone, nel ricordare la morte del Generale, di Mattarella, di Reina e di Pio la Torre affermava:
…”Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la Mafia colpisce i servitori dello Stato che non è riuscito a proteggere”
 
Certo è, che ogni nuovo impegno ha visto il Comandante operare sempre più solo, con gli altri che seguivano diversi percorsi, motivati da altri interessi, esponenti di altre storie e referenti, molti già da tempo, di altri ambienti e persone.
Se il Generale avesse continuato nell’impegno di Vice Comandante dell’Arma, attendendo poi un comodo, ben retribuito, incarico di direttore o presidente onorario di qualche ente, gratificazione che non è mai stata negata a nessuno, non sarebbe sicuramente morto.
La nomina a prefetto, probabilissimo passaggio ad altra nomina più importante e  necessaria per proseguire nel detto impegno, costituiva momento di allarme e di certezza delle reali intenzioni del Generale, e riscontro che la parola fine fosse stata già scritta era l’accertare che il furto della motocicletta, utilizzata da Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda” e da Giuseppe Lucchese, due dei mafiosi componenti il commando di Cosa Nostra che la sera del 3 Settembre 1982 lo assassinò, fosse avvenuto un mese dopo il suo arrivo in Palermo, il 30 Aprile 1982.
Mezzo mai utilizzato dai mafiosi se non per fare un sopralluogo del luogo dell’attentato. L’assassinio del Generale, di sua moglie e dell’agente di scorta, era tra le parole Fine quella più cruenta, decretata da chi aveva voluto armare la mano dei suoi assassini, all’indomani di quella conferma di poter finalmente disporre degli uomini e mezzi promessi, anche perché la Mafia, fino a quel momento, non aveva corso alcun pericolo.
Combattere la Mafia, non è solo giungere, anche se è già un primo passo importante, alla condanna degli autori di crimini efferati come quello dell’assassinio del Generale dalla Chiesa, che come in altri casi vi arrivano già morti per altri fatti di mafia, ma è essenzialmente interrompere quel vincolo scellerato che vede le persone di ogni ceto sociale aiutarsi vicendevolmente, secondo proprie leggi di onore, fuori delle leggi e delle autorità costituite.
Di personaggi come Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda” o “ U tinenti”, visti anche i tanti omonimi, le liste di costrizione di Cosa Nostra ne sono affollate. Essi sono pedine sacrificabili per regole valide solo per loro, nell’ambito di un rapporto mafioso a loro escluso e che vede partecipare solo alcuni dei loro Capi, quali ad esempio Riina, Provenzano, Badalamenti, Piddu Madonia, Giuseppe Farinella, o Santapaola.
E’ prioritario, importante, dare significato al sacrificio di questi Uomini delle Istituzioni come Falcone, Borsellino, Mattarella, Pio La Torre, dalla Chiesa ed altri che, pur mettendo in preventivo la possibilità di morire, non avevano remore di fare con serietà ed onestà il proprio dovere, per quelle Istituzioni che invece non ha saputo proteggerli.
Anche il professore Marco Biagi, consulente del lavoro e fedele servitore dello Stato, è un altro degli uomini soli che lo Stato non è riuscito a proteggere. Il Terrorismo, pur colpendo di massima la persona non per il suo ruolo oggettivo, ma in quanto simbolo, non è diverso dalla Mafia, in quanto sono crimini associativi, perpetrati con la stessa ferocia, intelligenza criminale, background informativo, strumentali interessi politici e connivenze ancora inesplorate.

Michele Riccio


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«Questo Paese non si salverà se non nascerà un nuovo senso del dovere»
(Aldo Moro)


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Il colonnello Michele Riccio

Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


ANTIMAFIADuemila N°22

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