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Gian Carlo Caselli*
Un capo mafia, Antonino Giuffrè detto “Manuzza”, finisce in carcere. Dal carcere un altro capo mafia, Pietro Aglieri, scrive lettere come portavoce di “Cosa nostra”. Cerchiamo di capire che cosa sta avvenendo.
Dopo le stragi del 1992, la forte reazione dello stato infligge a “Cosa nostra” duri colpi: latitanti arrestati come non mai in precedenza, sia per numero sia per “caratura” criminale; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi tolti ai killer mafiosi. “Cosa nostra” deve anche subire tutta una serie di processi, che per i suoi affiliati si concludono sistematicamente con pesantissime condanne (nel biennio 2000-2001 nel solo distretto della Corte d’Appello di Palermo si sono avute ben 251 condanne all’ergastolo, mentre gli onori delle cronache sono stati praticamente riservati agli imputati “eccellenti”, spesso i soli assolti, sia pure per insufficienza di prove). Duramente colpita, la mafia adotta una sorta di “strategia della tregua”, finalizzata a far dimenticare la sua tremenda pericolosità, non solo criminale ma anche politica, economica e sociale. Utilizza la tecnica del “cono d’ombra”, per cicatrizzare le ferite ricevute e al tempo stesso consolidare il controllo del territorio e ritessere impunemente la sua rete di affari e collusioni. Una strategia meno sanguinaria ma più insidiosa, perché favorisce l’affievolimento dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo “statistico” dei fatti di sangue. Per cui, se oggi si parla di “mafia invisibile” o di “mafia sommersa”, va subito chiarito che non si vuole alludere ad una mafia ormai inoffensiva o definitivamente sconfitta. Tutt’altro.
Sul versante che si potrebbe definire dell’ordinamento amministrativo, le cose sono sostanzialmente tornate come prima. Il territorio, infatti, continua ad essere diviso in “famiglie” e “mandamenti”: come sempre, i capi di queste strutture controllano tutte le attività che si svolgono nella loro area, sia illegali (estorsioni, traffici di droga, rapine ecc.), sia d’altro tipo, in particolare gli appalti;- di fatto, in ogni ambito territoriale, per ciascun cantiere di opere pubbliche, tutti gli imprenditori sono costretti a versare una tangente, a fornire alcuni posti di lavoro, a servirsi per i subappalti di imprese mafiose o legate alla mafia.
Mutamenti rilevanti, invece, si sono avuti sul versante della leadership dell’organizzazione. Prima degli arresti di Riina, Brusca, Bagarella e soci essa era strutturata nella c.d. “commissione” o “cupola” (al momento del suo arresto, il 15 gennaio1993, Riina stava appunto recandosi ad una riunione della commissione). La situazione di emergenza determinata dall’incisiva azione delle forze dell’ordine e della magistratura ha portato all’abbandono di questo modulo organizzativo, concentrando la leadership in un nucleo ristretto di capi, per lo più latitanti, coagulati intorno a Bernardo Provenzano. Questa specie di “governo provvisorio”, oltre ai soliti compiti del vertice di “Cosa nostra” (la risoluzione dei conflitti d’interesse legati alla spartizione dei profitti e alla regolazione degli appalti che si svolgano su territori appartenenti a famiglie diverse ecc.), deve svolgere un’altra difficile funzione, quella di conciliare le esigenze dei mafiosi detenuti con quelle dei mafiosi in libertà. Questione decisiva per l’ordinato e prospero futuro di “Cosa nostra”, ma assai complessa, poiché entrano in gioco fattori estranei all’organizzazione ( l’intensità dell’azione repressiva dello stato, il clima socio-politico contingente e più in generale l’atteggiamento dell’opinione pubblica), fattori che possono influire su eventuali provvedimenti legislativi o amministrativi capaci di lenire il problema costituito dai mafiosi detenuti.
L’obiettivo “tradizionale”, che periodicamente si ripresenta, è di ottenere la revisione dei processi. Una legge che facesse ai mafiosi un regalo così sfacciato non è proponibile: il “revisionismo” che accompagna l’inabissamento della mafia consente qualche audacia sul tema della convivenza con la mafia, non ancora la negazione dei delitti, spesso feroci, su cui la mafia ha costruito il suo potere. Ecco allora l’obiettivo di benefici (attenuazione delle pene o del regime carcerario; salvaguardia dei patrimoni) che si vorrebbero ricollegare ad una sorta di dissociazione, ad una condotta che interessa soprattutto definire per esclusione: nel senso che tutto potrà essere, purchè resti assolutamente esclusa ogni forma di pentimento o collaborazione, così da evitare che l’organizzazione subisca dei danni.
Si conoscono i tentativi di vari mafiosi detenuti di riunirsi in carcere per verificare l’estensione del consenso ad un simile progetto. Anche la lettera di Aglieri sembra muoversi lungo quest’orbita. Un dato di fatto certo è che i capi di “Cosa nostra” ( sicuramente dotati di un’intelligenza criminale non comune) sanno bene che le forze dell’ordine e la magistratura sono contrarie ad ogni ipotesi di dissociazione; sanno bene che questa ostilità creerebbe polemiche forse insuperabili; conseguentemente cercano di creare nell’opinione pubblica un clima nuovo, facendo professione di un incontenibile desiderio di pace basato sul riconoscimento della propria sconfitta e addirittura sulla promessa di sciogliere l’organizzazione. Un progetto ben studiato, che consentirebbe a “Cosa nostra” di risolvere i suoi problemi interni e di consolidarsi. Un disegno sapiente, mirato al completamento della propria ristrutturazione passando per lo scioglimento del nodo dei rapporti fra mafiosi liberi e detenuti. In realtà, uno specchietto per le allodole: perché è falso che “Cosa nostra” sia o si consideri sconfitta. Le indagini, anche le più recenti, dimostrano che il controllo mafioso del territorio è costante ed efficacissimo. Com’è asfissiante l’interessamento per gli appalti (basta leggere le cronache del recentissimo arresto di Giuffrè per convincersene). L’umile presa d’atto di una sconfitta epocale, in altre parole, è un trucco da illusionisti, che avrebbe come effetto finale un rafforzamento di “Cosa nostra”, altro che la sua fine! Con uno strascico piuttosto cupo: se dovesse fallire il progetto in cui sono attualmente impegnati vari mafiosi detenuti ed il “governo provvisorio” dell’organizzazione, allora potrebbero aprirsi scenari di crisi assai incerti. Un motivo in più per rivedere la decisione del Ministero degli Interni di ridurre la protezione di vari magistrati ed esponenti della società civile impegnati in attività antimafia.
*Magistrato
ANTIMAFIADuemila N°22 Maggio 2002
La Trattativa
La trattativa - 5° puntata - Le miei prigioni. Lettere da Cosa Nostra - Gian Carlo Caselli
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