di Marco Travaglio
Ora che l’Italia chiude momentaneamente per coronavirus, si avverte più che mai l’esigenza che ciascuno faccia il suo mestiere. Il governo quello di prendere decisioni adeguate alla situazione che varia di ora in ora e di comunicarle con serietà e sobrietà come ha fatto ieri Conte, usando come bussola la Costituzione, che tutela la salute e non le lobby di Confindustria. L’opposizione quello di controllare l’opera del governo senza sconti, ma anche senza pregiudizi. Le Regioni e i Comuni quello di muoversi in sintonia col governo, evitando bizzarrie, alzate d’ingegno e fughe solitarie per far titolo sui social o sui giornali. Gli esperti quello di fornire supporti scientifici senza perdersi in beghe e rivalità fra colleghi, che più d’ogni altra cosa contribuiscono a seminare il panico. Noi giornalisti quello di informare esclusivamente con notizie documentate, evitando gli opposti estremismi dell’allarmismo e del tuttovabenmadamalamarchesa. Tutti i cittadini quello di discutere finché vogliono gli ordini delle autorità, ma intanto di obbedire alla lettera senza tante pippe, perché l’esperienza di questi giorni insegna che basta la disobbedienza di uno solo per fare guai mostruosi.
I politici sfusi e i peones che non hanno ministeri né funzioni né partiti da rappresentare, ma la cui parola purtroppo ha un peso inversamente proporzionale all’intelligenza, parlino solo se interrogati, contino fino a 100 prima di rispondere e lo facciano quando hanno qualcosa da dire, cioè tendenzialmente mai. I virologi da divano, che sanno sempre cosa non si sarebbe dovuto fare (ma un po’ meno cosa si dovrebbe fare), si mettano in autoquarantena: di virus ce ne basta uno alla volta. Gli autoflagellanti fan degli altri Paesi che fanno pochi controlli, nascondono il virus sotto il tappeto, spacciano i morti da coronavirus per “normali” casi di influenza sperando di passare ’a nuttata e salvare la bottega a spese nostre, ricordino che certe furbate durano poco. Il problema non è quanti tamponi, ma quanti malati: se uno finisce in terapia intensiva non è perché gli han fatto il tampone, ma perché sta malissimo. O vogliamo combattere la febbre abolendo i termometri?
I sindaci alla Sala, ansiosi di “riaprire Milano” e “tornare alla normalità entro due mesi”, la smettano di farsi belli come se i sacrifici imposti dalle autorità fossero fregole malate di menti sadiche e la piantino di alimentare aspettative che nessuno sa quando potrà soddisfare. Le città riapriranno e torneranno alla normalità quando gli esperti saranno certi che il contagio è sotto controllo. Meglio una recessione pilotata con pochi morti oggi che una catastrofe incontrollata con una strage domani. Lo dimostra la Cina: prima ha sigillato la provincia di Wuhan, e ora il contagio sembra in ritirata. L’epidemia non è una gara d’appalto di Expo, retrodatabile a piacere. I governatori alla Fontana, Zaia, Ceriscioli e Musumeci imparino da altri colleghi a lavorare in silenzio (come centinaia di medici e infermieri che operano senza soste né cambi-turno rischiando la pelle in ogni istante), visti i danni che fanno appena aprono bocca, anche a tre metri di distanza di sicurezza. Chi, pur non essendo un esperto, padroneggia un po’ la materia, aiuti gli altri meno aggiornati a non confondere il giusto allarme con l’assurdo allarmismo e a leggere correttamente i dati: non tutti i positivi sono malati di coronavirus, non tutti i malati sono intubati in rianimazione, quasi nessuno degli intubati rischia la pelle. I tassi di mortalità, che oscillano fra il 2 e il 3%, sono sovrastimati rispetto alle normali influenze perché le influenze si sa quante sono, mentre i casi di Coronavirus sono molti più di quelli noti, essendo difficilmente distinguibili dalle influenze e ricercati e diagnosticati da poche settimane. Quindi i morti per coronavirus sono probabilmente inferiori a quelli per influenza (circa 8 mila all’anno in Italia) e infinitamente inferiori a quelli per infezioni ospedaliere (altri 10 mila l’anno). Fermo restando che anche un solo morto, per quanto anziano o debilitato da altre patologie, è di troppo.
Il vero e unico oggetto dell’allarme (che non è allarmismo, è sacrosanta precauzione) non è il numero o la percentuale dei morti, ma l’espandersi del contagio. E non perché i contagiati abbiano meno possibilità di guarire del previsto (guariranno quasi tutti). Ma perché subito, qui e ora, rischiano di non trovare né posti letto né medici né infermieri sufficienti negli ospedali, in particolare nei reparti di rianimazione delle zone più “infette”. Quindi, non potendo moltiplicare dall’oggi al domani i letti e il personale, anche a causa dei tagli degli ultimi anni nella sanità pubblica e delle scriteriate politiche regionali a vantaggio dei privati (altro che “modello”), non resta che tentare di ridurre qui e ora il contagio con misure più drastiche di quelle già adottate. Più precauzioni si usano e più sacrifici si fanno oggi, più presto finirà l’emergenza e tornerà la normalità. Anche perché, in attesa di cure specifiche e vaccini, il primo nemico del coronavirus pare sia il caldo.
Nella cacofonia degli esperti, molti dei quali diveggiano in tv come soubrette e tronisti, a naso daremmo ascolto a Maria Rita Gismondo, che ha non solo i titoli, ma anche lo stile giusto per comunicare: informato, pacato, allarmante il giusto ma mai allarmistico-catastrofico. Fidiamoci di lei e di quelli come lei.
Convinti di interpretare l’umore dei lettori, rivolgiamo un sobrio invito ai dirigenti della Serie A di calcio: abbiamo cose più serie a cui pensare che il campionato, quindi giocate a porte chiuse o a casa vostra e piantatela di rompere i coglioni.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
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