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Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.


Quindicesima  parte

di Alfonso Sabella*

La trattativa probabilmente è un’ipotesi che Cosa Nostra non ha mai accantonato. Cosa Nostra, e questo può considerarsi un dato acquisito, a un certo punto decide di sferrare un attacco senza precedenti allo Stato. La “Mafia moderata”, la mafia di Bontade è la mafia che ha fatto la strage di Ciaculli, nella quale morirono sette carabinieri, la mafia nell’ambito della quale si era consumata la strage di Viale Lazio, altre cinque persone uccise, la strage di Piazza Scaffa e così via. Quando nel 1992 Cosa Nostra decide di sferrare un attacco senza precedenti allo Stato, l’elemento scatenante verosimilmente è la conclusione del Maxi Processo, fortemente voluto da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino contro tutto e contro tutti in quel periodo, con degli strumenti “artigianali”, senza una legislazione sui collaboratori di giustizia, con sistemi investigativi che andavano inventati. E in questo sono stati veramente grandi perché Falcone e Borsellino hanno inventato un nuovo modo di aggredire la mafia. E’ vero che noi, come Italia, abbiamo esportato anche la mafia, ma abbiamo esportato anche l’antimafia. Gli americani hanno imparato da noi come sconfiggere le associazioni criminali organizzate. Purtroppo però il nostro è un Paese un po’ particolare, un Paese realmente strano, non tanto perché non impara dai propri errori, ma soprattutto perché non impara dai propri successi. Penso alla legislazione sui pentiti. La ragazza che ha presentato questo incontro ha detto tante belle parole su cosa era successo negli anni dopo il ‘92/‘93, dopo lo stimolo dell’85/ ‘86, però non ha detto quello che è successo nell’ultimo periodo, quello che poi in concreto avviene adesso. Noi abbiamo una legislazione che è diventata una legislazione penale, una procedura penale che è diventata un “percorso a ostacoli”. Adesso chi è difeso bene, chi può pagarsi degli avvocati bravi può sfuggire realmente al processo penale. Ci sono tante di quelle “insidie”. Ci sono dei processi molto famosi. Basterebbe sfogliare le cronache dei giornali degli ultimi giorni per capire a cosa mi riferisco. Chiunque può sfuggire realmente alla sanzione penale, perché in tutto questo c’è stata una logica, una ricerca esasperata del garantismo. Ritengo che il garantismo vada riconosciuto a tutti, agli imputati principalmente, però molto spesso si dimenticano le persone offese. Le legislazioni attuali non tengono conto della necessità di tutelare anche le persone offese dai reati. Il “garantismo a senso unico” non mi sta bene. Il nostro codice di procedura penale contiene una norma, l’art. 192 comma 2 cpp: se ci sono due dichiarazioni, sostanzialmente di due pentiti, che dicono che io sono mafioso e c’è la prova che questi due pentiti non sono stati inquinati e non hanno motivo di dire il falso su di me, queste dichiarazioni acquistano valore probatorio. Fino a qualche tempo fa in Parlamento c’era una battaglia senza precedenti che attraversava tutte le forze politiche per abolire questo art. 192. <<Una norma iniqua>>, <<una norma indegna di un Paese civile, perché un Paese civile è un Paese garantista e non può permettersi una norma come il 192. Due dichiarazioni di due infami che fanno condannare stimati galantuomini…>>. Questo lo dicevano avvocati parlamentari e parlamentari non avvocati di tutte le forze politiche, soprattutto quelle appartenenti a un certo schieramento politico che ha fatto del garantismo e dell’attacco alla magistratura una parte fondamentale del proprio programma politico. Orbene di questa battaglia di civiltà non se ne parla più e allora io mi chiedo: <<Questi garantisti si sono dimenticati di questo obbrobbrio?>>. Una norma fortemente voluta da Giovanni Falcone che ci ha consentito di arrestare centinaia di mafiosi, far condannare centinaia di delinquenti per delitti gravissimi, omicidi, stragi e via dicendo. A me sta venendo un piccolo sospetto, un legittimo sospetto e cioè che abolire questa norma non serva più a chi interessava: ai mafiosi e a esponenti della classe politica imprenditoriale. Adesso se ci sono due marocchini, due extracomunitari “dimenticati”, che accusano un terzo marocchino di aver venduto loro l’hashish che poi sono andati a spacciare, questo terzo marocchino viene condannato. Il 192 c’è! Ma adesso non ci sono più due imprenditori che accusano un terzo imprenditore di essersi preso pure lui le mazzette, perché con tutte le riforme che ci sono state nel codice di procedura penale questi imprenditori non arrivano più al dibattimento, perché uno patteggia la sua situazione e si può avvalere della facoltà di non rispondere in dibattimento. Quindi i pentiti non sono più un problema, perché c’è una riforma della legge dei pentiti che di fatto ha bloccato le nuove collaborazioni che ora sono contate e non sono “di livello”. Quando i collaboratori di giustizia sono “di livello” stanno anche attenti a quello che devono dire. La nuova legge sui pentiti approvata all’unanimità dal Parlamento prevede che chi si pente passi dalla sua cella, dove si trova a scontare 20 anni di galera insieme ai suoi complici, immediatamente in isolamento, 6 mesi di isolamento chiuso in una cella da solo. Tutti i suoi beni, anche quelli che gli ha lasciato il nonno o quelli che gli ha lasciato lo zio della moglie che magari era un maresciallo dei carabinieri, una persona perbene, anche quelli vengano confiscati, li deve dare allo Stato. Chi si pente adesso? Noi eravamo in possesso di una legge sui pentiti che ha avuto dei risultati eccezionali. A differenza dell’America dove ammazzano tre o quattro pentiti all’anno, in Italia nessun collaboratore di giustizia ha avuto torto un capello. La legge ha funzionato. Invece di prendere atto di questo, di un’ ottima legge, del fatto che abbiamo trovato degli strumenti più o meno “artigianali” dovuti all’inventiva italica, all’iniziativa, ma che hanno funzionato, smantelliamo tutto sull’onda di un garantismo di cui non si capisce chi deve andare a tutelare. Mi sono procurato le ire di un Ministro della Giustizia in pectore (poi non lo è più diventato), il quale disse che una volta che sarebbe diventato Ministro avrebbe intrapreso un’azione disciplinare nei miei confronti. Tutto questo perché a conclusione di una sentenza, di un’assoluzione eccellente a Palermo, dissi che con gli strumenti attuali se noi fossimo andati a giudicare il Maxi Processo, oggi sarebbero stati tutti assolti. Ve lo assicuro, in quel processo, rispetto alla mole di elementi probatori che portiamo adesso al dibattimento, non c’era assolutamente nulla. Nel primo grado del Maxi Processo c’erano le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, dichiarazioni qualche volta riscontrate e non in tutti i casi da quelle di Salvatore Contorno, e accertamenti bancari minuziosi (che per l’epoca erano dei veri miracoli) in cui Buscetta diceva: <<Questo è mafioso, quell’altro è mafioso>>. Falcone aveva trovato che questi personaggi incautamente si erano scambiati un assegno, quindi si conoscevano. Non vi dico le difficoltà che hanno avuto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli altri del Pool a trovare questi piccoli elementi di riscontro. Nulla rispetto a quello che portiamo adesso, eppure sono stati condannati. Vi assicuro che non sono stati condannati degli innocenti, perché gli unici due che sono stati assolti sono stati ammazzati appena usciti dall’Ucciardone, quindi tanto bravi non dovevano essere. Che cosa è successo quindi nel ‘92? Il biennio ‘92/‘93 è stato importantissimo, ha cambiato probabilmente la faccia del nostro Stato, ha cambiato la storia, il futuro del nostro Stato. Si parla di una “trattativa”. La trattativa sarebbe stata, secondo quello che dicono alcuni collaboratori di giustizia e secondo quello che si è riscontrato da alcune prove documentali, un “contatto” fra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni per dire: <<Che cosa volete per far finire queste stragi?>> E questa sarebbe la prima parte della trattativa. In queste logiche ognuno avanza le interpretazioni che vuole. Ci sono degli elementi di prova più o meno concreti su un fatto di cui preferisco non parlare. Qualcuno scrive anche la possibilità che di lì si siano andate a realizzare le stesse stragi e che queste stragi siano state in qualche modo finalizzate a far nascere un nuovo ceto politico. Si tratta di ipotesi investigative, anche se in qualche sentenza qualche pezzo di questa verità è scritta. Dopo la strage di Via d’Amelio lo Stato mostra la sua faccia dura, la sua faccia repressiva, viene approvato il 41 bis comma 2 dell’ordinamento penitenziario, il quale prevede che coloro che abbiano rivestito un ruolo di rilievo nell’organizzazione vengano isolati dalla restante popolazione penitenziaria, vengano messi in celle possibilmente singole e che comunque abbiano un numero di colloqui limitati, una ricezione di pacchi dall’esterno limitata. Norme che hanno una ratio, una ragione vera e propria. Il fatto di limitare il numero dei pacchi di cui un detenuto può godere fa in modo di evitare che a quel detenuto arrivino aragoste e champagne e che quindi possa mostrare il suo potere all’interno del carcere. Non è quindi una violazione così elevata dei diritti del condannato. Il numero dei colloqui è ridotto a uno. In una delle ultime indagini che ho condotto a Palermo abbiamo intercettato dei colloqui in carcere in cui il capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano, aveva detto a Ciccio Tagliavia che godeva di quattro colloqui al mese e si avvaleva dei suoi familiari per gestirsi le estorsioni: <<Io ho un solo colloquio al mese. Non posso gestire con un solo colloquio le estorsioni nel mio territorio e quindi te le gestisci tu>>. Limitare il numero dei colloqui rappresenta un mezzo con cui lo Stato si può autotutelare. Il 41 bis, prima norma che viene introdotta, viene di fatto applicata in maniera pressante, effettiva, efficace.
La legislazione premiale sui pentiti. I pentiti godevano di alcuni sconti di pena, avevano l’interesse a dissociarsi. Quando si parla di pentiti, se si considera l’approccio etico, significa che: <<Tu Stato ti servi di un infame per arrestare altre persone>>, una brutta cosa. Ma con l’approccio più laico e molto più pratico si dice: <<Io Stato devo andare a combattere un’associazione che è segreta. Se non c’è qualcuno che questi segreti me li svela dall’interno io non proverò mai che questa associazione esiste e che di questa associazione Tizio, Caio, Sempronio fanno parte>>. Quindi è per me indispensabile il ricorso ai pentiti. Avete sentito Giovanni Falcone cosa pensava dei collaboratori di giustizia. Questo primo periodo ha avuto risultati eccezionali, sebbene alcuni mezzi di informazione abbiano descritto gli anni di Caselli a Palermo come degli anni in cui sono stati allestiti dei processi ai politici che si sono conclusi per lo più con delle assoluzioni. Gli anni di Caselli e di quelli che con lui hanno lavorato a Palermo sono stati degli anni straordinari, anni in cui abbiamo scoperto tutti gli omicidi di mafia che erano stati commessi a Palermo. Tutti lavoravamo in tempo reale. Nel momento in cui qualcuno stava per essere ammazzato molto spesso riuscivamo a salvargli la vita, impedendo che questo avvenisse. Quando non ci riuscivamo, un quarto d’ora dopo arrestavamo il responsabile. Fino al ‘98 è stato così. Abbiamo catturato, ad eccezione di Bernardo Provenzano e di Matteo Messina Denaro, tutti i latitanti che c’erano a Palermo. Abbiamo arrestato Brusca, Aglieri, Riina, Vitale, Gustella, Cuntrera, Cannella, i Ganci, Farinella, i Lucchese, una lista infinita di latitanti arrestati, tutti capi mandamento, tutti componenti dell’organo di vertice di Cosa Nostra, oltre poi a una serie di “pesci piccoli”. Abbiamo arrestato tutti i responsabili materiali delle stragi di Capaci, di Via d’Amelio, di Via dei Georgofili, di Roma, di Milano. Li abbiamo presi tutti, non è scappato nessuno. Tutto questo grazie a un impegno enorme da parte dello Stato. Ricordo che nel 1996 avevamo problemi grossi a localizzare Brusca, lo intercettavamo ma non sapevamo dove fosse perché aveva un telefono cellulare GSM, all’epoca poco diffuso. I nostri strumenti si fermavano a 1km e ½ quadrato. Sapevamo che era vicino ad Agrigento, a San Leone, località Cannatello, ma 1 km e ½ quadrato significava 200 villette, praticamente non potevamo intervenire l’intervento rischiando che scappasse un’altra volta. Contattammo degli ingegneri che ci dissero che la British Telecom disponeva di un apparecchio che, forse, con certe modifiche poteva funzionare in Italia e ridurre il margine a circa 200 metri quadrati, che per noi significava un margine eccezionale su cui poter intervenire. Il problema era che l’apparecchio in questione non veniva noleggiato, ma unicamente venduto al prezzo di 1 miliardo e 300 milioni. A quel punto la Procura di Palermo  doveva comprare un’apparecchio che costava 1 miliardo e 300 milioni senza avere la certezza che funzionasse in Italia. Alzai il telefono, chiamai un sottosegretario dell’epoca spiegandogli la possibilità che si prospettava e questi immediatamente mi diede la disponibilità ad acquistarlo. Alla fine non è servito comprarlo perché lo abbiamo arrestato in un altro modo, ma tutto ciò è indicativo di quello che era l’apporto che avevamo a Palermo. L’anno successivo le cose erano già cambiate. Il 6 giugno del 1997 dopo una lunga indagine riuscii ad arrestare Pietro Aglieri, all’epoca considerato, forse a torto, il numero due di Cosa Nostra, arrestato con un’indagine che era durata 8 mesi di intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti, microspie, senza collaboratori di giustizia, a parte un’indicazione di massima di Giovanni Brusca su cui poi ci si era mossi. La squadra mobile di Palermo aveva appena arrestato Pietro Aglieri che io mi trovai sul mio tavolo una nota con cui il procuratore mi diceva di preparare la risposta a un’interrogazione parlamentare con cui mi si chiedeva quanto spendevamo di intercettazioni telefoniche a Palermo. I pentiti non andavano bene perché infami, le intercettazioni non andavano bene perché costose, le forze di polizia non le potevi distrarre dall’indagare sui piccoli furtarelli che purtroppo capitavano… Come dovevamo lavorare? Quando Cosa Nostra capisce che è un “momentaccio” e teme che sia l’inizio della fine (così come diceva Falcone: come tutti i fenomeni umani anche Cosa Nostra avrebbe avuto un inizio e una fine), prova la strada della dissociazione, una strada che i mafiosi pensano di poter percorrere dicendo: <<Io mafioso dico a te Stato: sono stato colpevole. Non accuso nessuno però mi dai i benefici carcerari>> e in tutto questo devono “trattare” con lo Stato. Questa operazione viene verosimilmente avallata dai vertici mafiosi, non è più un pentimento, non è più un disonore. All’inizio la mafia non poteva riconoscere lo Stato, mentre mediante la dissociazione i mafiosi avevano l’interesse di raggiungere degli obiettivi e per questo volevano trattare con lo Stato. Verosimilmente dei contatti ci sono stati. Io sono una “vittima” della dissociazione perché ero capo dell’ufficio ispettorato delle carceri ed a un certo punto denuncio un tentativo in cui i mafiosi volevano trattare con lo Stato. Lo stesso giorno il Ministro della Giustizia sopprime il mio ufficio ed io  vengo mandato via.
Cosa Nostra dopo la prima fase in cui ha avuto una spaccatura verticale dividendosi in due tronconi, quella che impropriamente veniva chiamata dei “moderati” e quella degli stragisti, oggi presenta una divisione orizzontale tra chi è in carcere e chi sta fuori. Chi sta fuori sta bene, non ha il minimo problema, è sommerso, perché non si fa vedere, fa i suoi affari, si ingrassa con gli appalti, con la droga, con i traffici illeciti, con i rifiuti tossici e così via. In tutto questo chi sta fuori ha stretto i suoi rapporti a livello politico, a livello imprenditoriale, a livello amministrativo. Il problema è dei mafiosi detenuti. Per questi io credo che la trattativa sia ancora in corso perché ritengo che queste persone non possano aver accettato di passare la loro vita all’ergastolo mentre i loro complici fanno i signori fuori senza nemmeno avere il problema di essere latitanti e doversi nascondere. Questo per un motivo di carattere logico e probatorio. Ritengo che ci siano elementi per dire che fino a tempi recentissimi mafiosi di assoluto vertice hanno cercato di stabilire contatti con pezzi importanti dello Stato al fine di avviare un miglioramento della loro posizione carceraria, verosimilmente con una prospettiva più a lungo termine che prevede innanzitutto lo svuotamento in termini di applicazione pratica del 41 bis e soprattutto, quello che è l’obiettivo principale, la revisione dei processi. In questa logica la modifica dell’art. 192 potrebbe essere veramente il cavallo di Troia, nel senso che modificando delle regole processuali i signori mafiosi potrebbero dire: <<Voi siccome oggi non potete più condannarmi – del resto girano anche dei documenti di questo tipo nelle carceri – dovete rivedere il mio processo e assolvermi>>. A questo spero che non si arrivi mai, ma temo che qualcuno si stia muovendo in questa direzione.


*Relazione integrale del sostituto procuratore Alfonso Sabella al convegno “Il potere e la mafia”, Festa dell’Unità, Galeata (FC), 27.07.2003.


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