Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.
Undicesima parte
a cura di Anna Petrozzi
Nel suo libro di recente pubblicazione Mutazioni, Alessandra Dino, sociologa, analizza l’etnografia del mondo di Cosa Nostra e affronta, tra i tanti aspetti che caratterizzano l’organizzazione criminale siciliana, la questione della “trattativa”. Per sua gentile concessione abbiamo selezionato i passaggi che abbiamo ritenuto essenziali per ripercorrere le tappe che hanno portato gli inquirenti a ritenere che “la trattativa” sia tuttora in corso e che stia producendo i suoi effetti proprio in questo momento storico così complesso e carico di tensione. Una diversa prospettiva convergente con quanto presentato finora.
Uno scenario di studio che ipotizza l’esistenza di una trattativa tra Stato e Cosa Nostra, avviata nel nostro Paese a cavallo degli anni Novanta e ancora, attualmente, in corso, con l’obiettivo di negoziare un nuovo assetto nei rapporti tra organizzazione mafiosa, mondo della politica e mondo delle istituzioni, appare suggestivo quanto - a prim’acchito - piuttosto azzardato.
Tuttavia, le ragioni che ci spingono a dedicare una certa attenzione all’argomento, [...] si richiamano [...] alla necessità di analizzare il valore fortemente simbolico-rappresentativo che l’eventuale apertura di una cosÏ peculiare forma di dialogo tra i due interlocutori, da pari a pari, potrebbe oggi esprimere, sia sul piano delle sue concrete implicazioni politico-istituzionali, sia più in generale su quello dei futuri assetti del sistema di potere mafioso nel nostro Paese e nella rete di rapporti internazionali. [...] Sulla base della documentazione di cui è possibile disporre, le più recenti vicende della cosiddetta “trattativa” [...] maturano e si sviluppano in concomitanza con l’avvio della strategia stragista decisa dai vertici di Cosa Nostra, che avrebbe trovato il suo momento di raccordo operativo nel corso di una riunione svoltasi verso la metà di febbraio del 1992 a Palermo; in quella sede, i capi mandamento e i capi-provincia colà convenuti, avrebbero approvato un progetto ‘aperto’ di attacco militare a obiettivi ritenuti - a diverso titolo - di elevato valore simbolico-rappresentativo, che sarebbe stato loro presentato da Salvatore Riina, nell’intento di perseguire un disegno politico, volto a riequilibrare i rapporti con lo Stato, attraverso l’individuazione di nuovi referenti nel mondo della politica e dell’economia. (Caltanissetta, sentenza d’appello strage di Capaci)
PROGETTO POLITICO
Secondo la ricostruzione operata dai numerosi collaboratori di giustizia [...], il progetto prevedeva – tra i punti principali e prioritari – l’eliminazione fisica di magistrati (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), inquirenti (Arnaldo La Barbera) e uomini politici (Claudio Martelli, Calogero Mannino, Carlo Vizzini), uomini del mondo dello spettacolo e dell’informazione (Maurizio Costanzo, Andrea Barbato, Michele Santoro, Pippo Baudo).
In quella riunione e negli incontri ad essa successivi, era stato stabilito che il primo obiettivo dell’offensiva militare restava - comunque - l’eliminazione di Giovanni Falcone, sia a causa degli effetti devastanti provocati in seno a Cosa Nostra dalle condanne definitive del maxiprocesso che egli aveva fortemente sostenuto, sia, soprattutto, per impedire che il magistrato ottenesse la nomina di Procuratore Nazionale Antimafia.
[...] In sede processuale anche il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi ha precisato che la strategia omicida pianificata dai vertici corleonesi non aveva solo obiettivi pratici e immediati ma era segnata da un preciso disegno politico, che mirava - secondo quanto asserito dal Riina - a liquidare i vecchi referenti politici per sostituirli con altri:
“[...] Le stragi e tutto quello che... che è successo. Voleva (Riina ndr.) fare sfiduciare quelli che comandavano allora”.
[...] Sempre il Cancemi ha precisato che era stato Riina in persona - in quel momento dotato di una posizione di indiscussa autorità e comando in seno agli organismi di vertice dell’organizzazione - a comunicare ai suoi sodali che il sostegno continuativo e nel tempo assicurato a questi nuovi referenti politici, sarebbe stato pienamente ripagato nell’immediato e prossimo futuro:
“Riina diceva che noi li dovevamo sostenere di più nel futuro, diceva che li dovevamo curare nel futuro, appunto perché lui già aveva programmato, diciamo, queste cose. Lui almeno questo quello che diceva, che: ‘Sti persone per Cosa Nostra sono un bene nel futuro e dobbiamo avere un po’ di pazienza di coltivarli’. Quindi credo che lui sapeva più di me”. (Udienza processo di Capaci, Appello, 22 ottobre 1999).
[...] Scrivono [...] i giudici della Corte d’Appello di Caltanissetta: <<Il progetto politico perseguito dai vertici di Cosa Nostra, per come riferito da Filippo Malvagna, risulta efficacemente espresso da Riina, secondo il quale bisognava “prima fare la guerra per poi fare la pace” con lo Stato. Tale prospettiva politica è stata convalidata anche da Maurizio Avola, che, nel periodo successivo alla strage di Capaci, aveva appreso che lo scontro con lo Stato era finalizzato alla sua destabilizzazione ed alla sostituzione delle precedenti alleanze politiche con altre.
[...] Nella medesima ottica, vanno quindi apprezzate le dichiarazioni rese da Brusca e Siino sul progetto imprenditoriale perseguito da Riina per creare nuovi legami con gli esponenti della politica, e quelle che, saldandosi con quanto riferito da Cancemi, riguardano le trattative che di pari passo venivano coltivate con vari referenti istituzionali e non. In altri termini l’escalation di violenza che contrassegnò la stagione delle stragi era finalizzata ad indurre alla trattativa lo Stato, ovvero a consentire un ricambio sul piano politico che, attraverso nuovi rapporti, potesse assicurare come per il passato le necessarie complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato>>.
IL PAPELLO
Ma quali erano queste trattative coltivate con vari referenti istituzionali? [...] Se da un lato la stagione terroristica orchestrata da Cosa Nostra era finalizzata a ottenere un più generale ricambio di alleanze politiche, parallelamente alla costruzione e al consolidamento di nuovi rapporti con il mondo dell’economia e della finanza, dall’altro avrebbe avuto anche l’obiettivo di indurre le massime istituzioni della Repubblica a formalizzare una trattativa da cui potessero derivare rilevanti benefici per gli uomini di Cosa Nostra; una trattativa che sarebbe già stata segretamente avviata da alcuni apparati dello Stato, fin dal periodo successivo alle stragi del maggio e del luglio 1992, sulla base di una lista di richieste proveniente dai vertici mafiosi, che avrebbe dovuto portare ad un allentamento dei regimi carcerari di rigore e ad una sostanziale rinegoziazione dei rapporti di forza tra le istituzioni e l’organizzazione criminale.
Su un piano speculare rispetto a quello su cui si sarebbero mossi i contatti politici di cui parla Cancemi, Giovanni Brusca racconta di aver appreso che Riina, già subito dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, aveva intrapreso una trattativa con alcuni interlocutori istituzionali, a cui aveva sottoposto un papello, un elenco di richieste di benefici e di agevolazioni, in cambio delle quali Cosa Nostra avrebbe potuto bloccare la strategia terroristica: la revisione del maxiprocesso, l’estensione dei benefici della legge Gozzini ai condannati per mafia, l’abrogazione dell’ergastolo, la possibilità di ottenere arresti ospedalieri anche in caso di condanna per 416 bis, la riapertura e la revisione di altri importanti processi di mafia.
La mediazione, tuttavia, secondo la ricostruzione di Brusca, aveva subito un momento di arresto e Riina avrebbe espresso la convinzione che fosse utile dare un altro “colpetto” per indurre gli interlocutori a riprendere il dialogo interrotto.
E’ singolare il fatto che in quei giorni, neanche autorevoli esponenti di Cosa Nostra abbiano capito e condiviso appieno e fino in fondo il senso di questa strategia omicida, che apparentemente avrebbe finito solo per inasprire lo scontro con lo Stato; nonostante le loro perplessità, però, Riina avrebbero potuto confidare su autorevoli appoggi.
Continua Cancemi:
“Riina aveva una certa premura una certa urgenza per fare questa strage di... di Borsellino. Ha spiegato che ‘sta cosa si deve fare subito...’ Anzi, mi ricordo un particolare, che Ganci era appartato un pochettino con... sempre in quel salone dove eravamo messi con Riina e io ho sentito dir...ci ho sentito dire: ‘Faluzzo - Raffaele Ganci - ‘a responsabilità è mia, stai tranquillo che tutto va bene’.
[...] ... tutto andava bene, lui era tranquillo, che aveva queste persone e quindi lavorava sicuro, diciamo, quello che portava avanti”.
Se vogliamo prestar credito alle ricostruzioni - per la verità tutte concordanti - dei collaboratori Cancemi, Siino, Brusca e Malavagna, l’analisi e la dinamica di queste vicende, collegate con gli attentati eseguiti nel 1993 a Roma, Milano e Firenze, e con quelli programmati per il 1994, consente di cogliere in tutta la sua complessità e pericolosità i contorni di quello che è stato tratteggiato dai magistrati inquirenti come un vero e proprio disegno politico-eversivo.
[...]La sequenza cronologica dei più gravi attentati realizzati e programmati dai vertici di Cosa Nostra in quel breve torno di tempo è [...] impressionante. Il 12 marzo 1992, a poche settimane dalle consultazioni politiche, viene assassinato l’onorevole Salvo Lima, pilastro della corrente andreottiana in Sicilia; il 23 maggio, mentre sono in corso le operazioni di voto per l’elezione del capo dello Stato, viene consumata la strage di Capaci; poco più di un mese dopo, il 19 luglio, esplode il tritolo in via D’Amelio a Palermo; a Catania, il 27 luglio, viene assassinato l’ispettore di Ps Giovanni Lizzio; il 17 settembre viene ucciso Ignazio Salvo; il 14 maggio del 1993 il giornalista Maurizio Costanzo sfugge all’attentato di Via Fauro a Roma; tredici giorni dopo, il 27 maggio, attentato in via dei Georgofili, a Firenze; a due mesi di distanza, il 27 luglio, tornano le bombe a Milano, in via Palestro; il giorno dopo, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, esplodono due ordigni in via del Velabro e a Piazza San Giovanni, a Roma, mentre – contestualmente – Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio, rimane telefonicamente isolato per ben due ore e mezzo, dalle 0.22 alle 3.02.
RISPOSTE
[...] La vicenda della trattativa e la complessa e articolata ricostruzione dei drammatici eventi che l’hanno accompagnata all’inizio degli anni Novanta, sarebbe – probabilmente – rimasta relegata entro i limiti delle ipotesi e degli scenari di lavoro, se non fosse avvenuto che di essa – o, quantomeno, dei suoi potenziali contenuti – non fossero tornati a interessarsi i mass media nel giugno del 2000; l’occasione è stata fornita da una breve intervista rilasciata dall’avvocato Carlo Taormina al quotidiano “Il Giornale”, nella quale il noto penalista ha lanciato l’ipotesi di <<un ammorbidimento del carcere duro per quei mafiosi che si dissociano da Cosa Nostra>>, non escludendo neanche l’ipotesi di un’amnistia che – peraltro – è stata presentata come una soluzione al problema del “sovraffollamento delle carceri”, anche in funzione del “recupero” di tutti i detenuti, compresi quelli per reati di mafia.
[...] Le dichiarazioni dell’avvocato Taormina facevano esplodere il caso su tutti i giornali; in poche ore si diffondevano le prime indiscrezioni su un’ipotesi di trattativa in corso tra uomini delle istituzioni e uomini d’onore detenuti nelle carceri di massima sicurezza. [...] L’esistenza di una trattativa tra esponenti di Cosa Nostra e istituzioni dello Stato veniva, tuttavia, prontamente e autorevolmente smentita. Ma a distanza di pochi mesi, nel febbraio del 2001, era il quotidiano “la Repubblica” a tornarne a parlare, collegandola a un progetto per favorire la dissociazione di alcuni prestigiosi uomini d’onore. [...] Un’ammissione personale di responsabilità, “ma senza consumare altri cristiani”, una sorta di abiura – una dissociazione appunto – dal legame mafioso, a fronte della prospettiva di poter godere di trattamenti carcerari meno restrittivi e delle agevolazioni previste dalla “legge Gozzini”.
Fin qui la cronaca degli ultimi mesi; in essa, alcuni commentatori scorgono il segno evidente dell’esistenza della trattativa, che avrebbe prodotto singolari aperture istituzionali alle aspettative degli uomini d’onore di Cosa Nostra: proprio in riferimento alle richieste che sarebbero contenute nel papello di Riina, il magistrato Alfonso Sabella ha espresso una durissima opinione:
“Quelle richieste dei mafiosi sono state quasi tutte accolte... penso alla riforma della legge sui pentiti, penso all’aumento delle garanzie processuali per i boss, penso alla chiusura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara ... L’unica cosa che non riusciranno mai ad ottenere è la revisione del maxiprocesso, ecco perché credo che possano cercare soluzioni individuali mascherate da dissociazione”.
Ma anche su questo versante, quelle di Sabella sembrano destinate a restare delle speranze più che delle certezze [...].
La Commissione Giustizia della Camera ha approvato - unificandone il testo - due proposte di legge per una più semplice revisione dei processi già passati in giudicato, che abbiano contravvenuto ai principi che regolano il diritto del cosiddetto “giusto processo”.
Spiega il procuratore della Repubblica di Palermo, Piero Grasso:
“Se questa legge passasse, andrebbero a revisione processi come quelli sulle stragi Falcone e Borsellino o, addirittura, il maxiprocesso alle cosche mafiose [...] Mi riferivo a una nuova legge voluta da un fronte trasversale di parlamentari: da Forza Italia a Rifondazione Comunista. Un vasto consenso che lascia pensare come l’iter della legge possa concludersi in modo favorevole. Occorre che qualcuno faccia comprendere che così possono andare a revisione importanti processi di mafia già chiusi. Si tratta certamente di una legge per altre civiltà giuridiche, ma ogni legge deve rendere conto delle realtà criminali che intende contrastare. Bisogna che qualcuno controlli se queste proposte aiutino più a contrastare la mafia o più a danneggiare la lotta alla criminalità organizzata”.
[...] L’ipotesi di una “terza via” – né collaborazione, né scontro frontale – viene vista come la soluzione ideale da proporre nella nuova fase di trattative con lo Stato [...]. Quella della dissociazione – né con lo Stato né contro la mafia – è, insomma, una vecchia idea, mutuata dalla legislazione antiterrorismo introdotta negli anni Settanta; solo che però, a differenza della natura spiccatamente ideologica dell’adesione alla lotta armata, l’adesione a Cosa Nostra comporta [...] la condivisione di un reticolo di relazioni, interessi, legami e condizionamenti materiali e culturali, così profondamente radicati da non poter certo essere rimossi con un semplice “chiamarsi fuori”.
PROMEMORIA
[...] Tra il 17 e il 18 aprile 2002 i giornali pubblicano interessanti stralci di una lettera che in data 28 marzo sarebbe stata indirizzata da Pietro Aglieri al procuratore generale Antimafia Vigna e al procuratore della Repubblica di Palermo Grasso. [...] Aglieri prende direttamente la parola per dare la versione autentica del proprio pensiero, di fronte a quelle che vengono considerate notizie fuorvianti; l’argomento di cui si discute è, ovviamente, quello della cosiddetta trattativa, troppo delicato, troppo importante per il futuro dell’organizzazione perchè si possa lasciare che i giornali ne stravolgano condizioni e contenuti. [...] Il messaggio di Aglieri è piuttosto chiaro; una trattativa con lo Stato non passa né attraverso la dissociazione, né attraverso la collaborazione. [...] E, spiega Aglieri, non sono percorribili per varie ragioni; in primo luogo perchè considerate poco onorevoli: <<[...] solo riuscendo a comprendere con pragmatica concretezza i motivi di certi comportamenti si potranno trovare soluzioni risolutive>>.
Rifiutate – quindi – le soluzioni individuali, Cosa Nostra chiede allo Stato di considerare pragmaticamente la situazione, prendendo atto del superamento della fase emergenziale, nell’interesse e per il bene della collettività; spiegando che è forse ora di trovare <<soluzioni ragionevoli>> utilizzando tutto il potere che gli uomini d’onore detenuti continuano ad esercitare, al fine di garantire una “pace” duratura: [...] <<Soltanto se si prendesse in seria considerazione la possibilità di un ampio confronto fra detenuti, si potrà trovare qualche sbocco [...]>>. Aglieri sottolinea più volte l’interesse dei cittadini e del Paese a questo processo di “pacificazione” [...]. [...] L’aver voluto definire con tanta chiarezza i termini di un negoziato con lo Stato può essere interpretato come un segnale di debolezza di Cosa Nostra o è, piuttosto, il segno di una forza e di un’autorità che [...] continua ad essere esercitata dall’organizzazione?
CONVERSIONE?
[...] Giunge un’ultima notizia che interessa quella che qualcuno ha definito la strada della “revisione morale” di Cosa Nostra. [...] Il 15 aprile 2002, da fonte giornalistica si apprende dell’esistenza di una fitta corrispondenza intrattenuta da un frate francescano – fra’ Celestino – con alcuni capi di Cosa Nostra detenuti; fra questi, Pietro Aglieri, Salvatore Riina ed il figlio Giovanni. Sempre dal giornale apprendiamo che il frate avrebbe cercato – senza riuscirvi – di incontrare il latitante Provenzano, per tentare anche con lui la carta dell’evangelizzazione e della conversione. [...] Nella sua intervista [...] fra’ Celestino tiene a precisare di fare ogni sforzo per separare il binario della fede dai percorsi della giustizia; tentativo piuttosto complicato se poi nelle missive i detenuti fanno esplicito riferimento alla loro condizione carceraria e al desiderio di trovare rimedio allo stato di detenzione a vita da cui sono stati colpiti: <<Parlo con Pietro [...] – risponde fra’ Celestino all’intervistatore – [...] L’ho sentito addolorato per qualche incomprensione... Sapete com’è, la loro logica è particolare... Credo sarebbe un bene, se si potesse far circolare i discorsi che fanno breccia nel carcere. Ovviamente a me non interessa l’aspetto giudiziario, quelli sono fatti suoi, la dissociazione, i benefici di legge. A me interessa l’anima, se c’è la reale possibilita di conversione [...]. Ritengo utile diffondere l’idea dell’istituzione di un carcere-monastero per quanti sentano la necessità di pagare il loro debito con le proprie coscienze. Potrebbe essere l’occasione per dare alla parola “pentimento” il significato originario>>.
L’idea del carcere-monastero: potrebbe essere anche questa una delle proposte da inserire nella trattativa? E, più in generale, potrebbe essere “la leva religiosa” a fornire quella garanzia di rinnovata affidabilità di cui oggi gli uomini d’onore detenuti e condannati all’ergastolo hanno bisogno, per scongiurare l’ipotesi di una detenzione a vita?
IL PARADOSSO
DELLA NORMALITA’
[...] Il quadro che si profila è piuttosto complicato. Ma il tentativo dell’organizzazione mafiosa sembra restare sempre lo stesso: quello di chiedere un ritorno alla normalità e di recuperare la libertà facendo passare per “normali” atti e comportamenti che si ispirano ad una logica di dominio violento e sono il frutto di un’applicazione quantomeno distorta delle regole della convivenza democratica.
[...] Parallelamente al diffondersi delle voci e dei segnali sull’esistenza della presunta trattativa, anche sotto il profilo degli studi sociali e della riflessione critica sul fenomeno mafioso abbiamo assistito ad una crescente rimozione della problematicità delle sue implicazioni.
Attraverso un reiterato processo di appiattimento temporale degli eventi degli ultimi cinquant’anni e delle loro continue evoluzioni (situazioni di crisi, mutamenti di strategie e di alleanze), commenti e analisi - talvolta autorevoli e in piena buona fede - sembrano proporre versioni destoricizzate di episodi e vicende collegate in qualche modo all’evoluzione del fenomeno mafioso, facendone perdere il senso dello sviluppo diacronico, smembrandone la concatenazione logico-causale e affogandone i principali nessi in un’unità temporale in cui vengono meno responsabilità e protagonisti.
Alla destoricizzazione degli eventi - e del ruolo degli attori sociali - si affianca spesso la loro decontestualizzazione e una più complessiva destrutturazione, che trasforma la storia di Cosa Nostra in una mera sommatoria aritmetica di singole vicende autoreferenziali, private di qualsivoglia nesso di connessione e concatenazione logica.
In questo scenario, anche il detenuto per reati di mafia non è più un detenuto diverso dagli altri, e i resti di mafia non differiscono da altri più comuni - seppure atroci - delitti.
La parcellizzazione dell’attenzione sulle vicende personali, sulle singole storie, fa perdere di vista la componente sistemica e relazionale dell’organizzazione, i suoi collegamenti, le sue interrelazioni.
Avulso dal contesto organizzativo in cui è maturato, anche il “reato mafioso” e la sua pericolosità vengono a ridimensionarsi.
[...] Torna – inaspettatamente – a fare capolino, quel paradosso della normalità che dall’interno dell’universo mafioso fuoriesce e contamina il mondo esterno, la cui pervasività si può cogliere solo prendendo atto che sul ritorno ad una vita normale, le aspettative di Cosa Nostra, della società civile, della politica e delle istituzioni sembrano, paradossalmente, convergere.
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“Carenze investigative non casuali”
Depositata la sentenza d’appello del Borsellino bis. Eclatanti le conclusioni del collegio giudicante presieduto da Francesco Caruso che, come ormai consueto, non hanno avuto nessuna eco sui mass media.
“I vuoti di conoscenza che tuttora permangono nella ricostruzione dell’intera operazione che portò alla strage di via d’Amelio possono essere imputati anche a carenze investigative non casuali. Dopo Falcone - proseguono i giudici - la morte di Borsellino fu accelerata per alcuni motivi ben precisi”.
Avrebbe avuto un ruolo decisivo in questo senso l’intervista rilasciata dal giudice a una troupe francese nella quale riferiva di un’indagine in corso sul boss Vittorio Mangano, Berlusconi e Dell’Utri: “Riina - dice la sentenza - aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. E’ questo il primo argomento che spiega la fretta, l’urgenza e l’apparente intempestività della strage. Agire, prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell’intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario”.
In sostanza vengono considerate attendibili le dichiarazioni del collaboratore Cancemi che aveva fatto da tramite tra Riina e Mangano; per quanto concerne invece la “trattativa”, i giudici credono a Brusca: “Borsellino era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e starsene zitto”.
Un movente complesso, quindi, anche se la vera rivelazione è contenuta negli ampi stralci della deposizione del vice questore Gioacchino Genchi che ha riferito, per la prima volta ad un dibattimento pubblico, delle indagini su mafia e servizi segreti condotte con il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, recentemente scomparso. Indagini che durarono ben poco, poiché furono bloccate.
“Una deposizione importante e inquietante”, dice la sentenza. “Carenze investigative non casuali” che possono aver “rappresentato un limite” e “condizionato l’intera investigazione sui grandi delitti del 1992 come è spesso capitato per i grandi delitti del Dopoguerra in Italia, quasi esista un limite insormontabile nella comprensione di questi fatti che nessun inquirente indipendente debba superare”. A.P.
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Riaperte le indagini sul covo di Riina
Il gip Vincenzina Massa del tribunale di Palermo ha rigettato, nelle scorse settimane, la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura circa le indagini sulla mancata perquisizione del “covo” di Riina.
Il giudice non ha ritenuto sufficienti le investigazioni sinora svolte e ha disposto che vengano sentiti il generale dei carabinieri Mori, oggi capo del Sisde, e il capitano “Ultimo” che guidò l’operazione di arresto di Riina.
All’indomani della cattura del boss, infatti, la casa dove trascorreva la latitanza è rimasta incustodita dalle forze dell’ordine per circa 18 giorni, dando così la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione cancellando qualsiasi prova e, soprattutto, facendo sparire presunti documenti scottanti.
Quando i militari dell’Arma decisero di perquisire la villa, la trovarono vuota: i mobili coperti di cellofan, le pareti tinteggiate di fresco. L’unico pezzetto di carta sfuggito: una letterina di Maria Concetta ad un’amica.
Già il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, sentito dai magistrati della DDA di Palermo Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi, aveva parlato loro della “pulizia” quando, interrogato circa il contenuto di un’agendina di Nino Gioè (boss di Altofonte suicidatosi in carcere nda.), intestata alla Camera dei Deputati, indicò in Giovanni Grizzafi, parente di Riina, “uno di quelli che ha partecipato alla ‘pulizia’ della villa di via Bernini’. Il collaboratore aveva poi dichiarato che il regista dell’operazione era stato Giuseppe Sansone, genero di Salvatore Cancemi.
Ora gli inquirenti hanno a disposizione altri sei mesi di tempo per svelare il “mistero del covo” il cui fascicolo è tuttora iscritto a carico di ignoti. A.P.
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Porte chiuse sul delitto Rostagno
Non ne ha voluto neanche sapere il generale Mori e ha sbattuto la porta in faccia al perito inviato dal pm Antonio Ingroia con l’incarico di prendere visione di alcune carte che conterebbero la soluzione dell’omicidio Rostagno.
Niente da fare, negli archivi del Sisde non si può guardare, ed in tutta probabilità anche l’omicidio del fondatore della comunità terapeutica Samam, avvenuto il 20 settembre 1988, rimarrà uno dei misteri d’Italia.
Al sostituto procuratore Ingroia tutta la nostra solidarietà.
ANTIMAFIADuemila N°28