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Indice articoli

Continuano le rivelazioni del confidente Luigi Ilardo

di Michele Riccio

Proseguiamo, dal numero precedente, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

Ilardo e Piddu Madonia
Luigi Ilardo era ufficialmente reinserito nella “Famiglia” di Caltanissetta, il 3 Febbraio del 1994, allorquando accompagnava Giovanna Santoro, la moglie del cugino Piddu Madonia, presso il Tribunale di Gela (CL) dove quel giorno il capo della Famiglia Nissena era presente per un processo e avevano pertanto la possibilità di parlargli.
Il Piddu era contento di averlo visto e di saper libero un familiare di “peso”, al quale lo legava lunga militanza in Cosa Nostra e la grande stima e considerazione del proprio padre, Francesco.
Immediatamente il Piddu gli aveva chiesto d’interessarsi della Famiglia e di contattare, con la cautela di sempre, gli “amici” Ciro Vara e Domenico Vaccaro, gli unici al momento impegnati in discorso aggregante.
Il Vaccaro, dal recente passato di killer coraggioso e spietato, era ora il responsabile provinciale, in quanto dava maggiori garanzie rispetto al Vara per essere meno scaltro e non condizionato dal tutelare ricchezze personali.
La situazione in Gela era piuttosto grave. Imperava confusione ed anarchia, con il gruppo di Rinzivillo in permanente lotta con i ragazzi dei fratelli Emmanuello, noti come i “carusi”, e determinati ad ogni costo ad ampliare la loro sfera d’influenza e di potere.
Il contrasto doveva essere risolto con abilità anche perché, pur non essendo ancora gli Emmanuello tutti uomini d’onore, erano loro ugualmente molto legati a causa delle molte azioni armate che questi avevano commesso per i Madonia, interessati sovente a non apparire perché condizionati dalle regole e dai vincoli di Cosa Nostra.
Era consigliabile che i cugini Tusa Lucio e Francesco, al momento latitanti, si costituissero per non incorrere in ulteriori denunce ed in considerazione della loro difendibile posizione giudiziaria. Francesco, effettivamente, in data 30 Maggio 1994 si costituiva presso la casa circondariale di Catania.
Credo che il vero motivo del consiglio del Piddu nascesse dalla preoccupazione di evitare spiacevoli conseguenze al cugino, per via della scomparsa di 500 milioni di lire frutto di una protezione pagata in Catania dai responsabili di una nota azienda, la “Megara”, di cui questi si era interessato per disposizione di Provenzano.
I responsabili della Famiglia Etnea, non avendo ricevuto la loro parte, la stavano richiedendo con insistenza, promuovendo nel frattempo un’inchiesta interna a Cosa Nostra.
Per come vedremo in seguito, ritengo che il denaro sia stato diviso tra il Provenzano ed il Piddu, ma lo scopriremo meglio vedendo insieme la tragedia che ne nascerà, esempio tipico del vivere e del morire di Cosa Nostra.
L’Ilardo doveva realizzare altro incontro con Eugenio Galea e Vincenzo Aiello, gli uomini d’Aldo Ercolano, nipote di Nitto Santapaola, che ora reggevano le sorti della “Famiglia” di Catania. Ciò per concordare una comune linea d’azione come richiesto dal Provenzano.
Il Piddu, nel raccomandargli sempre prudenza nel muoversi, gli aveva confidato che in Cosa Nostra perdurava ancora una certa apprensione per conoscere il livello della collaborazione del Salvatore Cancemi con la Giustizia. Questi era in grado di assestare un duro colpo all’Organizzazione.
Ciò era quanto mi rappresentava l’Ilardo nel conseguente incontro che avveniva in Roma, città nella quale si era recato per incontrare il Rinzivillo, per affrontare subito la situazione di Gela.
Ilardo, con soddisfazione, aveva accolto il suo reinserimento ai vertici della Famiglia, segno d’immutato riconoscimento delle sue capacità, ma non mi nascondeva una certa tensione e preoccupazione nel vedersi nuovamente proiettato nelle vicende siciliane e questa volta non solo come mafioso. Pertanto mi chiedeva, ancora una volta, prudenza ed attenzione nel riferire ai superiori le notizie acquisite.
Nel corso degli incontri successivi, che come sempre avvenivano in luoghi diversi, mi raccontava dei progressi conseguiti che lo avevano condotto ad avere numerose riunioni con affiliati all’Organizzazione, i quali lo aggiornavano degli eventi e delle problematiche che avevano investito in quei tempi Cosa Nostra e degli effetti derivati.
Gli era stato anche offerto l’incarico di reggente della Famiglia, ma aveva preferito respingere l’impegno, facendo presente che gli era indispensabile avere una certa libertà per assolvere i compiti assegnatigli dal Piddu ed indirettamente dal Provenzano. Che voleva vedere le Famiglie di Caltanissetta, Enna e Catania agire in sintonia e sotto la sua influenza.
L’Ilardo, come mi confidava, preferiva ancora non esporsi per meglio studiare la situazione e giungere pian piano anche alla cattura dei maggiori latitanti posti ai vertici dell’Organizzazione e, perché no, anche a quella del Provenzano, personaggio a lui ben noto. Era solo una questione di tempo e di pazienza.
Ricordo che alle mie continue sollecitazioni rispondeva sorridendo e sovente con un certo sfottò: …”Colonnello, non avete mai voluto cercarlo per tanti anni pur sapendo che Provenzano non si era mai mosso da dove è sempre stato ed ora lei vuole fare le cose subito, per essere sicuri del risultato e non esporsi a pericoli ci vuole un po’ di pazienza e far si che sia Lui a chiedere un incontro“.

Cosa Nostra
Esaminando, pertanto, quel primo flusso d’informazioni ero già nelle condizioni di delineare un primo quadro della situazione esistente in Cosa Nostra.
La frattura del Sodalizio era un dato ormai certo.
Da un lato c’erano Bagarella e Brusca, che potevano contare su l’appoggio dei Madonia di Palermo, della Famiglia d’Agrigento retta da Salvatore Fracapane e di altri parziali seguiti presenti presso le altre Famiglie.
Esempio era quello di Giuseppe Cammarata di Riesi (CL) che aveva trovato riparo presso Di Caro Antonio, del sodalizio d’Agrigento, intuendo le opportunità che gli stava fornendo questo scontro per raggiungere posizioni di vertice nella propria Famiglia.
Questi personaggi erano determinati a seguire la strategia operativa tracciata da Riina se l’azione di contrasto dello Stato non si fosse affievolita.
Dall’altro lato c’era Bernardo Provenzano con il sostegno di Piddu Madonia, di Pietro Aglieri, di Antonino Giuffrè, capo mandamento di Caccamo (PA) e delle altre Famiglie della Sicilia Orientale.
In tale ottica Ilardo doveva agire per risolvere i problemi interni alla Famiglia Nissena e prendere contatto con il responsabile provinciale di Enna, Salvatore la Placa e quelli di Catania, Galea ed Aiello.
Provenzano, a dispetto delle tante voci che lo volevano morto o chissà dove, era ben vivo ed operativo, anche se condizionato dal suo stato di salute e dalla maggiore presenza sul territorio delle Forze di Polizia. Perciò aveva ridotto all’indispensabile gli incontri preferendo inviare disposizioni scritte su bigliettini dal suo rifugio, che doveva essere nei pressi di Bagheria (PA), mediante fidati ed insospettabili messaggeri.
Il personaggio che svolgeva questo compito per la Famiglia di Caltanissetta era un imprenditore ortofrutticolo di Bagheria, tale Simone Castello come poi era identificato.
La strategia del Capo di Cosa Nostra era la seguente:
Priorità assoluta nel raggiungere nelle rispettive Famiglie una stabilità interna nominando un unico responsabile e non accettando provocazioni con la parte avversa dello schieramento; abbandono di quelle attività criminali che avrebbero poi determinato un’immediata reazione dello Stato, quali omicidi, estorsioni, traffico degli stupefacenti che, oltre a prevedere pene severe, consentivano facilmente l’applicazione del reato associativo.
Continuare ad esercitare le solite protezioni che non dovevano essere mai strangolanti e riscoprire altri reati quali ad esempio il contrabbando dei Tabacchi che, oltre a soddisfacenti guadagni, prevedeva pene miti e difficoltà nel dimostrare l’associazione a delinquere.
Cosa Nostra doveva al più presto riassumere l’immagine di un tempo, più affaristica e colloquiante con lo Stato, dove il controllo del territorio e l’immediata presenza nell’affrontare e risolvere le richieste d’aiuto erano componenti essenziali della Sua esistenza, affermazione e forza.
In tale prospettiva era stato stabilito un contatto con un esponente di rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi, personaggio che, in cambio di un loro futuro appoggio alle elezioni, votando “Forza Italia”, avrebbe assicurato già dopo sei mesi di governo il varo di leggi più favorevoli per le persone detenute e più garantiste per gl’inquisiti. Nonché il rallentamento dell’azione di contrasto dello Stato e coperture allo sviluppo dei loro interessi economici, prevedendo la concessione di appalti e finanziamenti statali.
Questo rapporto non sarebbe proseguito in modo subordinato e senza precise garanzie, ma con fermezza, pronti anche a prevedere la formazione di un autonomo soggetto politico. Ma, come già detto nel mio precedente articolo, Bernardo Provenzano era convinto della riuscita del progetto, a cui dava 6/7 anni di tempo per la sua realizzazione.
Già ora era circolante la disposizione di votare Forza Italia, come mi rappresentava Ilardo, indicazione che proveniva da Palermo da dove, come sempre nel passato, si suggeriva lo schieramento politico sul quale si dovevano far confluire i voti.
Successivamente era comunicato anche il personaggio locale da votare, se quest’aspetto rientrava nell’intesa stabilita, altrimenti era lasciata questa decisione agli interessi locali della Famiglia.
Altro dato interessante era la possibilità di votare localmente un personaggio anche appartenente ad uno schieramento avverso (cioè di centrosinistra), se la scelta poteva essere pagante per l’Organizzazione - ovviamente era necessario l’assenso di “Palermo”. Provenzano, in ciò, era persona d’ampie “vedute”.
Sempre con mediatica anticipazione, siamo nei primi mesi del 1994 (come scritto nel mio rapporto dell’epoca – Grande Oriente –), iniziava a circolare con maggiore insistenza la voce che molti mafiosi, in maggior parte reclusi, stavano manifestando l’intenzione di dissociarsi da Cosa Nostra, ammettendo unicamente le proprie responsabilità ed avevano affidato questa volontà a sacerdoti amici e confessori, per farla progressivamente filtrare all’esterno.
Tale strategia, secondo Ilardo, nascondeva il sottile progetto di inabissare la Mafia rendendo noto quanto era già intuibile, tranquillizzando così l’Opinione Pubblica, ma, di fatto, continuando ad operare con una nuova struttura più selettiva e costituita da elementi insospettabili e dediti principalmente agli affari.
Tale notizia, in relazione a quanto denunciato in questi giorni dagli organi d’informazione - in riferimento ad esponenti di livello di Cosa Nostra e della ‘Ndrangheta che hanno avanzato questa possibilità non destando particolare allarme, anzi, suscitando in qualche caso autorevole attenzione e valutazione - non vuole costituire solo un ennesimo riscontro, ma momento di riflessione.
Ancora una volta di più si può dire che Bernardo Provenzano è una persona intelligente e che sa fissare nel tempo i suoi obiettivi. Ma mio parere è che certi progetti, non fondati su calcoli matematici o analisi economiche, per avere attenzione e poi costituire oggetto di dibattito e di valutazione, per essere infine digeriti, necessitano di una strategia superiore che sa di poter contare su di una rete di supporto ben accreditata ed autorevole.


Il Postino di Provenzano
Uno dei momenti più importanti della indagine si verificava il 12 Aprile 1994, allorquando Ilardo, Ciro Vara e Tusa Antonio, il terzo più giovane ed incensurato dei fratelli Tusa, ricevevano la visita del Simone Castello proveniente da Bagheria.
L’imprenditore, con fare divertito, mostrava agli “amici” delle buste contenenti delle lettere e nel fare presente d’averle ricevute dal “ragioniere” (Provenzano) affermava di aver ricevuto disposizione d’imbucarle dalla Calabria, dove appunto si stava recando e ridendo affermava: … “ne vedremo delle belle”.
Andato via il Castello avevano immediatamente ipotizzato che era in atto una nuova manovra destabilizzante del Provenzano, tesa sicuramente ad ottenere un nuovo risultato simile a quello conseguito con le lettere del “Corvo” e questa volta probabilmente ci sarebbe stata una rivelazione su una qualche gestione anomala di pentiti, figura da loro molto temuta.
L’Ilardo, nel riferirmi l’episodio, non mancava di sottolinearmi che se lo scopo delle lettere era quello presupposto anche questa volta l’autore non era certo Provenzano, ma gli ambienti superiori di suo riferimento.
Precisava ancora che il Castello mascherava la sua attività di “postino” con il suo lavoro d’imprenditore d’agrumi, che nel recarsi a Pachino, cittadina nel Ragusano dove aveva un’altra sua azienda del settore, si fermava per qualche momento dal Tusa Antonino, da poco laureato in agronomia, per chiedere consigli e pareri.
I Tusa, scientemente, avevano preferito non esporre un loro congiunto, il più predisposto agli studi, per aver un familiare apparentemente estraneo alle loro attività criminali che poteva seguire e giustificare un domani il patrimonio di famiglia e nel frattempo gestire quei contatti riservati in modo inosservato.
Giorni dopo, gli organi di stampa davano ampio risalto alla notizia che Bernardo Provenzano era vivo e che aveva scritto, firmando di suo pugno, delle lettere indirizzate a due avvocati nominandoli suoi difensori ed ai Presidenti della Corte d’Assise e della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, comunicando la scelta dei difensori per i procedimenti dove era imputato.
Uno dei due legali era l’avvocato Traina, già difensore di Luciano Leggio.
L’esame del timbro postale della lettera e quello del tabulato telefonico del suo cellulare stabilivano che il Castello, in data 13 Aprile 1994, si trovava nella zona di Reggio Calabria, luogo di spedizione della lettera.

Cosa Nostra e le Istituzioni …

Alcune volte Ilardo preferiva non parlare di avvenimenti o di storie di Cosa Nostra e comprendevo allora che aveva bisogno di un contatto umano e lo lasciavo tranquillo. Così mi spiegava degli sforzi che stava compiendo per risollevare la famiglia, per ridare un po’ di dignità e benessere sia al padre, ormai vecchio e malato, che alla sua compagna, alla quale era profondamente legato.
Mi confidava che la figlia più grande gli dava delle apprensioni, che si era legata con un ragazzo piuttosto avventato e già incline a percorrere una strada che non gli piaceva.
Suo desiderio ed impegno erano quelli di rimettere in attività l’azienda di Lentini fornita di stalle e campagna, alla quale il padre era molto legato e che un tempo era fiorente.
Ricordo ancora sorridendo le occhiate divertite che un giorno ci scambiammo con lui quando il padre, che mi conosceva quale responsabile di una finanziaria del Nord Italia interessata ai progetti del figlio per meglio qualificare le potenzialità dell’azienda, iniziò a raccontare del tempo che cavalli ed asini, in gran numero, crescevano nelle stalle della fattoria e grandi pranzi erano imbanditi sotto i pergolati più freschi e riparati dalle alte mura di cinta.
Incontri conviviali che vedevano la partecipazione d’autorità, d’alti ufficiali dei Carabinieri e dell’Esercito.
Il padre Calogero, nel 1985, era stato inquisito per associazione per delinquere ed altro insieme al Generale Ferroni Francesco dei Servizi Veterinari, per l’anomala compravendita di quadrupedi per l’Esercito.
In sede d’interrogatorio il Gen. Ferroni si giustificò affermando d’aver conosciuto l’Ilardo Calogero tramite il Ten. Col. dei Carabinieri Serafino Licata.
Ufficiale, già Comandante del Gruppo Carabinieri di Catania, coinvolto e poi prosciolto in numerose inchieste, anche a seguito degli asseriti rapporti con Santapaola, mafioso già confidente dell’allora Ten. Col. dei CC. Franco Morelli nativo di Catania ed iscritto alla Loggia P2. 
Una sera, mentre era intento a farmi comprendere che Cosa Nostra andava affrontata con cautela perché molteplici erano le sue colleganze e cointeressenze in ogni settore della vita pubblica, istituzionale ed imprenditoriale - perciò anche l’amico più fidato poteva costituire un potenziale pericolo - mi rappresentava che il giudice Falcone era stato ucciso su mandato di quelle Istituzioni deviate.
Il magistrato, nonostante fosse stato trasferito in Roma con l’assegnazione di un incarico di prestigio e poi con la promessa d’altro nuovo ed importante impegno professionale, non aveva mai smesso di continuare le sue indagini su Palermo.
Attività investigativa che conduceva con il suo amico, il dr. Paolo Borsellino, non consentendo o permettendo così di far archiviare le varie inchieste giudiziarie che erano nate su suo principale input e che costituivano potenziali pericoli per Cosa Nostra e per i suoi “referenti politici”.
Secondo Ilardo (come scritto nel mio rapporto “Grande Oriente”), mandante dell’assassinio del giudice, di quello della moglie e degli uomini della scorta era stato l’On. Martelli che agiva su disposizione dell’On. Andreotti al quale era legato.
Ilardo, già all’epoca della sua detenzione presso l’Ucciardone, la casa circondariale di Palermo, era stato informato dai suoi familiari, anche quale esponente della Famiglia, che il giudice Falcone non era stato più ucciso con il progetto illustratogli dal co - detenuto Filippo Marchese, con l’utilizzo di un lancia missile, in quanto il magistrato era stato bruciato politicamente dai Socialisti.
In riferimento mi accennava, rimandando in seguito ogni altra notizia, che l’attentato dell’Addaura era stata una messa in scena strumentale a determinare il trasferimento del dr. Falcone.
Il giudice Borsellino veniva di conseguenza ucciso perché avrebbe sicuramente proseguito l’azione investigativa e la morte dell’amico gli aveva fatto comprendere chi fossero i mandanti dell’attentato.
Cosa Nostra sospettava che l’azione promossa dal dr. Falcone procedesse in sintonia, o in raccordo non palese, con quella condotta dalla Procura di Milano.
Riferiva ancora, rimandando in seguito ogni approfondimento, che molte ombre aleggiavano dietro l’arresto di Totò Riina ed all’interno di Cosa Nostra si commentava apertamente il ruolo avuto dai Servizi Segreti nelle vicende del Boss e dagli strani contatti avuti con personaggi sconosciuti anche ai suoi più stretti collaboratori (la vicenda del “PAPELLO” come poi la chiamerà Giovanni Brusca).

Cosa Nostra negli anni ‘70 i rapporti con le Istituzioni Deviate, i Servizi Segreti, la Massoneria e la Destra Eversiva
In questo cauto procedere, teso a non pregiudicare la fiducia di Ilardo, che vedevo crescere giorno dopo giorno nei miei confronti, riuscivo a riprendere quei temi interessanti, gli eventi di un non lontano passato e che ora con gli stessi “ambienti deviati” stava promuovendo la medesima strategia fatta anche di attentati stragisti.
Ciò in applicazione a quanto affermava il giudice Falcone che “nella lotta alla Mafia è importante avere la memoria”, concetto che avevo già imparato, e bene, nel mio lungo servizio alle dipendenze del Gen. dalla Chiesa.
Nell’intenzione di trattare in seguito con un articolo dedicato esclusivamente ad esaminare gl’intrecci Mafia – Massoneria ed ordini Cavallereschi, di cui non solo il Gen. dalla Chiesa ed il Gen. Bozzo n’avevano colto l’importanza impegnandomi in indagini, ma gli stessi magistrati Falcone in Palermo e Turone e Colombo in Milano con le loro inchieste sull’omicidio Ambrosoli del 1979 - commissario liquidatore della “Banca Privata Italiana” di Michele Sindona - ora desidero dare solo un quadro generale del tema, per meglio illustrare questo momento dell’inchiesta.
Indagine che, a seguito delle ulteriori informazioni dell’Ilardo, trovava ancora immediata colleganza e riscontro autorevole con quanto dichiarato nel Maggio del 1981 dal Generale dalla Chiesa ai Magistrati di Milano.
Colleganza che si aveva anche su quanto scritto sul periodico “I Siciliani”, fondato da quel giornalista Giuseppe Fava assassinato da Cosa Nostra il 5 gennaio del 1984 per la sua lotta contro la Mafia ed i Poteri forti ad essa collegati, con un articolo dal titolo “I Nemici di Dalla Chiesa”, riportando fatti che ho vissuto al pari di miei colleghi e superiori.
 L’articolo, richiamando le dichiarazioni del Gen. dalla Chiesa e dell’allora Ten. Col. Bozzo rese ai predetti magistrati Turone e Colombo di Milano, denunciava l’esistenza di un forte gruppo di potere all’interno dell’Arma di ispirazione Massonica con chiari riferimenti alla Loggia P2 e ad obbedienze occulte.
Significativo era il richiamo alla strana carriera percorsa dal Generale dei CC Pietro Musumeci, ufficiale di origine catanese, conclusasi con l’installazione per conto della P2, insieme a personaggi come Pazienza, nella realizzazione di una rete eversiva ai vertici dei servizi segreti italiani.
L’articolo denunciava ancora che nel predetto gruppo di potere presente nell’Arma sin dal 1972 comparivano alti ufficiali siciliani, o successivamente operanti in Sicilia, come Musumeci ed il Gen. Siracusano G.
Nel giugno del 1979, in Milano, il Gen. dalla Chiesa per la prima volta li contrasta apertamente. Ricordo che nello stesso anno veniva assassinato il direttore di OP Mino Pecorelli, in rapporti con il Generale dalla Chiesa, iscritto alla P2, da cui si dimetteva nel 1978, e che aveva mirato alla direzione del quotidiano il Messaggero.
Contrasto parallelo era anche quello che opponeva il Generale dalla Chiesa al Generale Cappuzzo, Comandante Generale dell’Arma ed esponente in Sicilia dei “Cavalieri del S. Sepolcro”, del costruttore palermitano Cassina, che vedevano tra gli altri la presenza del Colonnello dei CC Serafino Licata.


L’articolo, inoltre, ricorda ancora i contenuti della relazione Anselmi, che rendeva ufficialmente noto che ai tempi dell’affaire Moro (durante il quale vi fu un’attiva opera di depistaggio svolta dal Musumeci) le indagini delle forze dell’ordine erano dirette da un Comitato di Coordinamento, composto in massima parte da piduisti quali i Generali Giudice, Torrisi, Santovito, Grassini, Lo Prete, e Siracusano.
Con riferimento a quanto appena esposto, Ilardo mi ripeteva che il Luigi Chisena, negli anni ’73 / ’74 era sceso in Sicilia su disposizione del Luciano Leggio ed era ospitato dalla sua famiglia alla quale si legava strettamente.
Sempre su disposizione del Leggio, poco dopo lo accompagnava in Calabria quale messaggero e garante di Cosa Nostra presso il boss della ‘Ndrangheta Domenico Tripodo. Scopo della missione era l’avvio di comuni attività criminali, quali il traffico dei Tabacchi e poi quello dei Sequestri di persona, strategie già concordate dai Capi mafiosi al tempo del loro comune soggiorno, prima in Torino e poi in Milano.
 Per non destare sospetti della sua presenza in Calabria l’Ilardo, tramite gli uffici del Chisena, trovava impiego, solo formale, presso l’azienda Liquilchimica di Saline Ioniche (RC).
Numerose erano le esperienze che Ilardo viveva in quel contesto e che lo portavano anche a legarsi saldamente ai figli del capo locale Iamonte Natale, prima uomo del boss Tripodo e poi transitato con i De Stefano, una delle famiglie mafiose più potenti di Reggio Calabria, autore di numerosi omicidi ed estorsioni tra le quali quelle alle imprese Lodigiani s.p.a. ed al costruttore Costanzo.
Lo Iamonte partecipò anche ai lavori che videro la costruzione dello stabilimento Liquilchimica di Saline Ionica.
Tra le tante notizie che il collaboratore mi riferiva, colpiva la mia attenzione quella che indicava l’assassinio del Giudice Scoppelliti come non voluto dai vertici del tempo di Cosa Nostra, ma originato nella sanguinosa faida che aveva portato allo scontro la cosca del Tripodo e dello Iannò contro quella dei De Stefano prima alleati.
Notizia che era discordante da quella riportata da altri pentiti, anche importanti, di matrice calabrese che indicavano la Cupola di Palermo quale mandante dell’omicidio; anni dopo, a riscontro, la Corte di Cassazione stabiliva l’estraneità di Cosa Nostra dal delitto.
Il Chisena, come massone, creava i presupposti per l’arrivo in Sicilia del Gran Maestro Savona Luigi, personaggio che realizzava l’ingresso di Cosa Nostra nella Massoneria, vedi inchiesta giudiziaria sul noto circolo culturale “Antonio Scontrino” di Trapani, dove risultarono operanti ben 6 Logge coperte, con tali criteri di segretezza che per una, la “Iside 2”, non esisteva traccia della sua esistenza negli atti della Commissione Parlamentare.
Il Savona, nell’estate del 1977, operava prima in Catania, con base all’hotel Excelsior e successivamente in Palermo e Trapani, portando a termine più incontri con i massimi esponenti di Cosa Nostra. Noti ed importanti sono anche i suoi rapporti con Pino Mandalari, il noto ragioniere di Riina.
Chisena, come uomo dei Servizi Segreti, si recò due volte all’interno dell’arsenale della Marina d’Augusta, in compagnia dell’Ilardo e di due agenti del Servizio, prelevando ogni volta una valigia contenente circa 50 Kg. d’esplosivo al plastico che il collaboratore ricordava di colore verde mare e che poi fu trasportato in Calabria.
Dato interessante era quello che acquisivo nelle successive indagini che sviluppavo sulle presenze Massoniche in Sicilia, dove risultava che il Capitano di Vascello Lo Iacono Giuseppe, nativo di Licata (AG), era stato comandante del Porto di Augusta ed iscritto alla Loggia “A. Lemmi” del Grande Oriente d’Italia in Roma.
In Roma, in Piazza Cavour, pochi giorni dopo il sequestro Moro, il Chisena incontrava prima il Savona Luigi e poco dopo due personaggi che, successivamente, all’Ilardo, presente all’incontro, qualificava come agenti dei Servizi. A questi venivano consegnate alcune mazzette di soldi che il Chisena prelevava da una borsa colma di denaro.
Il collaboratore (Ilardo), nel rimandare sul punto ogni discorso, mi faceva comprendere che il denaro in parte proveniva dal Traffico dei Tabacchi ed in parte dai sequestri di persona.
Molti contatti tra il Chisena e gli agenti dei Servizi Segreti, per come aveva modo di assistere Ilardo, avvenivano sul traghetto della linea Villa San Giovanni (RC) – Messina. In quelle occasioni il massone parlava con un responsabile e gli altri agenti sorvegliavano che tutto avvenisse in ambito tranquillo e riservato.
I Servizi Segreti coprivano la latitanza del Chisena e l’Ilardo mi riferiva di aver avuto modo di vedere i documenti personali di copertura utilizzati dall’amico e predisposti dal Servizio.
Erano delle tessere plastificate dai bordi di colore azzurro ed in occasione del primo arresto del Chisena, avvenuto nell’Agosto del 1975 ad un posto di blocco della Polizia Stradale in località agro di Lazzaro (RC), l’amico che guidava l’auto glieli aveva dati pregandolo di distruggerli, facendolo scendere e fuggire prima del suo fermo, compito che poi assolse in una vicina campagna dove si era nascosto, assistendo alla cattura del compagno.
In occasione dell’omicidio di Francesco Madonia, al quale era molto legato, il Chisena, per operare con un gruppo di persone sconosciute agli ambienti mafiosi avversi, fece giungere dalla Calabria alcuni suoi uomini, molto abili con le armi e tutti con un passato nella destra eversiva.
Uno di questi era Turro Annunziato Palmiro alias “Nuccio”, nativo di Reggio Calabria, che il Chisena aveva fatto evadere dall’ospedale civile di Reggio Calabria, dove questi era stato tradotto dal carcere di Messina per un intervento ad un occhio affetto da cateratta.
Il Turro era già noto quale elemento della destra eversiva reggina non solo per scontri a fuoco, durante i quali era rimasto anche ferito, ma anche a seguito del suo arresto con l’avvocato Nicola Bolignano di Reggio Calabria, di comune militanza politica, per la detenzione di bombe a mano e munizioni.
Insieme al Chisena e agli altri calabresi costituirà il commando che riuscirà ad uccidere il Calderone Giuseppe, mandante insieme al Di Cristina, già eliminato dai corleonesi, della morte di Madonia Francesco. Nell’occasione veniva ferito anche l’autista e guardiaspalle del boss, il Turi Lanzafame.
Ilardo, che aveva già conosciuto il Turro al tempo del suo soggiorno in Calabria, mi raccontava anche della collaborazione che questi, affiliato alla cosca di Domenico Martino, aveva offerto, al pari di altri esponenti della ‘Ndrangheta, ai Servizi Segreti nel gestire l’allontanamento prima dalla Calabria di Franco Freda e poi il suo espatrio in Francia.
Quanto detto trova conferma nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia calabresi Lauro e Barreca, che hanno compiutamente illustrato il ruolo avuto dai Servizi Segreti nella vicenda Freda con la partecipazione degli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, Natale Iannò e Domenico Martino, tutti affiliati alla ‘Ndrangheta e dai componenti della Famiglia Saccà.
Questo ulteriore flusso d’informazioni, integrato dai primi riscontri, mi permetteva di avere un quadro più chiaro di quegli eventi e le dichiarazioni rese dal Gen. dalla Chiesa ai magistrati Turone e Colombo di Milano assumevano maggiore importanza ai miei occhi, e non solo come autorevole riscontro, ma anche per i significati in esse contenuti.
Nel momento in cui Ilardo mi riferiva della consegna del denaro del Chisena ai due Agenti dei Servizi Segreti, ricordavo la vicenda giudiziaria dell’avvocato Minghelli e delle attività criminali poste in essere dalla Banda dei Marsigliesi, gli ultimi episodi indicati dal Generale che gli avevano fatto affermare che le azioni criminali attribuite alla Destra Eversiva, e verificatesi nella sua giurisdizione, trovavano supporto o sostegno in Ambienti Politici e non lontani dall’Ambiente della Massoneria.
L’avvocato Minghelli, figlio di un Generale della Polizia ed iscritto con il padre alla Loggia P2, era stato tratto in arresto insieme ad altri, tra i quali il suo cliente Albert Bergamelli, boss della banda dei “marsigliesi”, personaggio che al momento dell’arresto dichiarò di essere nazista.
L’indagine, diretta dal PM Vittorio Occorsio, riguardava alcuni sequestri di persona avvenuti in Roma e messi a segno dai “marsigliesi”. Noto quello del gioielliere Bulgari, marzo 1975, che aveva la sua esposizione principale in via Condotti, nello stesso stabile dove era presente la sede di copertura della loggia P2.
Il magistrato, nella sua inchiesta, ipotizzava che il clan dei sequestri fosse coinvolto in attività eversive, come già emerso in altre inchieste in Francia. Nell’indagine, il Minghelli era accusato di riciclaggio ed assistito dall’avvocato Arcangeli, già difensore del Saccucci (golpe Borghese), era subito prosciolto.
Il Sost. Proc. Occorsio, il 10 Luglio 1976, era assassinato da Concutelli ed il suo omicidio rivendicato da Ordine Nuovo. L’inchiesta dell’omicidio del magistrato sarà di competenza della Procura di Firenze e condotta dal dr. Vigna.
L’analisi del quadro investigativo al quale facevano riferimento ed ulteriore integrazione:
·    altri episodi che mi avevano condotto in parte ad avere conoscenza di quegli eventi e di alcuni di quei protagonisti del mio ambiente istituzionale – professionale che, con la doverosa eccezione per qualcuno, non si distinguevano per capacità operative o brillante ideazione e non erano dei simulatori;
·    il constatare che la frantumazione della Massoneria era solo un fatto formale in quanto le Obbedienze e le varie Logge spurie mantenevano tutte ottimi rapporti fra di loro con l’asserita volontà di raggiungere una riunificazione;

mi indirizzava a ritenere obbligatoriamente operante un Livello Superiore.
Apparato che, per meglio tutelare la propria identità ed il suo fine strategico, “Destabilizzare per Stabilizzare”, utilizzava sapientemente le tante pedine poste su scacchiere diverse ed utilizzando la Criminalità Organizzata a seconda delle zone di competenza e d’influenza.
Criminalità Organizzata che, più avveduta e pratica, preferiva perseguire il vantaggio degli Appalti Pubblici che altri romantici progetti di Golpe, anche perché poi era lo stesso Livello Superiore che li faceva abortire utilizzando allo scopo altri agenti ed assumendo anche il merito della “difesa” delle Istituzioni.
Michele Riccio



BOX1
Barreca conferma Ilardo

Servizi segreti deviati e collusione mafia-politica sono i principali protagonisti delle dichiarazioni rese lo scorso 21 febbraio dal pentito calabrese Filippo Barreca. Chiamato a testimoniare al processo “Quattrone Francesco + 14”, scaturito dall’inchiesta sulla Tangentopoli che vede imputati rappresentanti del mondo politico e imprenditoriale reggino, Barreca ha risposto in videoconferenza alle domande del pm Francesco Mollace. Davanti al giudice Giuliana Campagna, a latere Melidona e Grieco, ha ripercorso le tappe della sua “carriera” negli ambienti della ‘Ndrangheta, il ruolo rivestito nella vicenda Freda e i rapporti con i politici. <>, ha affermato, aggiungendo di avere raccolto consensi elettorali per Battaglia, Quattrone, Araniti e Licando e di essersi interessato personalmente, alla fine degli anni Settanta, per la costruzione delle ville al mare dell’avvocato Palamara e dell’onorevole Ligato. L’uccisione del quale, in quel periodo in cui imperversava la guerra di mafia, doveva servire <>, a <>. Interrogato sul suo grado di affidabilità all’interno degli ambienti della ‘Ndrangheta il collaboratore ha ricordato che <>. L’avv. De Stefano, continua riportando le parole pronunciate dal boss Santo Araniti, oltre ad essere la mente pensante del gruppo De Stefano, era un personaggio <>; <> e . Alla domanda di Mollace se anch’egli avesse avuto rapporti, in quel di Roma, con ambienti più o meno vicini a tali organismi Barreca risponde: . In riferimento ai contatti avuti a Roma con Santo Araniti ha riferito che la villa della dottoressa Gloria Capuano, all’interno della quale si era incontrato con il boss, era frequentata da personaggi del mondo politico romano tra cui l’on Dc Sbardella. In contatto con il boss erano anche, a dire del pentito, l’avv. Paolo Romeo <> e altri grossi imprenditori come Guarnaccia e Nocera che in seguito alla morte del Ligato voltarono la faccia ai De Stefano e intrapresero rapporti commerciali con l’Araniti. A muovere gli interessi della ‘Ndrangheta erano soprattutto i soldi dei grandi appalti. <>.
Nella parte finale dell’esame Barreca ha ricordato che Libri e Latella presero tangenti per i lavori della superstrada e del doppio binario fino a San Gregorio-Ravagnese e che una parte dei soldi la intascò lui mentre l’altra il clan Iamonte.
Gli imputati al processo sono Pietro Battaglia, Domenico e Pietro Cozzupoli, Giovanni e Pietro Guarnaccia, Sebastiano Nocera, Domenico Libri, Rosetta Libri, Franco Quattrone, Giovanni Palamara, Vittorio Procopio, Antonino Foti, Pietro Siclari. Una notizia di agenzia dell’ultima ora informa che è stato ucciso a Reggio Calabria il pregiudicato Vincenzo Barreca, fratello del pentito. Sembra essere esclusa la vendetta trasversale. M.C.


BOX2
Generali eccellenti
I nemici di Dalla Chiesa


di Riccardo Orioles*

«Mi presento spontaneamente per rendere dichiarazioni che ritengo possano avere rilievo nelle indagini...». E' il 25 aprile 1981, all'ufficio istruzione del Tribunale di Milano. Sono presenti i giudici Turone, Colombo e Viola e un testimone, l'ufficiale dei carabinieri Nicolò Bozzo.
«Sono tenente colonnello in s.p.e. dell'Arma dei carabinieri e presto servizio quale capo sezione criminalità presso lo Stato Maggiore della Divisione-CC "Pastrengo" di Milano. Ho appreso dalla stampa che l'ufficio si occupa, nell'ambito dell'inchiesta relativa alla scomparsa di Michele Sindona, anche della persona di Licio Gelli e della loggia P2». L'ufficiale racconta quello che ha appreso, in anni di permanenza nei punti nevralgici dell'Arma, sui gruppi di potere dentro e fuori le gerarchie militari.
«Nel 1972 prestavo servizio presso il comando di divisione di Milano, all'epoca comandata dal gen. Giovambattista Palumbo. Sin dai primi giorni avvertii la presenza di un vero e proprio gruppo di potere al di fuori della gerarchia. Questo gruppo di potere era personalizzato da due maggiori, Calabrese e Guerrera. Di questo gruppo di potere, che aveva una matrice comune nella provenienza per servizio dalla Toscana, faceva parte anche il Comandante della Divisione».
Nel 1975, sostituito il generale Palumbo con il gen. Palombi, il peso del "gruppo di potere" diminuisce momentaneamente; nel '77, però, ministro della difesa l'on. Lattanzio, «si scatenò una vera persecuzione nei confronti degli ufficiali che collaboravano più strettamente con Palombi, uno dei quali fu addirittura trasferito su due piedi in Sardegna»; lo stesso Palombi si salva a stento dall'epurazione, e il "gruppo di potere" riprende piede. Negli anni successivi, secondo la ricostruzione di Bozzo, altri uomini si aggregano al gruppo - le cui "comuni origini toscane" consistono, in effetti, nei contatti avuti in tempi diversi con Gelli - e ne rafforzano il potere sul Comando milanese dell'Arma: il tenente colonnello Panella, il nuovo comandante della Legione Mazzei ed altri.
Intanto, la società italiana attraversa i suoi anni di piombo. C'è un episodio minore, ma significativo dei guasti provocati già allora dall'infiltrazione degli uomini di Gelli nell'Arma: un ufficiale investigativo, il capitano Bonaventura, viene convocato da Mazzei e interrogato «sull'opportunità di mantenere rapporti di amicizia» con un tale professor Del Giudice, sospetto di terrorismo. Bonaventura risponde che i sospetti sono fondati: Del Giudice, ritenuto capo di Prima Linea, è indiziato di concorso in rapina. Mazzei, poco persuaso, congeda il capitano. Dopo l'omicidio Alessandrini, la Procura di Milano mette sotto controllo il telefono di Del Giudice e di altri: il 26 giugno 1979 viene registrata una telefonata di Mazzei, nella quale l'ufficiale rivela particolari di un'operazione in corso da parte dell'Arma contro un'organizzazione eversiva clandestina. Per iniziativa del generale Dalla Chiesa, Mazzei viene sottoposto a una inchiesta disciplinare; prima che essa si concluda, Mazzei si dimette dall'Arma e viene immediatamente - «per imposizione di alti esponenti della massoneria toscana» - assunto, come dirigente dei servizi di vigilanza, dal Banco Ambrosiano di Calvi. Questo era il clima.
A fine '79, Dalla Chiesa viene nominato comandante della Divisione Pastrengo di Milano. Bozzo immediatamente si rivolge al nuovo superiore; gli espone la situazione; gli fa presente che ritiene necessario, a questo punto, rivolgersi direttamente alla magistratura; Dalla Chiesa lo autorizza, e gli dice comunque di «approfondire gli accertamenti», cosa che Bozzo, con la collaborazione di un altro ufficiale fedele, il capitano Riccio, si affretta a fare. Ma il "gruppo di potere" all'interno dell'Arma è ancora molto forte.
«In occasione dell 'arresto di Del Giudice, il colonnello Vitale mi disse che la massoneria tentava ancora una volta di fare quadrato, sottolineando la sua potenza, tenuto conto che di essi facevano sicuramente parte personaggi come Picchiotti, Palumbo, Siracusano ed altri...». La presenza di gruppi massonici, nell'esercito italiano, non è una novità; ma: «Intendo precisare - specifica Bozzo - che quando si parla di massoneria fra ufficiali dell'Arma si fa riferimento ad una massoneria occulta».
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Il 14 maggio 1981, il tenente colonnello Bozzo viene nuovamente interrogato da Colombo e Turone. E fa degli altri nomi. «Di quel "gruppo" facevano parte, oltre ai già citati maggiori Guerrera e Calabrese, anche il colonnello Bozzi Nicola, ora in congedo e dirigente, in Milano, di un'organizzazione privata di vigilanza bancaria, i capitani Napolitano e Spinelli, il colonnello Favali ora in congedo e dirigente il servizio di sicurezza della Banca d'America e d'Italia (dall'Arma alle Banche, con determinate protezioni, il passo è breve, n.d.r.), il tenente colonnello Santoro, e il colonnello Musumeci Pietro...». Musumeci, in particolare, pur dipendendo da un comando romano passava la maggior parte del suo tempo a Milano, nell'ufficio del generale Palumbo col quale, gerarchicamente, non avrebbe avuto nulla a che fare.
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Del catanese Musumeci, poi diventato generale e dirigente del Sismi, abbiamo avuto altre volte occasione di ricordare la strana carriera, conclusasi con l'installazione, per conto della P2 e insieme a personaggi come Pazienza, di una rete eversiva ai vertici dei servizi segreti italiani. Ma per il momento, più che diffondersi sulla sua persona in particolare, giova riassumere i tratti generali della situazione che possono aver qualche relazione con le nostre storie "siciliane".
1) Un gruppo di potere massonico, o meglio gelliano, o meglio piduista, è costituito presso un ganglio fondamentale dell'Arma fin dal 1972;
2) Al centro di questo gruppo compaiono alti ufficiali siciliani, o successivamente operanti in Sicilia, come Musumeci e Siracusano;
3) Questo gruppo viene in aperto contrasto, già a Milano e almeno dal giugno 1979, col generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale tenta per quanto può di opporsi ad esso;
4) Tale contrasto è peraltro parallelo con quello che opponeva Dalla Chiesa al generale Cappuzzo, esponente fra l'altro - in Sicilia - dei "Cavalieri del S. Sepolcro" del costruttore palermitano Cassina, fra i quali si annovera anche il colonnello catanese Licata;
5) Non vi è motivo di ritenere che l'uno o l'altro contrasto siano cessati con la destinazione di Dalla Chiesa in Sicilia;
6) Bozzo non conta balle: la presenza della P2 nei vertici della polizia e dei carabinieri era davvero decisiva, e lo era particolarmente negli anni "di piombo" su cui egli testimonia. Per esempio, la Relazione Anselmi rende ufficialmente noto che ai tempi dell'affaire Moro (durante il quale, com'è noto, un'attiva opera di depistaggio è stata svolta da Musumeci), le indagini delle forze dell'ordine venivano dirette da un Comitato di coordinamento composto in massima parte di piduisti. «Risultano infatti presenti i seguenti affiliati alla loggia P2: i generali Giudice, Torrisi, Santovito, Grassini, Lo Prete, nonché, ad una di esse, il colonnello Siracusano».
Dalla Chiesa e il gruppo di potere piduista erano nemici. Dalla Chiesa e la mafia erano nemici. La mafia e la P2 avevano un nemico in comune.

* Tratto da I Siciliani, marzo 1985


BOX3
Legge di Lavoisier

(fondatore della chimica moderna)
In ogni reazione chimica, il peso delle sostanze che reagiscono, è uguale al peso delle sostanze che si formano.


BOX4
Ilardo offrì la testa di Provenzano su un piatto d’argento

Anche il secondo troncone del processo denominato «Grande Oriente» è giunto alla sua conclusione. Accolte nella quasi totalità le richieste del pubblico ministero Antonino Di Matteo, che in dieci lunghe ore di requisitoria aveva illustrato il ruolo dei fiancheggiatori del boss superlatitante Bernardo Provenzano. Dieci anni di reclusione per Simone Castello, imprenditore, indicato come il «postino» del capo, vicino a Piddu Madonia e incaricato di investire capitali, ovviamente illeciti, nei paesi dell’Est, in particolare in Romania; stessa pena per Nicola Greco, Vincenzo Giammanco e Carlo Guttadauro, tutti di Bagheria. L’ultimo, poi, vanta un legame di parentela con Matteo Messina Denaro, il giovane e pericolosissimo boss di Trapani, a cui avrebbe favorito la latitanza e messo a disposizione i dipendenti della sua ditta, la Sud Pesca.
Cinque anni per il boss Carlo Greco che vanno ad assommarsi con una precedente condanna a 12 anni, così come gli 8 comminati a Provenzano sono in continuazione di una pena precedente.
Un dato interessante quello della comune provenienza da Bagheria, paese dell’hinterland palermitano, considerato dal pm «il principale centro degli interessi economici del capomafia. Lì il gruppo dei fedelissimi del boss, attraverso il condizionamento mafioso degli appalti  e il riciclaggio, ha reso la Primula Rossa di Corleone il capo assoluto di Cosa Nostra.»
Il processo è stato costruito sulla base delle dichiarazioni che il confidente Luigi Ilardo fece al colonnello Riccio consentendo non solo di pervenire all’arresto di numerosi latitanti, ma anche di arrivare ad un soffio dalla cattura di Provenzano. Il 31 ottobre 1995, infatti, Ilardo si trovava a colloquio con il grande capo latitante, e benché i carabinieri ne fossero al corrente, non intervennero. «Ilardo - prosegue il pm- offrì, senza successo, la testa di Provenzano allo Stato».
In quasi due anni di confidenze, il reggente del mandamento di Caltanissetta fornì agli inquirenti elementi preziosissimi per conoscere dall’interno come Cosa Nostra si stesse riorganizzando dopo l’arresto di Riina e soprattutto fornì copie della sua fitta corrispondenza con Provenzano dalla quale è stato possibile trarre informazioni inedite sulla strategia del superlatitante. Tra i vari consigli su come mantenere l’ordine, anche «perle di saggezza», indicative della «mente raffinata» di questo imprendibile corleonese: «Sfrutta l’esperienza delle sofferenze sofferte, non screditare tutto quello che ti dicono e nemmeno credi a tutto quello che ti dicono, cerca sempre la verità prima di parlare» e ancora «Ricordati che non basta mai avere una sola prova per affrontare un ragionamento, per essere certo di un ragionamento occorrono tre prove e correttezza e coerenza».
Purtroppo Ilardo venne ucciso a Catania nel 1996, proprio qualche giorno prima di rendere ufficiale la sua collaborazione con lo Stato. «Una collaborazione - secondo Di Matteo - che avrebbe potuto avere effetti dirompenti non solo in Cosa Nostra».  A.P.


ANTIMAFIADuemila N°20

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