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Indice articoli

di Giorgio Bongiovanni
Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.

Quinta parte


Botta...

Ci siamo. Le condizioni sono ottimali per avanzare la proposta di risoluzione dell’ultimo vero problema di Provenzano: il popolo delle carceri.
Pietro Aglieri, uno dei suoi bracci destri, oggi detenuto secondo il regime previsto dall’articolo 41 bis, ha inviato una lettera al procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna, e per conoscenza anche al procuratore Grasso, con l’intento di voler chiarire la propria posizione dopo «aver più volte appreso, nel recente passato, notizie fuorvianti», circa una sua possibile volontà di dissociazione.
E infatti «con chiarezza di opinioni e con fermezza di intenti ho sempre dimostrato che né la collaborazione, sarebbe meglio dire la delazione, né la dissociazione, intesa come metodo di accuse anche se indiretto, sono a mio modo di vedere strade percorribili».
Allora cosa chiede «u signurino», capo mandamento di Santa Maria di Gesù, condannato all’ergastolo per le stragi del ‘92?
«Un ampio confronto», prima di tutto fra i vari boss detenuti al fine di trovare «un qualche sbocco» e un «confronto aperto e leale» con lo Stato e bada bene, «non trattative, come qualcuno maliziosamente e strumentalmente insinua, affinché si possono trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano veramente dei frutti positivi nel suo insieme».
Quindi nessuna dissociazione, nessuna trattativa, nessuna collaborazione.
«Capisco che soluzioni alternative, che prescindano dalla collaborazione o dalla dissociazione, siano inevitabilmente più lunghe, più complesse, più articolate. Ma proprio per questo abbisognerebbero di un lavoro più attento e paziente, fatto e condotto da persone lungimiranti».
«Tutto il resto - spiega paziente - sarebbe solo un esercizio di retorica che porterebbe semplicemente ad un nulla di fatto. A meno che non si voglia proprio questo».
A dire il vero difficilmente si intende poiché noi, lo Stato, dovremmo volere altro.
Di fatto però, Aglieri sembra essere certo del contrario, poiché, prosegue, per «far nascere qualcosa di costruttivo per il bene della collettività», occorre «una seria analisi della realtà, scevra da barricate ideologiche, chiacchiere sterili e con spirito di umiltà».
E rincara: «non sarà con metodi o processi, che in certi casi vanno oltre quegli stessi metodi che si dice di voler combattere, che uno Stato laico e democratico riuscirà a dare  più sicurezza ai suoi cittadini». «Non sarà demonizzando l’avversario, o umiliando la sua dignità, o alimentando rancori con tetra ostinazione di sicofanti prezzolati, o arroccandosi nella torre d’avorio di una presunta superiorità che si riuscirà a risolvere queste complesse questioni». «L’infallibilità - scrive poi in tono chiesastico, dovuto forse alla sua formazione in seminario - fanno parte della schiera divina; l’errore è parte integrante del genere umano, nessuno ne è esente».
E poi conclude, in piena linea con la strategia corleonese vigente ormai da anni, attaccando «le propalazioni di certi pseudo-collaboratori che hanno dichiarato tutto e il contrario di tutto  pur di uscire dal carcere».
Dulcis in fondo avverte: «questi circoli viziosi non approderebbero a nulla, con il tempo si ritornerebbe al punto di partenza».
Gentile ed educato, saluta, assicurandosi disposto a «qualsiasi approfondimento con chiunque».

... e risposta

Una lettera scritta con tanta pacatezza ed implicita convinzione che quasi sopraggiunge la tentazione di darle un qualche credito. E invece, per ora, fortunatamente, tutti i rappresentanti degli organismi preposti hanno risposto seccamente no. Ciò non toglie che, a nostro avviso, la lettera di Aglieri presagisca una manovra di Cosa Nostra particolarmente inquietante.
Un boss di quel calibro, vicinissimo a Provenzano, scrive presupponendo, con non poca protervia, di avere uno o più interlocutori interessati alle sue proposte. E benché si rivolga a due autorevoli uomini dello Stato, non si fa fatica a comprendere che il messaggio è anche per Cosa Nostra.
La prima domanda che sorge, a parte l’iniziale irritazione, è come sia possibile che un detenuto per strage si senta, in qualche modo, legittimato ad avanzare pretese di dialogo. C’è forse qualcuno che si è dimostrato disposto ad ascoltarlo? Il procuratore Vigna ci assicura di no, e gli crediamo, quindi non ci restano che due ipotesi: il mafioso ha perso il senno oppure sta lanciando il suo messaggio a qualcun altro.
Non sappiamo a chi, ma di fatto sappiamo cosa vuole. Soluzioni. Soluzioni indubbiamente legate alla sua condizione di carcerato speciale, costretto, come è sacrosanto, al regime più duro e per sempre, soluzioni relative a processi, a suo parere, ingiusti (macchinazioni surrettizie), soluzioni per il bene della collettività.
E non ci è chiaro se si riferisca alla collettività italiana, a quella di Cosa Nostra, oppure ad entrambe
Benché, poi, ci si sforzi, proprio non si riesce a capire quale vantaggio trarrebbe lo Stato se acconsentisse a questo «leale confronto». A che pro?
Non vorremmo che «quel punto di partenza» o quel «più sicurezza ai suoi cittadini» fossero velate minacce.
Con Cosa Nostra la guerra è tuttora aperta, ma quella battaglia, dopo il durissimo colpo delle stragi, l’abbiamo vinta noi, e quindi non ci sono alcune condizioni da trattare.
Ma siamo tutti dello stesso parere? Qualcuno no, come l’avvocato Taormina, sottosegretario uscente, che invita ad accettare questa dichiarazione pubblica di fallimento della mafia e a prenderla come vittoria. Ma non ci era già nota questa sconfitta dell’ala militare più oltranzista di Cosa Nostra? Non sono tutti condannati all’ergastolo?
Il fatto poi che siano giacenti, da qualche parte in parlamento, tre proposte di legge che rischiano di rendere possibile la revisione di tutti processi, compresi quelli per mafia, fa comprendere come mai il procuratore di Palermo Pietro Grasso, noto moderato, abbia dichiarato recentemente: «sarà il diluvio universale»! (vedi pag.9)
In sostanza la situazione si fa sempre più allarmante e sempre più coerente con le esigenze di Cosa Nostra a cui Provenzano, nel 1995, aveva promesso di provvedere entro cinque, sette anni.
Non è poi sfuggito ai più attenti osservatori che ogni qualvolta si diffondono notizie di presunta «dissociazione» o «trattativa» da parte dei boss carcerati, avviene un arresto importante, come il recente fermo di Antonino Giuffré, da alcuni indicato come il numero due di Cosa Nostra, avvenuto, a quanto pare, in seguito ad una soffiata. (vedi pag.2)
Una contropartita o un segnale dei corleonesi impazienti e rinchiusi che pretendono risposte da chi è fuori?
Indiscrezioni giornalistiche, inoltre, darebbero per certo che Provenzano stia vendendo il suo patrimonio. Quale sarà la prossima mossa? Un’uscita di scena in grande stile così da indurre a credere che Cosa Nostra è finita? Così non sarebbero più necessarie le misure di repressione adottate finora?
Sarebbe la fine della guerra aperta, ne resterebbe soltanto una semifredda combattuta da quei pochi discendenti di Falcone e Borsellino che ancora si ricordano che quando la mafia si inabissa è il momento in cui tutti i suoi equilibri interni e soprattutto esterni sono ben saldi.



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Luca Tescaroli *


L’iniziativa di Aglieri rappresenta un’azione che va valutata con estrema attenzione e prudenza. Nulla è casuale nelle “scelte” di Cosa Nostra e il rischio è che quell’agire si muova correlativamente alla strategia di sommersione e di inabissamento che l’organizzazione sta attuando da tempo. L’obiettivo è quello di far credere che Cosa Nostra non sia più operante e che, quindi, non costituisca più un pericolo. Lo scopo ultimo è quello di poter proseguire indisturbata nell’azione illecita che, tradizionalmente, ha portato avanti. Indurre alla convinzione che l’associazione mafiosa non esista più e che, addirittura, vi sia una possibilità di scioglimento delle antiche strutture mafiose di comando esistenti sul territorio significa che il regime penitenziario duro, di cui all’art. 41 bis, non avrebbe più alcuna ragion d’essere. In altri termini, quel regime ha la funzione di impedire che dall’interno del carcere il boss prosegua nell’attività criminale. Perciò, se si riesce a dimostrare che sono stati recisi i rapporti con l’organizzazione quel regime dovrà essere, a fortiori, abolito. È inconfutabile, dunque, che quell’agire sia finalizzato ad ottenere vantaggi nel trattamento carcerario. Tutti questi segnali debbono essere presi in seria considerazione, ma non si deve cadere nell’errore di dare credito a queste iniziative. Nessun atteggiamento di distacco dall’organizzazione mafiosa può avere un riconoscimento se non nelle forme della collaborazione con la giustizia. Ed ogni forma di trattativa o ipotesi di trattativa con Cosa Nostra deve essere troncata sul nascere. Non si può dimenticare che forme analoghe di contatti hanno interagito con la stagione stragista che ha visto la morte di Giovanni Falcone.
*Sostituto Procuratore di Roma



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Franca Imbergamo*


La mafia ha sempre tentato di attenuare il regime carcerario, di percorrere strade che potessero portarla sostanzialmente, se non all’impunità, ad una situazione molto simile. Credo che la strategia sia abbastanza chiara ormai: quello che Cosa Nostra vuole ottenere in cambio di questa presunta dissociazione, di questo dialogo con lo Stato, sono macchinazioni del regime del 41 bis, e la restituzione dei patrimoni confiscati poiché, se viene meno la pericolosità sociale del soggetto a cui è stato confiscato il patrimonio, molto probabilmente i giudici dovranno valutare in senso positivo la sua persona e quindi restituire i patrimoni. È questo quello che preme di più alla mafia. Mi auguro che queste suggestive offerte di dialogo vengano catalogate per quello che sono e cioè un’abile strategia per ottenere vantaggi e per superare un momento di difficoltà di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il tono usato da Aglieri nella lettera, penso che sia abbastanza suggestivo, proprio di una persona intelligente che si rende conto che, usando un tono pacato, può affascinare l’interlocutore. Non dobbiamo però scordarci che dietro a questo tono pacato ci sono persone che hanno compiuto le stragi.
 * Sostituto Procuratore di Palermo



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Vittorio Teresi*


Non si deve a nessun costo trattare con i mafiosi e non si deve permettere che chiedano qualcosa allo Stato. Purtroppo, però, vedo che non c’è un’unità nel rispetto di questo principio poiché, mentre sui giornali si legge che i mafiosi in carcere vorrebbero la revisione dei processi, si scopre che in Parlamento vi sono ben tre progetti di legge in merito, una modifica che rischierebbe di azzerare tutti i processi di mafia: dai primi maxiprocessi agli ultimi numerosi processi conclusisi con grandi successi dal punto di vista delle condanne per i mafiosi più pericolosi.
*Sostituto Procuratore Generale di Palermo



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Alfredo Galasso*


Non saprei se definire questo segnale di dissociazione provocatorio o patetico. Sicuramente, però, la sensazione immediata che ho, è che questa proposta sia urtante. Che costoro “confessino” di essere affiliati a Cosa Nostra o capi già lo sapevamo, visto che ci sono decine di sentenze che lo hanno confermato in via definitiva. Il riconoscimento a questa confessione che accompagna una qualche richiesta mi sembra curioso, per non dire provocatorio. Se il regime di carcere duro non va applicato e a chi , non spetta a loro deciderlo. Si tratterà, piuttosto, di capire se sono venute meno le condizioni di pericolo che hanno dettato la formulazione di quella norma che, certamente, deve essere applicata con equilibrio e con riferimento alle situazioni concrete, con un criterio di proporzionalità come, del resto, ha già detto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Ho la sensazione che una simile proposta significhi, invece, una sorta di volontà di recupero di una condizione non solo di maggiore vivibilità all’interno delle carceri ma, probabilmente, anche di maggiore libertà nell’uso dei patrimoni restanti non ancora sequestrati o confiscati. In ogni caso non vedo a cosa serva allo Stato una dissociazione di questo tipo: basti prendere come esempio Pippo Calò, il quale già aveva scritto una lettera del genere nel 2000, in occasione dell’apertura del processo in Corte di Appello per l’assassinio di Mino Pecorelli, nel quale è stato assolto. Calò si era dichiarato innocente ed i giudici di primo grado l’hanno ritenuto accettabile. E se Calò andasse a raccontare qualcosa riguardo a quell’omicidio che potrebbe rivelarsi utile per accertarne le cause e gli autori, ben venga la dissociazione. Per il resto non vedo a che cos’altro possa servire allo Stato.
 *Avvocato penalista e docente universitario



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Roberto Scarpinato*


Si tratta di un discorso  complesso, di  un momento di una strategia  articolata e di ampio respiro. Io vedo dietro questa strategia una sinergia di  intelligenze raffinatissime e di interessi convergenti che guardano lontano e che hanno necessità che sulla questione mafiosa  cali il sipario, ammannendo all’opinione pubblica, mediante un’abile regìa delle tecniche di comunicazione, la falsa rappresentazione di una resa di Cosa Nostra.
 *Procuratore Aggiunto di Palermo



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Leonardo Guarnotta*


Di dissociazione non si dovrebbe nemmeno sentir parlare, visto quelle che possono essere le finalità a cui queste persone mirano. Basti pensare alla “lettera” di Aglieri con la quale i boss vorrebbero sottrarsi al carcere duro oppure ottenere un qualche beneficio. Ritengo, invece, che l’unico modo di entrare in trattativa con lo Stato da parte dei mafiosi incarcerati sia rappresentato dalla collaborazione in merito alla quale esiste una legge premiale – approvata nel ’91 dopo tanti tentativi compiuti da Giovanni Falcone di farla passare – che, pur non essendo perfetta poiché è una legge umana, è comunque perfettibile. E, in ogni caso, spetterà poi a chi ha il compito di sentire questi personaggi stabilire se ci sono riscontri alle loro dichiarazioni.
*Presidente della II Sezione Penale del Tribunale di Palermo



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Nino Di Matteo*


Ritengo che lo Stato non debba dare alcuna importanza, né processuale né di altro tipo, ad affermazioni come quelle contenute nella “lettera” di Aglieri. I mafiosi, infatti, non sono e non possono essere interlocutori dello Stato e quest’ultimo non può dialogare con essi. L’unico spazio che, a mio avviso, gli imputati di mafia potrebbero avere è quello della collaborazione, ma non si deve credere alle mere affermazioni di principio circa l’asserita resa di Cosa Nostra o la dichiarata estraneità a determinati episodi stragisti. Personalmente, tra l’altro, non mi interessa più di tanto quali siano i motivi che hanno ispirato Aglieri o altri detenuti ad assumere questo atteggiamento. Noi, come potere istituzionale, non possiamo che tener conto di eventuali atteggiamenti di collaborazione che, però, non sono assolutamente presumibili da quanto accaduto.
*Sostituto Procuratore di Palermo



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Antonio Ingroia*


In generale, non c’è dubbio che sono cambiate molte cose da allora: l’organizzazione mafiosa ha subito tanti colpi ed è in una fase di riorganizzazione. I mafiosi stanno approfittando degli effetti di una strategia del silenzio e della tregua che Cosa Nostra ha adottato, che ha determinato anche un calo di tensione, per organizzarsi il proprio futuro e per stare meglio in carcere e fuori dal carcere. Sarebbe veramente una beffa nei confronti di tutti quegli uomini che, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si sono sacrificati sul fronte della lotta alla mafia, se in occasione del decennale delle stragi del ’92 si dovesse cedere e ci dovesse essere un ulteriore abbassamento della guardia.
 *Sostituto Procuratore di Palermo



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Sergio Lari*


Solo il tentativo di porre le basi per un simile ragionamento ci farebbe fare un passo indietro di dieci anni. A mio avviso tale richiesta significa: “Non mi pento e non mi dissocio, ma di fronte ad una dichiarazione di resa, mi aspetto che lo Stato ammaini la sua bandiera e che riconosca che Cosa Nostra è finita sul piano puramente formale e quindi si possa avviare un discorso sul 41 bis e, soprattutto, sulla revisione dei processi”. In questi dieci anni, la magistratura nel suo complesso ha inflitto centinaia di ergastoli (soltanto quella siciliana ha sequestrato beni per undicimila miliardi di lire). Ora questa popolazione carceraria cerca una via per vanificare quanto sin qui fatto. Sarebbe pericoloso se lo Stato si sedesse a tavolino con Cosa Nostra, poiché questo significherebbe riconoscere una soggettività giuridica a tale organizzazione, cosa che, tra l’altro, la diversifica da tutti gli altri sodalizi criminali. La differenza, come diceva Falcone, è che Cosa Nostra è uno stato nello Stato poiché è organizzata, nell’illecito, secondo schemi di tipo quasi statale con i mandamenti, le famiglie, le commissioni e i capi decina pronti a sostituirsi nel qual caso uno di loro venga eliminato, così come avviene per i giudici. E proprio in questo sta la pericolosità di Cosa Nostra, che non è un’organizzazione con cui si può scendere a patti premesso che, comunque, per principio, non si può scendere a patti tout court con nessuno. Peraltro, dalla documentazione di cui Antonino Giuffrè è stato trovato in possesso al momento dell’arresto, si evince che Cosa Nostra è tuttora viva e vitale sul territorio, poiché è emerso che i mafiosi continuano ad occuparsi di appalti, di “messe a posto”, di estorsioni e quant’altro. A Palermo, l’80% dei commercianti attualmente paga il pizzo quindi è chiaro che i boss non hanno alcuna intenzione di arrendersi né, tanto meno, di consegnarsi. Sarebbe surreale pensarlo.  Tuttavia, c’è una proposta di legge che ipotizza una revisione dei processi con la nuova formulazione dell’ex 111 della Costituzione. Il che è un pericolo micidiale dal momento che in tutti i casi in cui si sono acquisite, nel corso dei processi, le dichiarazioni rese nella fase delle indagini, ma che non trovano conferma in quanto in passato rivelato in dibattimento dal collaboratore si andrà a rifare il processo, con tutto ciò che questo comporterà. Avremmo quindi una “retroattiva incostituzionalità”.


*Procuratore Aggiunto di Palermo



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Gian Carlo Caselli*




Un capo mafia, Antonino Giuffrè detto “Manuzza”, finisce in carcere. Dal carcere un altro capo mafia, Pietro Aglieri, scrive lettere come portavoce di “Cosa nostra”.  Cerchiamo di capire che cosa sta avvenendo.
Dopo le stragi del 1992, la forte reazione dello stato  infligge a “Cosa nostra” duri colpi: latitanti arrestati come non mai in precedenza, sia  per numero  sia  per “caratura” criminale; beni mafiosi sequestrati per decine di miliardi; veri e propri arsenali di armi tolti ai killer mafiosi. “Cosa nostra” deve  anche subire tutta una serie di processi, che per i suoi affiliati si concludono sistematicamente con pesantissime condanne (nel biennio 2000-2001 nel solo distretto della Corte d’Appello di Palermo si sono avute ben 251 condanne all’ergastolo, mentre gli onori delle cronache sono stati praticamente riservati agli imputati “eccellenti”, spesso i soli assolti, sia pure per insufficienza di prove). Duramente colpita, la mafia adotta una sorta di “strategia della tregua”, finalizzata a far dimenticare la sua tremenda pericolosità, non solo criminale ma anche politica, economica e sociale. Utilizza la tecnica del “cono d’ombra”,  per cicatrizzare le ferite ricevute e al tempo stesso consolidare il controllo del territorio e ritessere impunemente la sua rete di affari e collusioni. Una strategia meno sanguinaria ma più insidiosa, perché favorisce l’affievolimento dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo “statistico” dei fatti di sangue. Per cui,  se oggi si parla  di “mafia invisibile” o di “mafia sommersa”, va subito chiarito che non si vuole alludere ad una mafia ormai inoffensiva o definitivamente sconfitta.  Tutt’altro.
Sul versante che si potrebbe definire dell’ordinamento amministrativo, le cose sono sostanzialmente tornate come prima. Il territorio, infatti, continua ad essere diviso in “famiglie” e “mandamenti”: come sempre, i capi di queste strutture controllano tutte le attività che si svolgono nella loro area, sia illegali (estorsioni, traffici di droga, rapine ecc.), sia  d’altro tipo, in particolare gli appalti;- di fatto,  in ogni ambito territoriale, per ciascun cantiere di opere pubbliche, tutti gli imprenditori sono costretti  a versare una tangente, a fornire alcuni posti di lavoro, a servirsi per i subappalti di imprese mafiose o legate alla mafia.
Mutamenti rilevanti, invece, si sono avuti sul versante della leadership dell’organizzazione. Prima degli arresti di Riina, Brusca, Bagarella  e soci  essa era strutturata nella c.d. “commissione” o  “cupola” (al momento del suo arresto, il 15 gennaio1993, Riina stava appunto recandosi ad una riunione della commissione). La  situazione di emergenza determinata dall’incisiva azione delle forze dell’ordine e della magistratura ha portato  all’abbandono di questo modulo organizzativo, concentrando la leadership in un nucleo ristretto di capi,  per lo più latitanti, coagulati intorno a Bernardo Provenzano. Questa specie di “governo provvisorio”, oltre ai soliti compiti del vertice di “Cosa nostra” (la risoluzione dei conflitti d’interesse legati alla spartizione dei profitti e alla regolazione degli appalti che si svolgano su territori appartenenti a famiglie diverse ecc.), deve svolgere un’altra difficile funzione, quella di conciliare le esigenze dei mafiosi detenuti con quelle dei mafiosi in libertà.  Questione decisiva per l’ordinato e prospero futuro di “Cosa nostra”, ma assai complessa, poiché entrano in gioco fattori estranei all’organizzazione ( l’intensità dell’azione repressiva dello stato,  il clima socio-politico contingente e più in generale l’atteggiamento dell’opinione pubblica),  fattori che possono influire su eventuali provvedimenti legislativi o amministrativi capaci di lenire il problema costituito dai mafiosi detenuti.
L’obiettivo “tradizionale”, che periodicamente si ripresenta, è di ottenere la revisione dei processi.  Una legge che facesse ai mafiosi un regalo così sfacciato non è proponibile: il “revisionismo” che accompagna l’inabissamento della mafia  consente qualche audacia sul tema della convivenza con la mafia, non  ancora la negazione dei delitti, spesso feroci, su cui la mafia ha costruito il suo potere. Ecco allora l’obiettivo di benefici (attenuazione delle pene o del regime carcerario; salvaguardia dei patrimoni) che si vorrebbero ricollegare ad una sorta di dissociazione,  ad una condotta che interessa soprattutto definire per esclusione: nel senso che tutto potrà essere, purchè resti  assolutamente esclusa ogni forma di pentimento o collaborazione, così da evitare che l’organizzazione subisca dei danni.
Si conoscono i tentativi di  vari mafiosi detenuti di riunirsi in carcere per verificare l’estensione del consenso ad un simile progetto. Anche la lettera di Aglieri sembra muoversi lungo quest’orbita. Un dato di fatto certo è che i capi di “Cosa nostra” ( sicuramente dotati di un’intelligenza criminale non comune)  sanno bene che le forze dell’ordine e la magistratura sono contrarie ad ogni ipotesi di dissociazione; sanno bene che questa ostilità creerebbe polemiche forse insuperabili; conseguentemente cercano di creare nell’opinione pubblica un clima nuovo, facendo professione di un incontenibile desiderio di pace basato sul riconoscimento della propria sconfitta e addirittura sulla promessa di sciogliere l’organizzazione. Un progetto ben studiato, che consentirebbe a “Cosa nostra” di risolvere i suoi problemi interni e di consolidarsi. Un disegno sapiente, mirato al completamento della propria ristrutturazione passando per lo scioglimento del nodo dei rapporti fra mafiosi liberi e detenuti. In realtà, uno specchietto per le allodole: perché è falso che “Cosa nostra” sia o si consideri sconfitta. Le indagini, anche le più recenti, dimostrano che il controllo mafioso del territorio  è costante ed efficacissimo. Com’è asfissiante l’interessamento per gli appalti (basta leggere le cronache del recentissimo arresto di Giuffrè per convincersene). L’umile presa d’atto di una sconfitta epocale, in altre parole, è un trucco da illusionisti, che avrebbe come effetto finale un rafforzamento di “Cosa nostra”, altro che la sua fine!  Con uno strascico piuttosto cupo: se dovesse fallire il progetto in cui sono attualmente impegnati vari mafiosi detenuti ed il “governo provvisorio” dell’organizzazione, allora potrebbero aprirsi scenari di crisi assai incerti. Un motivo in più per rivedere la decisione  del Ministero degli Interni di ridurre la protezione di vari magistrati ed esponenti della società civile impegnati in attività antimafia.

*Magistrato


ANTIMAFIADuemila N°22 Maggio 2002

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