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Brano tratto dal libro “Giovanni Falcone: interventi e proposte. 1982-1992” a cura della fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”, (ed. Sansoni)
di Giovanni Falcone

Ho accettato con grande piacere l’invito a discutere con voi in termini operativi dei problemi riguardanti la repressione del fenomeno mafioso. Devo subito avvertire che ricette miracolose per risolvere questioni di tale gravità non ve ne sono. C’è, invece, la consapevolezza della necessità di un impegno difficile e protratto nel tempo, che sarà sicuramente avaro di soddisfazioni nel breve termine. E’ questa l’unica via per cercare di porre un argine a una criminalità organizzata ormai dilagante, come purtroppo era facile prevedere e come era stato ampiamente previsto. Ma chi lo ha affermato, in passato, è stato subito tacciato di eccessivo allarmismo. Ora è inutile piangere sul latte versato, ma cerchiamo almeno di non versarne dell’altro. Ogni volta che inizio a parlare di questi argomenti avverto un senso di disorientamento, perché le numerose questioni da affrontare mi si affollano alla mente contemporaneamente, ed è veramente difficile dare un ordine logico stabilendo delle priorità. Perciò mi scuso fin d’ora se non sarò sufficientemente chiaro ed esaustivo. Quando si parla di criminalità organizzata, in Italia, ormai sappiamo tutti a cosa ci si vuol riferire: camorra, ‘ndrangheta, mafia. Purtroppo, però, sta accadendo che, soprattutto a livello internazionale, si tenda a privilegiare un concetto di mafia troppo generico, in sé non scorretto, ma che non aiuta certo a comprendere la specificità del fenomeno di cui in questa sede ci stiamo occupando. Sento parlare assai spesso di mafia turca, di mafia cinese, di mafia giapponese. Un giorno mi è capitato di discutere con un collega russo che parlava di mafia sovietica; poi ci siamo resi conto che, in realtà, i fenomeni di cui egli parlava riguardavano problemi di corruzione organizzata a livello governativo. Indubbiamente anche questi sono problemi di criminalità organizzata, ma se li qualifichiamo come mafia corriamo il rischio di dare a questo termine una accezione così ampia  da svalutarne la portata e il significato. Sia la camorra, sia la ‘ndrangheta, sia Cosa nostra hanno una caratteristica comune e, in tal senso, possono dirsi “organizzazioni di tipo mafioso”; hanno in comune l’uso del metodo mafioso, della intimidazione, della violenza, con conseguente situazione di assoggettamento e di omertà, secondo il paradigma dell’art. 416 bis del codice penale. Altra caratteristica comune alle tre organizzazioni è di disporre del controllo del territorio, così determinando un pesante condizionamento delle attività socioeconomiche di una determinata zona; un condizionamento che ha inevitabili riflessi politici sia sotto l’aspetto elettorale sia per quel che concerne l’erogazione della spesa pubblica. Quando si avvertiva che questo condizionamento avrebbe inevitabilmente prodotto risultati nefasti per l’imprenditorialità e per la trasparenza delle amministrazioni locali, si faceva una facile previsione. Adesso assistiamo alle uccisioni  sempre più frequenti di imprenditori e di amministratori, ad amministrazioni locali condizionate in modo sempre più diretto dalle organizzazioni mafiose, ad una situazione di sfascio tale che non ci si può più meravigliare quando si parla di Antistato, come ha fatto il prefetto Parisi, proprio in questa Scuola, qualche anno fa. Il capo della polizia fu accusato, allora, di destare eccessivo allarmismo; oggi si riconosce che parlare di Antistato è forse persino riduttivo. Tutto questo lo dico non per alimentare polemiche, ma perché ci si renda conto della gravità e della complessità dei problemi con cui ci si deve confrontare. Ma torniamo al nostro discorso. Abbiamo individuato le caratteristiche comuni alle tre organizzazioni: metodo mafioso e riferimento al territorio, e ad esse può aggiungersi, come ulteriore elemento caratterizzante, l’inserimento più o meno profondo nel tessuto sociale, nel senso che dette organizzazioni apparentemente agiscono sulla base di princìpi, ovviamente distorcendoli, accettati dal contesto sociale in cui operano, godendo del consenso, più o meno interessato, della popolazione. Ma al di là di queste notazioni comuni si è subito avvertito che siamo in presenza di organizzazioni che per struttura e per dinamiche sono profondamente diverse l’una dall’altra. Mentre la mafia siciliana è unica e unitaria, le altre organizzazioni (nonostante il tentativo di Raffaele Cutolo, agli inizi degli anni Ottanta, di dare alla camorra una organizzazione di tipo federativo) sono costituite da una miriade di piccole organizzazioni, principalmente su base locale, in perenne lotta l’una contro l’altra, anche se, di tanto in tanto, in ciascuna di queste famiglie emerge il personaggio di spicco che per influenza e carisma riesce ad influenzare, in un territorio abbastanza vasto, le attività di altri gruppi di malavitosi. Per Cosa nostra (è questo il vero nome della mafia siciliana) il discorso è diverso. Il comune sentimento mafioso, la comune fratellanza si sono tradotti ormai da tempo in un patto federativo, che regola una organizzazione con strutture e dinamiche unitarie. Ciò è stato disconosciuto fino a tempi recenti, ma alla fine, nonostante l’abitudine di molti a valutare i fenomeni secondo schemi mentali preconcetti, si è dovuto ammettere la fondatezza di queste affermazioni. Mi spiego meglio. Non è che le famiglie locali di Cosa nostra non abbiano una loro autonomia, né tanto meno che non vi siano contrasti, spesso sanguinosi, all’interno dell’organizzazione. Ma questi contrasti, questi dinamismi interni vengono comunque risolti attraverso regole per la risoluzione dei conflitti, che potremmo, senza timore di essere fraintesi, paragonare alle regole che il diritto internazionale prevede per il tempo di guerra. Tutte quelle che all’esterno appaiono come esplosioni violente e incontrollate di faide fra bande, in realtà sono questioni che vengono risolte sulla base di regole predeterminate e che vengono fatte rispettare con ferrea determinazione. E proprio la sua capacità di fare rispettare le regole rende Cosa nostra ancora più pericolosa delle altre organizzazioni, di per sé pericolosissime. Ecco il motivo principale per cui la mafia siciliana è stata, ed è tuttora, l’organizzazione più difficile da individuare e perseguire. Conosciamo anche la struttura della camorra della ‘ndrangheta, ma è forse meno chiaro il rapporto intercorrente tra le tre organizzazioni. Esse non vanno considerate, infatti, come fossero rigidamente separate l’una dall’altra. Già nel passato certi accadimenti, che sembravano incomprensibili, hanno poi trovato una spiegazione in dinamiche comuni a queste diverse realtà criminali. Per esempio, mentre si discuteva ancora addirittura se la mafia esistesse, già da tempo Cosa nostra aveva insediato sue “famiglie” in territori non siciliani: una famiglia a Napoli, più famiglie in Campania, altre famiglie a Roma, a Torino, a Milano, in Francia, in Germania, in Tunisia. Negli Stati Uniti Cosa nostra americana non è stata altro in origine che una diretta filiazione di Cosa nostra siciliana, anche se in seguito ha raggiunto una sua autonomia, per cui adesso possiamo ritenere che si tratti di due organizzazioni autonome e distinte, pur se con stretti rapporti di collaborazione. Per un certo periodo, ad esempio, è stata possibile una rigida regolamentazione del contrabbando dei tabacchi a  Napoli, perché Cosa nostra, avvalendosi di una potentissima e allora sconosciuta “famiglia” operante nel capoluogo campano, ha dapprima fomentato le divisioni locali, provocando l’estromissione delle bande marsigliesi dall’area del contrabbando, quindi ha imposto (si badi bene, su richiesta delle organizzazioni camorristiche locali!) una precisa regolamentazione degli sbarchi nel Napoletano. Si è così determinato, da un lato, il completo e rigido controllo mafioso di una zona importantissima come Napoli e, dall’altro, l’inserimento del contrabbando dei tabacchi fra le attività specifiche di Cosa nostra. I vertici del contrabbando, così, non sono più stati di estrazione camorristica, ma mafiosa. Ciò è stato spiegato, in un’ottica giuridica, dalla Suprema Corte come la possibilità che più persone appartengano, contemporaneamente, a più organizzazioni, cioè sia alla camorra che a Cosa nostra. Ma non è questo il problema. A me interessava richiamare questo esempio per tutta una serie di considerazioni. La prima è che certi fatti, come il contrabbando, che l’opinione corrente, talora anche a livello istituzionale e politico, valuta in modo benevolo, in realtà hanno una connotazione ed una valenza criminale molto più grave se si considerano con l’occhio rivolto alle organizzazioni che dirigono queste attività. Per lunghi anni si è ritenuto che il contrabbando dei tabacchi pregiudicasse, tutto sommato, esclusivamente l’interesse finanziario dello Stato; lo si è visto come un fenomeno avente una minore valenza criminale e, pertanto, lo si è tollerato come minore male rispetto ad una generale situazione di degrado e di sottosviluppo economico. In realtà il contrabbando di tabacchi è stato utilizzato, da un lato, per l’acquisizione di notevoli guadagni, ampiamente utilizzati poi per l’ingresso nel traffico internazionale degli stupefacenti, dall’altro, per consentire alle organizzazioni mafiose siciliane di espandere la loro sfera di influenza all’estero. I contatti, come ad esempio quelli con la marineria greca, che poi hanno portato alla cosiddetta rotta balcanica, hanno origine in buona parte nel contrabbando dei tabacchi, all’inizio degli anni Settanta.
Alcuni “pentiti” di mafia hanno perfino indicato i personaggi che queste nuove vie hanno aperto: i vari Nunzio La Mattina, Giuseppe Savoca, Antonino Rotolo ed altri. Chi si occupa di repressione del traffico di stupefacenti sa bene che, grazie all’attività di contrasto alla mafia siciliana, si è ottenuto l’effetto di far diminuire in modo consistente il traffico di stupefacenti dalla Sicilia agli Usa. Secondo le stime americane, tale canale, che una volta alimentava circa il 30% del mercato statunitense dell’eroina, si sarebbe oggi ridotto a circa il 5%. Si tratta, senza dubbio, di stime difficilmente controllabili, ma un dato è sicuro: la quantità globale dell’eroina introdotta negli Stati Uniti non è diminuita apprezzabilmente, nonostante il pur notevole incremento, registrato negli ultimi anni, del consumo di cocaina. E risulta che le altre organizzazioni, diverse da Cosa nostra, che si occupano del traffico internazionale dell’eroina hanno notevolmente incrementato il volume delle vendite di tale droga negli Stati Uniti. Ciò vuol dire che è diminuito il traffico internazionale degli stupefacenti direttamente collegato alla raffinazione dell’eroina in Sicilia, anche se non credo che sia apprezzabilmente diminuita la presenza di organizzazioni mafiose siciliane nel traffico degli stupefacenti. Negli Usa, infatti, se i siciliani non detengono più il pieno monopolio dello smercio di eroina, sicuramente ne sono oligopolisti. Il dubbio può sussistere, al massimo, sulla circostanza se si tratti di siciliani appartenenti a Cosa nostra americana oppure a Cosa nostra siciliana. Altro problema è quello dei rapporti tra commercio di eroina e commercio di cocaina. Anche in questo caso soffriamo dei consueti pregiudizi: della cocaina - si dice  - non si occupa la mafia siciliana perché il mercato è controllato dalla camorra napoletana o dalla ‘ndrangheta. Secondo me le cose non stanno proprio in questo modo. Dalle ultime indagini, infatti, emerge un collegamento sempre più stretto tra i due mercati ed un coinvolgimento sempre più significativo dei mafiosi siciliani. E’ ancora troppo presto per dire in che misura tale collegamento si sia realizzato, ma sembra che i due mercati si vadano sempre più sovrapponendo, soprattutto attraverso il sistema del baratto tra partite dei due tipi di stupefacenti nei luoghi di produzione. Ciò comporta inevitabilmente contatti sempre più frequenti fra organizzazioni criminali appartenenti a realtà diverse, fatto la cui pericolosità è facile intuire. Altra fonte di notevoli guadagni per Cosa nostra è il controllo dei pubblici appalti, o meglio il controllo dell’erogazione della spesa pubblica in sede locale, e, più in generale, delle attività imprenditoriali di qualsivoglia natura, purché produttive di congruo reddito. Non si tratta certamente di fenomeni che sono sorti da un giorno all’altro. Da numerose indagini, anche abbastanza recenti, è emersa, però, una realtà molto grave: in determinate zone del territorio nazionale l’erogazione della spesa pubblica è puntualmente controllata dalle organizzazioni mafiose. Una situazione che è all’attenzione della pubblica opinione soltanto da poco tempo, ma che, secondo me, non è ancora stata presa nella dovuta considerazione. Sono stati necessari i primi morti fra gli imprenditori per rendersi conto di quanto il fenomeno fosse ormai generalizzato. E, del resto, era facile prevedere che le attività più squisitamente criminali, come il contrabbando, le estorsioni, il traffico di stupefacenti, in quanto produttive di ricchezza, avrebbero comportato il reinvestimento di tali proventi in attività lecite, con l’inserimento di personaggi di estrazione mafiosa nel circuito imprenditoriale legale. Si tratta di un fenomeno che già negli anni Ottanta era stato individuato da Pino Arlacchi nel suo noto libro sull’imprenditoria mafiosa. Spesso parliamo di condizionamento mafioso dei pubblici appalti, ma forse non ci si rende ancora conto di come questa realtà sia l’espressione più chiara dello strapotere della mafia nelle zone in cui impera. Spesso si obietta infatti che analoghi fenomeni di corruzione, volti ad orientare le gare di appalto verso un imprenditore anziché un altro, avvengono in tutto il territorio italiano - e ciò è la conseguenza dello scadimento generale del costume - , ma che detti fenomeni non possono qualificarsi come manifestazioni di criminalità organizzata. Non si tiene conto, però, della specificità che tali fenomeni assumono in determinate zone del nostro territorio. Vorrei che fosse chiaro che il condizionamento dell’erogazione della spesa pubblica avviene sia a monte che a valle. A monte, attraverso l’organizzazione di una fitta rete che consente a certi personaggi, appartenenti alla criminalità organizzata, di poter stabilire, con assoluta certezza, a chi debbano essere aggiudicati determinati appalti. Ciò ovviamente si ottiene condizionando, da un lato, il potere politico e, dall’altro, attraverso un’azione di intimidazione dell’imprenditoria. La realtà, lo ripeto, è agghiacciante. Non è importante stabilire a chi appartenga una determinata impresa, se essa sia siciliana, calabrese, francese o tedesca; chiunque intenda lavorare  in determinate zone deve sottostare a precise condizioni. E’ questo l’aspetto assolutamente tipico e specifico del controllo mafioso del territorio: la possibilità di riuscire a determinare che certi fatti avvengano in base ad un piano preordinato. Pasquale Costanzo, uno dei più grossi imprenditori siciliani, fondatamente sospettato di connivenze con la mafia, riferì che il suo primo approccio con questa realtà lo ebbe con la famiglia Minore, a Trapani. Negli anni Settanta, quando Costanzo cominciò a lavorare nel Trapanese, nessuno lo conosceva. Però, quando per la prima volta entrò, da solo, in un bar di Marsala per consumare un caffè, la cassiera che non lo aveva mai visto prima, gli disse che “era tutto pagato”. Faccio questo esempio non per un richiamo di vago sapore folcloristico, ma perché ci si renda conto di come sia incisivo il condizionamento mafioso sul singolo individuo, e di come questi possa rimanerne coinvolto. Un condizionamento, dicevo, che si esplica in un primo tempo a monte, nella fase della aggiudicazione degli appalti. Ma che si realizza anche, in maniera strettamente complementare, a valle, nella fase della esecuzione degli appalti. Quel parassitismo mafioso di cui parlavano gli storici della mafia, che si concretizzava soprattutto nelle guardianie, cioè nella imposizione da parte del mafioso locale di un determinato guardiano ai cantieri, è una realtà superata da un pezzo. Adesso chi realizza le opere pubbliche nel Mezzogiorno d’Italia sa perfettamente che per i subappalti, per le forniture, per tutto ciò che attiene alle esigenze di un determinato cantiere, dovrà seguire pedissequamente le indicazioni dell’organizzazione mafiosa locale. E spesso ciò  non lo esime del tutto da pericoli, perché se in una determinata zona il potere mafioso locale non è ancora completamente consolidato, egli corre il rischio di subire rappresaglie da parte di altre organizzazioni. Posso dire anzi che il controllo mafioso nei confronti di determinate imprese, e soprattutto delle imprese più grandi, costituisce spesso uno dei motivi per l’esplosione di sanguinose faide.
Negli anni Settanta la realizzazione da parte dell’impresa Graci della diga sul fiume Olivo, nella provincia di Enna, determinò una serie impressionante di omicidi. Era accaduto che una “famiglia” locale, non appartenente a Cosa nostra, pretendeva di imporre propri fornitori e propri subappaltatori all’impresa che, invece, era sotto la tutela di Cosa nostra. Dalle statistiche degli omicidi si rileva che attualmente la zona di Palermo è quella dove accade il minor numero di delitti; anzi le uccisioni che sono accadute recentemente, a mio parere, rispondono ad una logica di eliminazione di rami secchi. Contrariamente a quello che si pensa, infatti, il potere mafioso è massimo proprio dove minori sono le sue manifestazioni esterne, dove cioè apparentemente la vita si svolge in piena tranquillità. Cosa nostra è stata capace, nei due anni in cui si è celebrato il maxiprocesso, di far dimenticare la sua presenza a Palermo: tant’è che l’allora ministro degli interni, il sen. Fanfani, in occasione di una visita nel capoluogo , ebbe a dire che il problema della mafia non era quello prioritario dell’ordine pubblico in Italia. Ebbene, dopo poche ore dalla sentenza di primo grado il 16 dicembre 1987, incominciarono le esecuzioni con la uccisione di un mafioso appena scarcerato. Siamo allora in presenza - e mi avvio rapidamente alla conclusione - di una realtà estremamente composita ed allarmante, di fronte alla quale è davvero arduo stabilire quale sia la migliore strategia di contrasto. Ma un dato mi sembra certo, e sono sicuro che questo concetto verrà meglio in evidenza dal dibattito che seguirà: non può esservi una strategia complessiva di contrasto che non sia l’espressione di un piano organico di interventi. E se non si avranno le idee chiare non saremo capaci di stabilire le priorità. A questo proposito mi sembra significativo il tema della cattura dei latitanti. Quante volte, in questi ultimi anni, abbiamo sentito dire che il vero problema è la cattura dei latitanti? Ma il problema della cattura dei latitanti non è diverso da quello proprio dell’attività investigativa. Per poter pervenire alla cattura dei latitanti bisogna conoscere qual è il quadro di riferimento in cui essi si muovono. E quando si perviene all’arresto di un latitante si acquisiscono, per altro verso, notizie utilissime ai fini delle indagini. Non si possono impostare le indagini per la cattura dei latitanti se non si sa che cosa i latitanti fanno, in quali attività illecite sono impegnati, chi sono i loro fiancheggiatori, chi si occupa nel loro interesse di riciclare il denaro, quali siano le basi operative, e così via. Ecco, quindi, che di fronte ad un’attività di contrasto così complessa non ci può più essere spazio per le gelosie o diversità di vedute tra forze di polizia o tra magistrati di diversi uffici. Se non ci si rende conto che è necessario un armonioso e coordinato svolgimento di tutte le indagini verso una direzione predeterminata ed accettata da tutti, non potranno giungere risultati significativi. Capita spessissimo di apprendere dai giornali di colleghi che si stanno interessando di indagini. A voi chissà quante volte sarà capitato, mentre pedinate qualcuno, di accorgervi che siete a vostra volta pedinati da personale appartenente ad altro corpo di polizia. Se finalmente si riuscisse a capire che questi problemi non appartengono a questo o a quell’ufficio, a questa o a quella forza di polizia, ma sono problemi che appartengono allo Stato, e che tutti noi siamo servitori di un unico Stato, sono certo che faremmo davvero un notevole passo in avanti.

Articolo pubblicato sul N°1 Aprile 2000

 

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