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di Giovanni Falcone

Come ebbe a ricordare l’egregio collega Scotti, in un recente incontro di studio, Jhering così scrisse in un suo notissimo libro: “Un giorno i giuristi torneranno ad occuparsi del diritto premiale e lo faranno quando, spinti dalle necessità pragmatiche, riusciranno a riportare la materia premiale nel diritto, cioè al di fuori della mera facoltà e dell’arbitrio, costringendole in regole ben precise non tanto nell’interesse dell’aspirante a un premio ma nell’interesse superiore della collettività”. Bene, questo convegno sulla legislazione premiale - il cui valore scientifico è documentato dall’altissima qualità delle relazioni - sembra proprio avverare la profezia di Jhering e costituisce il segno che finalmente si sta per imboccare la strada giusta per portare a soluzione problemi di grande interesse nella strategia complessiva della lotta alla criminalità organizzata. Finora - secondo un costume purtroppo tipico del nostro Paese - il fenomeno del pentitismo, specie nell’ambito della criminalità organizzata non caratterizzata politicamente, è stato vissuto in modo troppo emozionale e concitato; e le polemiche, sterili e spesso ingiustificate, hanno creato un clima certamente non favorevole per un dibattito approfondito - e soprattutto sereno. Cercherò in questo mio breve intervento di ispirarmi a criteri di assoluta obiettività, i soli dai quali possono scaturire adeguate e ponderate soluzioni, esponendo soltanto i risultati di riflessioni maturate nel corso di una lunga e difficile esperienza giudiziaria, e cercando di sfrondarli da ogni considerazione meramente soggettiva.
Per lunghi anni abbiamo tollerato quasi con indifferenza che la criminalità organizzata raggiungesse in Italia livelli assolutamente intollerabili per qualsiasi convivenza civile sino a costituire un gravissimo pericolo per la stessa stabilità delle istituzioni democratiche. Le istruttorie tuttora in corso in diverse sedi giudiziarie stanno portando alla luce realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati. Era scontata nell’opinione pubblica la inefficienza di polizia e magistratura - accomunate in una generale e qualunquistica valutazione negativa -, e il mitico strapotere della mafia e delle organizzazioni similari costituiva un comodo alibi, bisogna riconoscerlo, per gravi comportamenti omissivi di tanti organismi statuali. Le uccisioni, sempre più frequenti, di malavitosi, non di rado venivano ritenute - tanto ipocritamente quanto fallacemente - un fatto non dannoso per la società, perché, in siffatta maniera, si eliminavano pericolosi delinquenti; e si è perfino tollerato che, in una città come Palermo, venissero progressivamente assassinati tutti i massimi vertici delle istituzioni; fatto, questo, unico al mondo. Quando un intensificato impegno ed una migliore professionalità di settori di polizia e magistratura hanno gradualmente consentito risultati sempre più incisivi nella repressione della criminalità organizzata, ha cominciato a manifestarsi, anche in questo settore, il fenomeno del cosiddetto “pentitismo”. Soltanto, infatti, quando lo Stato nel suo complesso ha mostrato di “voler far sul serio” ed è apparso più credibile anche agli occhi della stessa criminalità, sono intervenute le prime dissociazioni e la formale collaborazione degli imputati con la giustizia, che finalmente infrangeva il mito dell’omertà, uno dei principali ostacoli per il raggiungimento di concreti risultati.
A questo punto, un osservatore ingenuo avrebbe pensato che si sarebbe cercato in tutti i modi di favorire un fenomeno che costituisce, come suol dirsi, una vera e propria mina vagante che viene ad incrinare la coesione e la impermeabilità delle organizzazioni criminose alle indagini giudiziarie. Ma per gli “addetti ai lavori” era fin troppo agevole prevedere che il pentitismo nella criminalità comune avrebbe provocato reazioni violente, e che si sarebbe tentato di ostacolarlo, utilizzando e strumentalizzando indubbi inconvenienti e pericoli e, in particolare, gli inevitabili errori che sarebbero stati commessi dagli inquirenti di fronte a situazioni indubbiamente nuove, quanto meno per le loro dimensioni. E non è mancato chi, guardando con malcelata nostalgia il tempo in cui vi era soltanto l’anonimo confidente della polizia, ha espresso un giudizio totalmente negativo sul fenomeno del pentitismo. Ora, se non può dubitarsi della perdurante e innegabile utilità del confidente, da un lato deve auspicarsi una migliore regolamentazione giuridica di questo istituto - in conformità, per altro a quanto avviene nei Paesi più civili - ed in modo da evitare possibili arbitri e coperture da parte dell’ufficiale di polizia giudiziaria. Dall’altro, deve sottolinearsi che il fenomeno del pentitismo ha ragioni ben diverse e ben diverso peso processuale.
Mentre l’anonimo delatore rimane nell’ombra continuando ad operare nell’ambiente della malavita, da cui attinge le notizie che poi fornisce - spesso in modo incompleto ed interessato - alla polizia, il “pentito” riferisce espressamente ed in atti processuali quanto a sua conoscenza sul mondo del crimine, e le sue confessioni e chiamate in correità debbono affrontare il vaglio del giudizio, come qualsivoglia mezzo di prova. Basta riflettere su questa profonda differenza fra il “pentito” ed il confidente per rendersi conto come siano infondate le preoccupazioni di chi teme che una legislazione premiale possa agevolare condotte meramente strumentali del “pentito”, indotto alla collaborazione non da sincero pentimento, ma solo dalla prospettiva di subire il minor danno dal processo a suo carico senza troncare i legami cogli ambienti criminali. E’ sufficiente rilevare, infatti, che - a prescindere dalle vere ragioni del suo comportamento processuale, che possono essere le più svariate e perfino poco commendevoli – il “pentito” ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. E’ da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia. Peraltro la esperienza di quei Paesi in cui da tempo esistono tali norme dimostra l’inconsistenza di prognosi allarmistiche di questo tipo.

Per stabilire, dunque, se è opportuna (posto che sulla sua giuridica possibilità non credo vi siano contrasti) la introduzione delle norme premiali nel nostro ordinamento giuridico, altre sono le considerazioni su cui far leva. Anzitutto, occorre riflettere sulla attuale condizione processuale dei cosiddetti pentiti. A parte specifiche e ben limitate situazioni in cui è codificato un consistente sconto di pena per il dissociato che collabori per l’individuazione o la cattura dei complici (come è previsto, ad esempio, dall’art. 630 del codice penale, con le modificazioni apportate dalla legge n. 894 del 30 dicembre 1980, in tema di sequestri di persona), bisogna riconoscere che il nostro ordinamento non incentiva in alcun modo la collaborazione con la giustizia da parte degli imputati.
Certamente non costituisce rimedio sufficiente la concessione delle circostanze attenuanti generiche, a tacer d’altro, poiché, per la discrezionalità della loro applicazione, trattasi di un rimedio troppo aleatorio e modesto e, per giunta, troppo inflazionato. Infatti, nella pratica giudiziaria, mentre le attenuanti generiche sono spesso riconosciute ai colpevoli di efferati delitti che hanno ostinatamente negato le loro responsabilità nonostante l’evidenza delle prove a carico, non sono mancate le pronunce, anche della Suprema Corte, che ne hanno ritenuto legittimo il diniego al reo confesso perché potrebbe trattarsi di una condotta processuale non ispirata a “sincero pentimento”.
Va rilevato, poi, che molto spesso le rivelazioni dei “pentiti” - in un sistema giuridico che giustamente riconosce all’imputato il diritto di non rispondere - hanno consentito l’accertamento anche a loro carico di reati di cui ben difficilmente sarebbero stati identificati gli autori per altra via. Inoltre, a causa delle connessioni e delle articolazioni esistenti nell’ambito della criminalità organizzata, è pressoché inevitabile il proliferare, proprio per effetto delle loro propalazioni, in diverse sedi giudiziarie, di procedimenti penali a loro carico che, altrimenti, non sarebbero stati certamente instaurati e dei quali, molto spesso, è impossibile procedere alla riunione. Inoltre, mentre tanto si discute sulla opportunità della introduzione della legislazione premiale, non è infrequente che il ”pentito”, pur quando ne viene riconosciuta l’attendibilità, subisca un trattamento, in termini di pena, deteriore rispetto ai correi da lui accusati che, invece, nonostante il loro atteggiamento processuale improntato al negativismo, vengono condannati a pene più miti. Si
direbbe, quasi, che - a livello inconscio - operi anche fra i giudici un meccanismo di rifiuto e di ripulsa nei confronti del delatore o, per meglio dire, dell’“infame”.
Quando, poi, si tratti di organizzazioni criminali che operano a livello internazionale, il problema del trattamento processuale del “pentito” si complica a causa dell’esistenza di ordinamenti giuridici che prevedono un trattamento di favore - e perfino la non punibilità - per coloro che collaborano con la giustizia. Accade, dunque, che lo stesso imputato, il quale in altri Paesi decide di collaborare con la giustizia in considerazione di una legislazione che prevede effetti favorevoli a tale comportamento processuale, assuma un diverso atteggiamento nei confronti della giustizia italiana e che la collaborazione giudiziaria con diversi Paesi subisca pesanti intralci per le difficoltà di armonizzare operativamente sistemi giuridici ispirati a principi molto diversi tra loro anche nella materia in esame. Ed infine non va dimenticato che - in un clima generale di perplessità o addirittura chiaramente ostile nei confronti del fenomeno del pentitismo - spesso chi collabora con la giustizia deve subire anche la rappresaglia degli avversari che non esitano ad uccidere con ferocia belluina i congiunti, mentre l’ordinamento non prevede possibilità d’interventi codificati che valgano, quanto meno, a rendere più difficili queste vili aggressioni.
In queste condizioni è fin troppo facile prevedere che, senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il “pentito”, il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo. Se è questo che si vuole e se si ritiene che, di fronte ad una criminalità organizzata dilagante e sempre più minacciosa, lo strumento del pentitismo non rappresenti un utile mezzo di indagini istruttorie, occorre che lo si dica chiaramente affinché, per lo meno, non si ingenerino illusioni o aspettative in coloro che, sia pure per mero tornaconto personale, avevano ritenuto ingenuamente che il loro contributo all’accertamento di gravissimi crimini sarebbe stato apprezzato, prima o poi, dal Paese. Per quanto mi riguarda, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia.
Le obiezioni più ricorrenti sono ben note e, a mio parere, non convincenti. Si sostiene talora che lo Stato, attraverso le dichiarazioni dei “pentiti”, viene strumentalizzato da costoro per la consumazione di sottili vendette personali, ma si dimentica che uno degli specifici compiti statuali è quello di sostituire alla vendetta la giustizia, impedendo che i cittadini ricorrano alla violenza. Inoltre, il fatto che, per la prima volta, autorevoli membri di organizzazioni criminali, che hanno sempre ritenuto disonorevole il ricorso all’autorità statuale, abbiano deciso di affidare allo Stato, implicitamente riconoscendone l’autorità, l’appagamento della loro sete di vendetta, lungi dal far gridare allo scandalo, dovrebbe far ritenere positivo questo fenomeno quale chiara espressione del declinare della tradizionale omertà.
Anche il timore che il pentitismo possa costituire una pericolosa ed illusoria scorciatoia nella via dell’accertamento della verità è, a mio avviso, infondato. Non si nega che talora non sia stato esercitato il necessario, rigoroso vaglio critico sulle dichiarazioni dei pentiti, e che le stesse siano da considerare, per ovvi motivi, delle fonti di prova sospette. Ma non mi sento di condividere le affermazioni di chi ne afferma l’inutilità o addirittura la dannosità per le indagini. Se ciò fosse vero, si dovrebbe ritenere che nei Paesi – come, ad esempio, gli Stati Uniti d’America - in cui la legislazione premiale è in vigore da tempo, gli organismi repressivi non siano particolarmente efficienti, mentre è vero esattamente il contrario. Il problema della efficienza non viene, dunque toccato dalla legislazione premiale, ma ci riconduce, ancora una volta alla professionalità di polizia e di magistratura, necessaria in tema di criminalità organizzata più che in altri settori. Ma l’argomento ci porterebbe troppo lontano ed i ristretti limiti temporali di un intervento non consentono di esaminarlo approfonditamente. Qui basterà ricordare che la dichiarazione del “pentito” è solo uno dei tanti mezzi a disposizione del magistrato inquirente, e che l’esito positivo di un’indagine giudiziaria dipende dall’uso sapiente dei mezzi più appropriati, per cui le ammissioni e le chiamate in correità debbono costituire orientativamente conferma di risultati probatori acquisiti aliunde o spunto per ulteriori indagini.

Altra obiezione ricorrente è quella che le dichiarazioni dei “pentiti” siano la causa dei maxiprocessi, le cui difficoltà di gestione sono ben note perché occorra discuterne. In proposito, deve registrarsi una curiosa trasposizione dei termini del problema, poiché viene attribuito a volontà dei giudici ed alle dichiarazioni dei “pentiti” quello che è solo l’effetto di una realtà mostruosa: e cioè di organizzazioni criminali che hanno in mano il controllo di estese fasce del territorio nazionale, che operano ormai in tutto il Paese, ed anche all’estero, e commettono una serie impressionante di crimini. E’chiaro che le giuste esigenze di celerità e il diritto della difesa sarebbero meglio assicurati da processi meno elefantiaci e con un minor numero di imputati; tuttavia, senza negare che talvolta tali esigenze avrebbero potuto essere meglio garantite, dovrebbe essere altrettanto evidente che, quando i fatti sono collegati da indissolubili nessi probatori, qualsiasi separazione di procedimenti non potrebbe che essere arbitraria, e sarebbe di sicuro nocumento per l’accertamento della verità. E ciò non senza considerare che, in sedi come, ad esempio, quella di Palermo, in cui la criminalità mafiosa è particolarmente violenta, certamente non sono uno o più maxiprocessi a determinare intralci alla giustizia ma la serie impressionante di gravissimi delitti che richiedono improbi accertamenti giudiziari e che, spesso, rimangono impuniti. Forse, non si è attentamente considerato che se, in ipotesi, anziché un solo processo con circa cinquecento imputati, fosse stato possibile instaurare una decina di processi con cinquanta imputati ciascuno, sarebbe stato necessario costituire dieci Corti di assise che operassero  contemporaneamente o, comunque, in tempi molto ravvicinati; con quali costi e quali problemi per la giustizia e per gli stessi difensori è fin troppo agevole prevedere. Né si è considerato che le centinaia di omicidi e di altri gravi crimini commessi a Palermo in pochissimi anni richiederebbero, per una sollecita e doverosamente approfondita istruttoria, un numero ed una qualità di inquirenti di gran lunga superiore allo sparuto drappello di magistrati che quotidianamente è costretto a confrontarsi con problemi, anche organizzativi, drammatici.
Questi sono i problemi che affliggono la giustizia penale nel settore della criminalità organizzata, e mi sembra veramente riduttivo e fuorviante attribuire le cause ai maxiprocessi e alle dichiarazioni dei “pentiti”, confondendo l’effetto per la causa. Certamente, non si intende dare copertura ed appoggio ad eventuali abusi ed esagerazioni che, in materia, possono essere stati commessi. Ma da ciò trarre le premesse per ostacolare il fenomeno del pentitismo sarebbe un errore di portata storica. E’ necessario che si discuta approfonditamente sulle eventuali norme più idonee ad assicurare che le propalazioni dei “pentiti” vengano assunte nel rigoroso rispetto della legalità democratica e del diritto di difesa. E si accerti pure col maggiore scrupolo quali possono essere i benefici più opportuni a favore dei “pentiti”, non in contrasto col principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Ma mi sembrerebbe assurdo che, in virtù di malintesi principi garantistici, si dovesse rinunziare allo strumento del pentitismo che, sia pure tra luci ed ombre, ha consentito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile.
Di fronte a fenomeni delinquenziali tuttora in atto, non è certo l’inasprimento delle pene – illusorio, e quasi mai seguito dalla pratica giudiziaria - che consente la soluzione dei problemi, ma solo una saggia politica legislativa che sappia armonizzare il rispetto dei princìpi costituzionali in tema di pena e di uguaglianza con quello, irrinunciabile, della difesa sociale.
(Aprile 1986, Courmayeur. Intervento di Giovanni Falcone al convegno dal titolo “La legislazione premiale”)

Giovanni Falcone


Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila maggio 2002

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