di Giovanni Falcone
[…] Vorrei iniziare proprio con quanto si legge nella relazione finale della commissione d’inchiesta Franchetti-Sonnino, […][dell’]ormai lontano 1875-76: “La mafia non è un’associazione che abbia forme stabilite ed organismi speciali, non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti se non i più forti e i più abili. Ma è piuttosto lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male”. Si legge ancora che “questa forma criminosa non sarebbe specialissima della Sicilia, tuttavia esercita, sopra tutte le varietà di reati, una grande influenza imprimendo a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori. Si rileva, inoltre, che i mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione. E che già sotto il governo di re Ferdinando la mafia si era infiltrata, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì”. Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la sua gravità. Infatti, si legge ancora in quella relazione: “Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia ascendevano a 22 battaglioni e mezzo tra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e 4 plotoni di bersaglieri oltre ai carabinieri in numero di 3.120. Pareva di trovarsi in mezzo ad una fazione di guerra guerreggiata o in un paese sottoposto all’occupazione straniera. Eppure (come i tempi sono cambiati!) tranne qualche timida aspirazione nessuno osava domandare il ritiro o la diminuzione delle forze. Quasi tutti ripetevano dall’ostentazione di esse il sentimento di sicurezza che cominciava a penetrare nello spirito pubblico”. Da allora bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti. Invece, nell’immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni ’62 – ’63, gli organismi responsabili e i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, mi sembrano significativi i discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario dei procuratori generali di Palermo. In quello del ’54, il primo del dopoguerra, si insiste nel concetto, assolutamente erroneo, come vedremo subito, che la mafia, più che un’associazione tenebrosa, costituisce un diffuso potere occulto. Ma non si manca tuttavia di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo e ai “comportamenti non ortodossi”, cito testualmente, “di qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncarne l’attività criminosa”. Il riferimento, è chiaro, riguarda il procuratore generale di Palermo, dottor Pili, di cui si parla da un po’ di tempo nella stampa locale, espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte di Assise di Viterbo il 3 maggio ’52. “Giuliano – anche qui riporto testualmente – ebbe rapporti, oltre che con funzionari di pubblica sicurezza anche con un magistrato, e precisamente con chi era a capo della procura generale presso la Corte di Appello di Palermo, Emanuele Pili”. Nelle relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. E così, nella relazione del ’56, si proclama che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso, in quella del ’57 si accenna appena a delitti di sangue da ascrivere, si dice, ad opposti gruppi di delinquenti. Nella relazione del ’67 si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa è entrato in una fase di lenta, ma costante sua eliminazione e in quella del ’68 si raccomanda l’adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato dato che, anche qui testualmente, “il mafioso fuori dal proprio ambiente diventa pressoché innocuo”. Questi brevissimi richiami storici ci danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente svalutato da parte degli organismi responsabili, benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall’esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dell’attuale virulenza della mafia risieda proprio nella scarsa attenzione complessiva dello stato nei confronti di questa secolare realtà. Non si può comunque disconoscere che, specie negli ultimi anni, qualcosa sia cambiato. Ma, per contro, i livelli di intervento sono tuttora insoddisfacenti e procedono a correnti alternate. Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal capo della polizia, prefetto Vincenzo Parisi, appena un mese fa, alla scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l’autorevolezza della fonte, il capo della polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i referenti della maggior parte delle attività illecite del nostro paese, tra le quali fanno spicco, soprattutto, il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. La criminalità mafiosa è, come si sostiene in quell’intervento, la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici e acquisizioni culturali moderne e interagisce, sempre più frequentemente, con la criminalità economica che, dal canto suo, ha raggiunto livelli allarmanti, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura e il reimpiego del denaro sporco. L’analisi del prefetto Parisi, fondata ovviamente su dati concreti, ha riacceso l’attenzione sulla cruda realtà delle organizzazioni criminali nel nostro paese. E denuncia, con toni giustamente allarmati, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari. Pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche, come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo Mondo in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti, ovviamente non senza contropartita, di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si domanda, allora, come sia potuto accadere che un’organizzazione criminale come la mafia, ritenuta generalmente per lungo tempo un fenomeno legato alla situazione di arretratezza socio-economica del Meridione, anziché avviarsi al tramonto in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia invece vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità. Un convincimento diffuso, che ha trovato ingresso perfino in alcune sentenze della Suprema Corte, è quello secondo cui oggi saremmo in presenza di una nuova mafia. Con connotazioni proprie di un’associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l’espressione, sia pure distorta ed esasperata, di un comune sentire di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia, quella mafia imprenditrice per intenderci, di cui tanto bene ha parlato il professor Arlacchi. Tale opinione è antistorica e fuorviante. Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa Nostra, perché questo è il vero nome della mafia, non è, e non si è mai identificata, con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino ai tempi recenti, ma un’organizzazione criminosa unica ed unitaria ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito, a livelli strutturali ed operativi, delle modificazioni e che altre ne subirà. Ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto nell’alveo di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. Ed è proprio questa una delle particolari capacità della mafia: quella di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi. Se, oltre a ciò, si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle punizioni inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere conto dello straordinario spessore di questa organizzazione, sempre nuova e sempre uguale a sé stessa. Altro punto fermo da tenere ben presente è che al di sopra dei vertici organizzativi non esistono terzi livelli di alcun genere che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente può accadere, ed è accaduto, che in determinati casi, e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari o abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressati. Gli omicidi politici commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa Nostra, però, nelle sue alleanze, non accetta posizioni di subalternità, pertanto è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne e dirigerne dall’esterno le sue attività. E in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell’esistenza di una sorta di direzione strategica occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d’onore che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali sono figure di primo piano dell’organizzazione, ne sconoscono l’esistenza. E lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti, come il cosiddetto Golpe Borghese o il falso sequestro di Michele Sindona, non costituiscono un argomento contrario perché hanno una propria specificità e una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell’organizzazione mafiosa. E se è indubbiamente vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, e alcuni lo sono ancora a tutti gli effetti, uomini d’onore, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa Nostra ha forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia, mai però in posizione di subalternità.
Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo egemone nel traffico, anche internazionale, dell’eroina. Ma per comprendere meglio le cause dell’inserimento della mafia nel lucrosissimo giro della droga, occorre prendere le mosse dal contrabbando di tabacchi, una delle più lucrose attività illecite della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato, dalla letteratura e dalla filmografia, come un romantico avventuriero. La realtà, però, era ben diversa essendo il contrabbandiere al soldo di Cosa Nostra se non addirittura un mafioso egli stesso. E il contrabbando si è rivelato un’attività ben più pericolosa di una mera violazione di un interesse finanziario dello Stato. In quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l’ingresso nel mercato degli stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali, sia per il trasporto della merce, sia per il riciclaggio del denaro, poi utilizzati per il traffico degli stupefacenti. Occorre precisare che già nel contrabbando di tabacchi si realizzano importanti novità della struttura mafiosa. E’ ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è organizzata come una struttura piramidale basata sulla famiglia e ogni uomo d’onore soleva intrattenere i rapporti d’affari normalmente con gli altri membri della stessa famiglia e solo sporadicamente con altre famiglie. Essendo riservato ai vertici mafiosi il coordinamento in seno alle organizzazioni provinciali e regionali. Assunto alla gestione del contrabbando di tabacchi, che comportava l’impiego di consistenti risorse umane in operazioni compiute perlopiù in aree sottratte al controllo della famiglia interessata, sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie, e perfino anche con personaggi estranei a Cosa Nostra se non addirittura stranieri. Si ricorderà che negli anni d’oro del contrabbando di tabacchi, ‘74-’79, numerose navi contrabbandiere, e con equipaggi in prevalenza greci, hanno solcato le acque del Mediterraneo per trasportare in Italia i carichi di sigarette di pertinenza di Cosa Nostra e grossi industriali, tuttora residenti in Svizzera, si occupavano della fornitura delle sigarette. Per effetto, quindi, dell’allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti, spesso non mafiosi, sorge allora la necessità di creare strutture nuove, di coordinamento, che pur controllate da Cosa Nostra con la stessa non si identificano. Si sono formate così associazioni di contrabbandieri dirette e coordinate da uomini d’onore, non necessariamente di primo piano, che non si identificavano, queste associazioni, con Cosa Nostra. Le associazioni erano aperte alle partecipazioni finanziarie di altri uomini d’onore, non coinvolti operativamente, le cosiddette carature, previo assenso però, e nella misura stabilita, dal rispettivo capofamiglia. In pratica, dunque, la antica rigida compartimentazione degli uomini d’onore nelle rispettive famiglie ha cominciato a cedere il passo a strutture più allargate e a una diversa articolazione delle alleanze in seno all’organizzazione. Cosa Nostra, però, non si limita ad esercitare il controllo sulle associazioni contrabbandiere mafiose, ma anche cerca di controllare organizzazioni criminali similari, specialmente nel napoletano, per assicurare un efficace funzionamento del commercio e nel tentativo di monopolizzare il traffico illecito. Già da tempo esisteva a Napoli una famiglia mafiosa dipendente direttamente dalla provincia di Palermo. E ciò non deve stupire perché la presenza di famiglie mafiose o di sezioni delle stesse, le cosiddette decine, fuori dalla Sicilia ed anche all’estero è un fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di famiglie costituenti diretta filiazione di Cosa Nostra siciliana e dalla stessa dipendenti. Interviene quindi, Cosa Nostra, presso la malavita napoletana con lo scopo dichiarato di sanare contrasti interni relativi al contrabbando di tabacchi, ma, verosimilmente, con l’intento di assumere la direzione dell’intero traffico. Ed ecco perché nel corso degli anni sono stati individuati collegamenti importanti tra esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili, già allora, come semplici contatti tra organizzazioni criminose diverse. Ed ecco dunque perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al coordinamento tra organizzazioni criminose tradizionalmente operanti in territori distinti. Coordinamento la cui pericolosità è intuitiva. Nella seconda metà degli anni Settanta, pertanto, Cosa Nostra, con le sue strutture organizzative, con i canali operativi e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie acquisite aveva tutte le carte in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti. In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra garantiva la distribuzione della droga in quel paese. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti d’America. Ed anche nella gestione di questo lucroso affare, l’organizzazione ha mostrato la sua straordinaria capacità di adattamento avendo creato, forte dell’esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle che per lungo tempo hanno reso pressoché impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l’approvvigionamento della morfina base, o addirittura dell’eroina, dal Medio e dall’Estremo Oriente, altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la trasformazione della morfina base in eroina. Altri infine si occupavano dell’esportazione dell’eroina. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da uomini d’onore. In particolare il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era affidato ad esperti chimici francesi reclutati grazie ai collegamenti esistenti con il milieu marsigliese fin dai tempi della French Connection. Collegamenti che, da tempo, erano ritenuti oramai scomparsi. L’esportazione della droga, poi, come è stato dimostrato anche da indagini recentissime, veniva e viene curata spesso da organizzazioni parallele addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con uomini d’onore preposti a tale settore di traffico. Quindi abbiamo tutta una serie di organizzazioni giustapposte, coordinate e compartimentate, quindi non è possibile, individuata una, passare automaticamente alla individuazione delle altre organizzazioni. Gli anelli della catena non sono comunicanti.
Meno significativo, rispetto al traffico dell’eroina, è stato, almeno inizialmente, il coinvolgimento di Cosa Nostra nel commercio di altre droghe. Ma per quanto riguarda hashish e cocaina, alcune strutture, soprattutto nella Sicilia orientale, sono da tempo addette a questo tipo di droga a notevoli livelli con collegamenti con la Camorra ormai noti da tempo. Si tratta, dunque, di strutture molto articolate e solo apparentemente complesse che per lunghi anni hanno funzionato egregiamente consentendo alla mafia ingentissimi guadagni. Un discorso a sé merita il riciclaggio del denaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali operanti in Italia di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti derivanti dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro altresì che, nel tempo, i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia soprattutto della necessità di eludere investigazioni sempre più incisive. Per un certo periodo, bisogna riconoscerlo, il sistema bancario ha costituito canale privilegiato per il riciclaggio del danaro. Senza dire che non poche attività della mafia, di per sé illecite e costituenti di per sé autonoma fonte di ricchezza, come ad esempio le cosiddette truffe comunitarie, hanno costituito il mezzo per consentire l’occultamento del fluire, in Sicilia, di ingenti quantitativi di danaro già ripuliti all’estero, quasi per intero provenienti da traffico di stupefacenti. Di recente è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi in operazioni bancarie di cambio di valuta estera – ci si può immaginare cosa comporta questo in tema di indagine relativa -. Quali effetti ha prodotto, in seno all’organizzazione di Cosa Nostra, la gestione del traffico degli stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano taluni mafiosi più tradizionalisti, la mafia non si è rapidamente dissolta, ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali. Le alleanze orizzontali tra uomini d’onore di diverse famiglie e di diverse province hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra, e al contempo hanno indebolito la rigida struttura di base con la conseguenza che hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni ’70, per assicurare un migliore controllo dell’organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo di vertice, la cosiddetta Commissione Regionale, composta dai capi delle province mafiose siciliane, col compito di stabilire regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di ben individuati gruppi di uomini d’onore erano difficilmente controllabili, ed esplodeva così, nel ’78, una violenta contesa culminata negli anni ‘81-’82. Due opposte fazioni si sono affrontate in uno scontro di una ferocia senza precedenti che ha investito tutte le strutture di Cosa Nostra causando centinaia di morti. I gruppi avversari, ecco la novità, aggregavano uomini d’onore, ciascuno di essi appartenenti alle più varie famiglie, spinti dall’interesse personale a differenza di quanto era avvenuto nella prima guerra di mafia caratterizzata dallo scontro tra famiglie, e ciò a dimostrazione inequivoca del superamento della rigida compartimentazione in famiglie di un tempo. La sanguinosa faida non ha determinato, come ingenuamente si affermava, un indebolimento complessivo di Cosa Nostra, ma, al contrario, un rafforzamento e un rinsaldamento delle strutture mafiose, che depurate degli elementi più deboli, eliminati nel conflitto, si sono compattate sotto il dominio di un gruppo egemone, accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Ed il nuovo gruppo dirigente ha fornito ben presto una sinistra dimostrazione della sua potenza e vitalità e fin dall’aprile ’82 ha scatenato una violenta offensiva contro le istituzioni, con la eliminazione di chiunque poteva costituire un ostacolo alle sue finalità. Gli omicidi di Pio La Torre, di Dalla Chiesa, di Chinnici, di Ciaccio Montalto, di Montana, di Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e le altre attività illecite continuavano ad andare a gonfie vele, nonostante l’impegno delle forze dell’ordine. L’ultimo laboratorio di eroina scoperto in Sicilia rimonta appena all’aprile ’85, ma, nell’anno successivo, sono stati effettuati sequestri di consistenti partite di droga in partenza da Palermo. La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione, tra difficoltà di ogni genere, di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie, certamente non ha segnato l’inizio della fine del fenomeno mafioso. Il declino della mafia, più volte annunciato, non si è verificato e non è purtroppo prevedibile nemmeno oggi. E’ vero che non pochi uomini d’onore, diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto detenuti, tuttavia, i vertici di Cosa Nostra sono latitanti, e non vi sono elementi che possano farci ritenere che siano costretti all’angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività, a fronte di un’organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile e compatta, talché le notizie in nostro possesso, sull’attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti, sono veramente scarse. Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro circoscritti al palermitano, perché, solo in minima parte, è da ascrivere all’azione repressiva. La tregua infatti, purtroppo, è frequentemente interrotta da assassini di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti è tutt’altro che finita, e soprattutto da omicidi che hanno creato notevolissimo allarme sociale. Si pensi all’omicidio di Roberto Parisi, avvenuto nel febbraio ‘85, agli omicidi di Giuseppe Insalaco e di Mondo, consumati appena qualche mese addietro. In particolare, gli omicidi di Insalaco e di Parisi costituiscono l’eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere, costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che fino a quando non sarà stata fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti non si potranno fare significativi passi avanti. Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico di eroina, ed anzi comincia ad interessarsi sempre di più alla cocaina. Si ha, cioè, notizia precisa di transazioni, avvenute in America, tra mafia ed altre organizzazioni similari concernenti lo scambio di eroina con cocaina, fatto piuttosto inquietante per le nuove possibilità concesse alla criminalità. Le indagini, poi, concernenti la individuazione dei canali di riciclaggio del danaro proveniente dal traffico di stupefacenti, sono rese molto difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda, poi, le altre attività illecite va registrato che accanto ai crimini tradizionali, come ad esempio le riscossioni sistematizzate, le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti, anche se non denunziati, di imprenditori non mafiosi che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione all’impresa. E ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia. Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo. Sono in corso investigazioni di polizia giudiziaria e inchieste giudiziarie che verosimilmente daranno buoni risultati, ma lo scenario è tutt’altro che confortante, se si tiene conto che di fronte alla necessità di un’attività repressiva ancora più efficace e professionale di prima le forze in campo vanno progressivamente scemando per quantità e per qualità. Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza, conseguente ad una fase di tensione morale, eccezionale e protratta può aver determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia o per suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere sottolineare, anche a costo di passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro prossimo saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.
(Giugno 1988, Palermo. Intervento di Giovanni Falcone al convegno dal titolo “Lotta alla droga: verso gli anni 90”)
Giovanni Falcone
Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila maggio 2002