Continuano le rivelazioni del confidente Luigi Ilardo
di Michele Riccio
Proseguiamo, dal numero precedente, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.
Pochi giorni or sono, nel recarmi come ogni mattina presso la solita edicola, già pronto ad affrontare il gestore - con il quale ci divide una sana, diversa fede calcistica - per rispondere adeguatamente all’ennesimo attacco su del Piero non più titolare della Nazionale, fatto molto grave per me, lo vedevo invece avvicinarsi silenzioso e con sguardo amichevole. Sulla difensiva, come sempre, facevo finta di non accorgermene e questi una volta accanto mi diceva: <<Colonnello, ma in Cassazione non c’era solo Carnevale ?>>.
I giornali, quel giorno, riportavano con grossi titoli ed ampi commenti la sentenza del giorno prima, il 31 Maggio, emessa in Roma dalla Suprema Corte di Cassazione che aveva annullato la condanna ai capi mafiosi Giuseppe Farinella, Piddu Madonia, Antonino Giuffrè, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Pippo Calò, Antonino Geraci, Matteo Motisi, Giuseppe e Salvatore Montalto, perché detenuti al tempo dell’attentato al giudice Falcone, e stabilito di celebrare un nuovo processo presso la Corte d’Assise di Catania.
Sentenza che si era spinta più in avanti di quella dell’anno prima per la morte di Salvo Lima, estendendo la non responsabilità anche per quei capi mafiosi latitanti al momento del fatto, come Pietro Aglieri e Carlo Greco anche loro, secondo la Suprema Corte, non avevano potuto partecipare alla decisione di effettuare la strage di Capaci.
Velocemente, con stupore, amarezza e sconcerto ho letto: …distrutto il "Teorema Buscetta" e bocciato il "Metodo Falcone", sentenza che va contro la convinzione di Falcone secondo la quale è sempre stata la commissione di Cosa Nostra a deliberare i cosiddetti omicidi eccellenti. La morte di Falcone è stata decisa da una sola parte. Sentenza clamorosa visto il calibro dei personaggi mafiosi a cui sono state annullate le condanne. Le Procure faranno meglio ad attrezzarsi, "la Cupola" non regge più. Massimo rispetto per gli alti giudici, ma è una sentenza che fa piacere ai capi di Cosa Nostra.
Sentenza che sicuramente influenzerà le decisioni di altri giudici in tanti prossimi processi: strage ordinata solo da Riina, dai suoi fedelissimi e dai vari pentiti che si sono auto accusati. L’altra Mafia tutta innocente, l’altra Mafia, guarda caso, quella fazione moderata che sta trattando una presunta resa con pezzi dello Stato, tutta fuori dalle responsabilità del massacro.
Sentenza che giungeva pochi giorni dopo la commemorazione, celebrata nell’aula bunker del tribunale di Palermo, del Giudice Falcone, assassinato da quella Mafia in buona parte assolta. Commemorazione durante la quale tantissimi suoi colleghi avevano, ancora una volta, ricordato l’uomo, il collega e l’insegnamento del suo Metodo.
Sempre quegli stessi giornali riportavano a piè di pagina quegli articoli, la svista del Tribunale di Trapani che aveva scarcerato otto pericolosi Killers della Mafia, uomini di Matteo Messina Denaro, vice di Provenzano, perché il congelamento dei termini di carcerazione era stato chiesto troppo tardi e non poteva essere sanato, ciò, nonostante fossero ritenuti colpevoli di decine di delitti.
Cronache di altri tempi, un ritorno prepotente al passato.
Come allora non richiamare l’attenzione, ancora una volta, su quel "Progetto Provenzano" già da noi illustrato nei nostri precedenti articoli, strategia mafiosa già indicata da Ilardo nel Maggio del 1994 e che da allora sta progressivamente affermandosi indisturbata, strategia che mirava al controllo di Cosa Nostra da parte di quella fazione di Cosa Nostra che si definiva moderata e che aveva sì subìto, ma accettato la linea dura e stragista di Riina.
Controllo dell’Organizzazione che poi avrebbe ripristinato una linea più colloquiante con parte delle Istituzioni, non più perseguendo reati cruenti e taglieggianti, ma più afferenti agli affari e pronta a dare pieno sostegno alle elezioni votando "Forza Italia". Ciò in cambio di leggi ed azioni più favorevoli e garantiste agli affiliati detenuti o inquisiti.
Progetto che per Ilardo, uomo del Vertice di Cosa Nostra e nato in quell’ambiente del quale conosceva gli attori ed il loro pensiero, nascondeva non una presunta volontà di resa o di dissociazione, ma la volontà di Provenzano di realizzare la trasformazione di Cosa Nostra in una struttura occulta, più selettiva, composta da insospettabili dediti agli affari. E per realizzare ciò, aveva bisogno necessariamente di qualcosa d’importante da mettere sul piatto della bilancia.
Ragion per cui Ilardo, che costantemente si raffrontava con i vertici della sua Famiglia da sempre legati al Capo di Cosa Nostra, era sicuro che Provenzano, nell’applicazione del suo Metodo, aveva indotto abilmente Riina alla scelta di perseguire una linea stragista per condurre lo Stato ad una trattativa facendo finta di subirla ma, invece, per sfruttarla a suo vantaggio rendendo oggetto della trattativa lo stesso Riina e la sua linea stragista.
Era impensabile e riduttivo che una persona della abilità e dell’intelligenza di Provenzano, più volte riscontrata, dopo una vita condotta come una bestia, privandosi di tutto, anche della famiglia, volesse poi concludere la sua vita di Capo di Cosa Nostra, nonché di capo famiglia, senza assicurare un adeguato futuro a quanti lo avevano seguito e un nome di rispetto ai figli.
Anche per questo era morto Ilardo.
Ilardo poteva ben dire che ogni decisione assunta in Cosa Nostra, a seconda del livello di competenza, veniva preventivamente illustrata anche alle persone detenute quando non avevano dei familiari chiamati a sostituirli nel Sodalizio. Aggirare le restrizioni ed i vincoli nel circuito carcerario di massima sicurezza era difficile, ma si realizzava. Come già detto nei nostri precedenti articoli, "Piddu" Madonia, informato sempre di ogni evento importante, dal Carcere aveva continuato a gestire la Famiglia Nissena, aiutato in ciò anche dalla moglie Santoro Giovanna ed aveva designato quale suo rappresentante Vaccaro Domenico, fedele esecutore dei suoi voleri.
Ilardo più volte mi aveva riferito come Provenzano non avesse particolari difficoltà nel comunicare con lo stesso Piddu Madonia, come in occasione dell’organizzazione della spartizione degli appalti interni alla base di Sigonella, in provincia di Catania.
Il "Progetto Provenzano" lo avevamo ancora richiamato e denunciato all’indomani della lettera di Aglieri, indirizzata a parte delle Istituzioni, dove "l’ambasciatore" del capo di Cosa Nostra avanzava l’inaccettabile ed arrogante disponibilità dell’Organizzazione non di pentirsi per aver eseguito processi sommari, torturando e assassinando nei modi più feroci le loro vittime - sciogliendole poi in un bidone colmo di acido - o per aver decretato assassinii dall’interno di un carcere per poi festeggiarli con pranzi e brindisi, ma di sedersi ad un tavolo con lo Stato, pronti ad offrire una presunta resa o una dissociazione in cambio di processi ed indagini diverse nel Metodo fino ad ora eseguito, giudicato non garantista.
La vittoria schiacciante di 60 a zero in Sicilia di "Forza Italia", gli arresti con tutta probabilità determinati da segnalazione confidenziale di alcuni capi fedeli a Provenzano, erano altri eventi che concorrevano a scandire i tempi ed accreditare il percorso di questo "progetto", la cui realizzazione aveva allarmato anche molti giornalisti che nell’eventualità di un fallimento dei suoi "Mediatori" temevano la possibilità di un nuovo delitto Lima.
Credo che, per ora, questa Sentenza abbia scongiurato questo pericolo e che Provenzano non avrà più tanti scrupoli nel farsi arrestare, grazie al "paziente" lavoro di qualcuno.
Abbiamo assistito, come sopra detto, ad un ritorno all’antico, al passato, con il feroce e l’amaro sospetto che l’alleanza Mafia – Politica sia diventata sempre più stretta nel reciproco interesse dell’attivazione del circuito potere – profitto, profitto – lavoro nuovo. E che sia diventata altrettanto capace di sistema di controllo del territorio, dove una certa Politica ha progressivamente e scientemente occupato lo Stato e le Istituzioni e le zone d’influenza anche mediatica, creando un sistema che via via soffocherà ogni libertà.
Come mi ricorda sovente quel mio amico, i nemici della libertà non sono quelli che l’opprimono, ma quelli che la deturpano.
Sentenza che sconfessa il Metodo Falcone proprio pochi giorni dopo la sua commemorazione e dopo che tantissimi suoi colleghi avevano richiamato la validità di quel Metodo che aveva dato dignità all’Italia nel Mondo. Accreditando, per la prima volta, una vera, efficace e determinata lotta alla Mafia, dando finalmente agli occhi di tutti una sua diversa immagine, quella di una Organizzazione messa in ginocchio ed umiliata.
Ora la negazione di tutto ciò, il ritorno prepotente a quella figura che Falcone definiva "Stato Mafia", molto più efficiente e funzionale del nostro Stato e che per tale ragione era necessario impegnarsi a fondo per meglio conoscere e combattere. Impegno da lui assolto con tale determinazione e capacità da essere ucciso. E noi, fra le tante assurdità, ritornare ad assistere ad immagini e scene di un tempo che ormai credevamo trascorso, come il vedere quel Procopio di Maggio di Cinisi (PA), vecchio esponente di Cosa Nostra, intervistato e chiamato a dare un commento sulla sentenza della Cassazione all’indomani della commemorazione di Falcone, rispondere con i soliti messaggi trasversali, furbi e densi di significato.
Vedere lui, ancora oggi, affermare stringendo gli occhi, fessure di una faccia di pietra, che tutti i mafiosi possono essere innocenti, che Falcone era una brava persona e gli aveva stretto la mano e che le ragioni della sua morte andavano ricercate anche nel suo ambiente ed in quella politica che prima lo aveva osteggiato, penalizzato e poi trasferito da Palermo.
Quel Falcone che aveva ammonito: se un giorno il mafioso pur colpevole verrà messo in libertà, la credibilità del magistrato e dello Stato verrà compromessa, peggio ancora in siffatte condizioni, sarà il parlare di continuità di lotta alla Mafia. Ciò non serve se non si è sorretti da una forte e precisa volontà politica.
Ragion per cui non ci meraviglieremo se sentiremo probabilmente dire, ancora una volta, i soliti commenti sugli italiani che non si sa mai da che parte stanno. Ecco il solito sospetto che ci accompagnerà e con il quale dovremo fare i conti. Nell’immaginario internazionale gli italiani sono quelli che, per definizione, non si sa bene da che parte stanno, forse una immagine diffamatoria, ma purtroppo avallata anche da altri, troppi, precedenti.
Intuivamo, la sbandieravano la collusione politica affari e criminalità organizzata, sapevamo che questo intreccio esisteva, sovente anche costretti dalle necessità a subirla. Ed ora, nuovamente, ci dicono che bisogna convivere con questa, tollerarla e noi, ancora una volta, faremo finta di non sapere nulla nella speranza di trarre un vantaggio. Ma questa volta ci sfuggirà alla percezione la reale dimensione della corruzione sociale ed economica, tale da compromettere il futuro dei figli e dei nipoti.
Nelle parole del Dr. Spataro ho rivisto più di ogni altro il ricordo e l’immagine più aderente del Dr. Falcone, quella di un magistrato serio, intelligente, capace ed efficiente e totalmente indipendente che, ad un certo momento ha dato fastidio.
Perché Giudice intelligente e nell’efficiente contrasto al Crimine Organizzato, ed in particolare nei confronti dei reati contro la pubblica amministrazione e la corruzione delle istituzioni, era indipendente ed incontrollabile, insensibile alle minacce ed alle lusinghe provenienti anche da alcuni settori della Politica.
Quando Falcone spiegava il suo metodo di lavoro nei confronti del Crimine Organizzato lo riassumeva in pochi e chiari concetti. Bisognava prepararsi ad affrontare indagini di ampio respiro, raccogliendo il massimo delle informazioni, anche quelle meno utili, per poi trovarsi davanti un quadro ed iniziare così a costruire una strategia, ciò ci consentirà di sapere costantemente quello che facciamo e di adeguare lo strumento investigativo alle varie esigenze.
Di Buscetta ricordava che, oltre ad avergli insegnato una lingua, gli aveva dato delle chiavi di interpretazione e che questi soleva anche ripetergli: <<Non credo che lo Stato italiano abbia l’intenzione di combattere la Mafia. L’avverto signor giudice, dopo questi interrogatori lei diventerà una celebrità, ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai>>.
Hanno voluto distruggere quel metodo e quella indipendenza che altri magistrati coraggiosi, intelligenti e capaci avevano raccolto, impedire il prosieguo di quel lavoro con il qualificato impiego di altri collaboratori come Buscetta, in grado di dare ulteriori chiavi di lettura e riscontri a quel quadro investigativo che, sempre di più, si stava allargando e prendendo consistenza. Ilardo avrebbe dato, anche lui e sicuramente più di altri, un contributo di qualità e di conoscenza a quei magistrati e per questo è stato ucciso.
Si può fare sempre qualcosa, ripeteva Falcone per motivare quanti si apprestavano ad affrontare il fenomeno Mafia, e facendo nostra anche questa esortazione iniziammo i pedinamenti e gli appostamenti nei confronti di Simone Castello, il postino, era questo il termine che usavamo per indicarlo. E così abbiamo vissuto più mesi in Bagheria, diventando invisibili agli occhi di tutti, seguendo pizzini e biglietti che il postino riportava in paese per farli poi giungere tramite altro contatto a Provenzano.
Bagheria, Aspra, Ficarazzi, Santa Flavia, Casteldaccia ed altri paesi ci hanno visto trascorrere giorni e notti studiando ed analizzando ogni viaggio di rientro del postino, pronti a cogliere ogni minimo segnale sospetto nel corso di un incontro o di un fugace contatto, disegnando momento dopo momento la rete della struttura che tutelava il Boss latitante.
Scianna, Guttadauro, Mineo, Giammanco, Eucaliptus, Via E 3, Via Nazionale SS 113 ecc. diventavano giorno dopo giorno sempre più familiari, ai quali si aggiungevano altri nomi e luoghi per quei pochi tecnici inviati in missione assertivamente per migliorare le trasmissioni televisive dei canali Mediaset, carenti in quei luoghi. Persone anonime nell’aspetto e nel comportamento che avevano affittato una casetta sulle alture del paese.
Ricordo ancora la forte sensazione che provai quando Ilardo, una sera, mi mostrò e fece leggere la prima lettera scrittagli da Provenzano, come poi da allora fece ogni volta, avendo cura poi di conservarmi gli scritti. Mi sentivo, anche se indirettamente, partecipe ed attore di quelle tragedie e del vivere di mafia che vedevo scorrere sotto i miei occhi leggendo quelle missive, immagini, frammenti di tante vicende ed affari che prendevano sempre più forma.
Con Ilardo cercavamo di comprendere il recondito fine di quelle storie e quale fosse il gioco delle parti in causa ed io, ascoltando i commenti e le analisi di Luigi, cercavo d’imparare il loro pensiero, il loro modo di affrontare un affare, una discussione. Ogni cosa andava analizzata, perché dietro poteva sempre celarsi l’inganno e poi il discredito agli occhi di Palermo.
Lettere dattiloscritte di Provenzano che mi affascinavano nella loro lettura ed ero quasi certo di vederlo chino, attento, sbuffante nella stanza di una masseria battere con quelle grossa dita da contadino, anche se si faceva chiamare ragioniere, i piccoli tasti di quella Olivetti lettera 22, macchina da scrivere un tempo usata dagli inviati della stampa, e con quel suo lessico strampalato, ma efficace, pieno di errori e con frasi condite di benedizioni e raccomandazioni sulla salute di tutti, impartire disposizioni e direttive che mai avevano il carattere imperativo, se non la richiesta di un favore o il fornire un consiglio dettato dall’esperienza di vita e per questo più tassativo.
Vicende che promettevano di diventare tragedie, come l’approssimarsi di nuvole nere e gonfie in un cielo che diventava sempre più grigio mentre lontano si sentiva il sommesso brontolio del tuono. Tanto dava l’impressione nel leggere lo svilupparsi della vicenda della tangente di 500 milioni di lire che la direzione della Acciaieria della Megara, di Catania, aveva versato a Cosa Nostra e che la parte diretta a quella Famiglia non era stata data da Tusa Francesco, cugino del Piddu e dell’Ilardo e preposto alla gestione del rapporto da Palermo.
Provenzano, chiamato in causa a risolvere il problema, abilmente aveva fatto finta di non saper nulla e dato che sia il Leonardo Greco, suocero del Tusa, preposto al contatto diretto con l’impresa, che il genero erano ristretti in carcere, aveva fatto riprendere i contatti con la ditta al fratello di Greco, Nicolò.
Questi, evidenziando efficienza, aveva già fatto sapere che i vertici della Megara - pur lamentandosi della inefficienza di Cosa Nostra Catanese, che non aveva risolto i problemi interni con le maestranze ed i sindacati, così come quelli con l’altra criminalità locale che aveva creato fastidi e disturbi con taglieggiamenti continui - erano pronti a riprendere i contatti e riconoscere "un Fiore ", graziosa indicazione di altro esborso di denaro, sia per il passato che per il futuro.
Provenzano però ammoniva che se i Catanesi Aiello Vincenzo e Galea Eugenio erano intenzionati ad interessare della vicenda anche gli Agrigentini De Caro e Fracapane, quindi Brusca e Bagarella, si sarebbe ritirato da ogni interessamento.
Strategia mirabile che, senza entrare nel merito degli eventi, forniva già la risoluzione del problema facendo intravedere l’arrivo di soldi, pronta però a ritirarsi se altri si fossero intromessi, personaggi che avrebbero poi assunto ogni responsabilità nella gestione della vicenda, il cui quadro ovviamente sarebbe mutato dato le nuove partecipazioni.
Parole ricche di significato e di conoscenza dell’animo umano, così come quelle che gli scriveva per consigliarlo su come affrontare i prossimi incontri che avrebbe avuto con quel De Caro Antonio, esponente di rilievo della Famiglia di Agrigento, e definito da molti persona scaltra e pericolosa: "……….di prego di essere calmo e retto, corretto e coerente, sappia sfruttare l’esperienze delle sofferenze sofferti, non screditare tutto quello che ti dicono e nemmeno credere ha tutto quello che ti dicono, cerca sempre la verità prima di parlare e rigordati che non basta mai avere una sola prova per affrontare un ragionamento per esserni certo in un ragionamento occorrono tre prove e correttezza e coeranza……."
La descrizione di Vaccarro Domenico, che indicava con l’abbreviativo "mm.", era altro pezzo di sintesi provenziana, che ben illustrava il ruolo di pura facciata che quel mafioso ricopriva in quel tempo nella reggenza della Famiglia Nissena, per conto del "Piddu" Madonia, lettera e lettere che forse in Cassazione avrebbero dovuto leggere: "….. amme mi sempra che mm. è una brava persona e forse troppo semplice, e umpò inesperiende della malvagia vita fra di noi, e à bisogno che unp che lo guida è bene, e può andare avande…"
La partecipazione alle vicende della Acciaieria Megara di Catania conducevano l’Ilardo ad avere più incontri con l’Aiello Vincenzo, l’altro responsabile della Famiglia Etnea e preposto alle incombenze di carattere finanziario. E nel riscontrare che questi aveva commesso l’imprudenza di ricevere presso la villetta, suo rifugio, sulle falde dell’Etna più affilati della sua organizzazione, sintomo evidente di sicurezza, acconsentiva alla proposta di permettere la cattura del latitante realizzando che non avrebbe pregiudicato la sua sicurezza.
Così una sera, con parte dei miei uomini, seguivamo con discrezione e mille precauzioni l’Ilardo quando venne prelevato da un uomo dell’Aiello giunto a bordo di un fuoristrada e percorrevamo quella strada che, tornante dopo tornante, si arrampicava sul fianco del Vulcano rilevando, ogni tanto, qualche punto di riferimento per poi riconoscere il tragitto percorso.
Giorni dopo con Tex e Vasco, presa l’auto più anonima e vecchia di quelle che utilizzavamo, simile a tante del suo genere utilizzate sovente per i lavori in campagna e attrezzata con cassette di verdura alcune ancora piene, ripercorrevamo quella strada per meglio localizzare quella villetta nella periferia del comune di Mascalucia dove avevamo visto entrare il nostro infiltrato.
Giunti in un tratto della strada dove questa diventava ancora più stretta e segnata ai lati da due alti muri, improvvisamente venivamo bloccati da un’altra auto che, senza aver suonato e controllato lo specchio al bordo della strada posto poco prima della curva, aveva proseguito il tragitto. Dopo sbuffi e grugniti obbligavamo quel conducente a fare retromarcia e, dopo averlo salutato con un cenno del capo, riprendevamo la strada e dopo poco localizzavamo il nostro obiettivo, una costruzione piccolina con un giardino difeso da una alta inferriata e da un grosso cane lupo e posta all’ombra degli alberi con la presenza di più persone al suo interno.
Una volta rientrati al Centro DIA di Catania, mentre con il dirigente di quell’ufficio si predisponevano le attività d’intervento per le prime ore dell’alba seguente, vedevo Tex con Vasco avvicinarsi e nel mostrare una foto dire: lo riconosce? Il conducente di quell’auto era Eugenio Galea.
Alle prime luci dell’alba, dopo aver scavalcato le inferriate della villetta ed accarezzato un arrembante e scodinzolante cane lupo, che non oso pensare a quale punizione mafiosa sarà andato incontro per non aver minimamente segnalato il nostro arrivo, facevamo irruzione all’interno bloccando un insonnolito Aiello Vincenzo che veniva tratto in arresto con tre altri esponenti della sua organizzazione: Fisicaro Ciro, Ruggeri Filadelfio, e Cantarero Giorgio.
L’Aiello, non smentendo il ruolo di vertice della sua Famiglia nonché di persona di antico rispetto e qualità, non diceva una sola parola e con molta calma ed educazione chiedeva di fare un caffè prima di andare via, caffè che prendevamo insieme seduti allo stesso tavolo di quella cucina.
Michele Riccio
Nel prossimo numero il colonnello commenterà la corrispondenza intercorsa tra Provenzano e alcuni detenuti.
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Il colonnello
Michele Riccio
Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.
ANTIMAFIADuemila N°23 giugno 2002