di Marco Travaglio
Ora che è stato assolto in primo grado dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico per la trattativa Stato-mafia, Calogero Mannino ha dinanzi a sé due strade. Gridare – come fanno tutti – al complotto e accusare di persecuzione politica i pm che hanno avviato il processo e i giornalisti che l’hanno raccontato. Oppure scegliere una strada più intelligente e utile: dire finalmente tutto ciò che sa della stagione in cui la mafia massacrava e lo Stato trattava, e interrogarsi, da quella testa politica finissima che è, sulle ragioni che da 25 anni portano innumerevoli magistrati – il primo fu Paolo Borsellino – a sospettare di lui (prima per i suoi rapporti con noti mafiosi, poi per il suo presunto ruolo nella trattativa). Ieri, a botta calda, ha scelto comprensibilmente la prima opzione. Se l’è presa con Ingroia e Di Matteo, con accuse scomposte e calunniose. E anche con il sottoscritto, reo di avere raccontato quei fatti in vari articoli e in un recital teatrale poi confluito in un libro: “Ai pm non interessa avere portato in un’aula giudiziaria Napolitano, a loro interessa lo spettacolo che un guitto ha fatto in alcuni cinema in cui impartiva loro gli indirizzi relativi al processo”.
Dico subito – da guitto – che da quegli articoli, da quel recital e da quel libro la sentenza di ieri non sposta un monosillabo: li rifarei identici, aggiungendovi ovviamente l’esito (ancora provvisorio) del suo processo. Perché – come ho detto infinite volte – a me interessano poco i reati e molto i fatti, scolpiti nella cronaca e nella storia a prescindere dal giudizio dei tribunali sulla loro rilevanza penale.
Quanto a Napolitano, è stato lui stesso a infilarsi nel processo, trafficando con Nicola Mancino per ostacolare i pm che lo stavano istruendo. Ringrazio Mannino per attribuirmi doti di persuasore occulto ai confini dell’ipnosi, ma voglio tranquillizzarlo: se le mie parole avessero il potere di indirizzare la Magistratura, ne approfitterei per personaggi un po’ più importanti di lui. Forse è il caso che si rassegni all’idea che, se è finito tante volte nei guai per mafia, è perché la mafia l’ha conosciuta molto da vicino, come ha stabilito la Cassazione nel 2014 respingendo la sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. I supremi giudici ricordano che Mannino aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”.
Se, dopo un’altalena di verdetti contrastanti, fu poi assolto è perché la Cassazione cambiò la giurisprudenza sul concorso esterno. Ma ciò non significa che fosse stato arrestato ingiustamente: diversi riscontri “giustificavano, secondo la corte territoriale, il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il mafioso Vella per motivi elettorali e avesse, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, con l’effetto di ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione”. Il patto di Mannino con la mafia fu accertato, ma non la contropartita. Vedremo dalle motivazioni perché è stato assolto per la trattativa. Il “non aver commesso il fatto”, unito al comma 2 dell’art.530 Cpp (che assorbe anche la vecchia insufficienza di prova) vuol dire che sussiste il fatto-reato (violenza o minaccia a corpo dello Stato): cioè la trattativa è un delitto, ma l’hanno commesso altri, o meglio non ci sono abbastanza prove per dire che l’abbia commesso anche lui. Il che salva l’impianto accusatorio del processo principale che vede alla sbarra, appunto, gli “altri”: Dell’Utri, i Ros Subranni, Mori e De Donno, e (per falsa testimonianza) Mancino, accanto ai boss corleonesi e ai loro postini, tutti raggiunti da prove più solide di quelle su Mannino.
Difficilmente il Gup potrà cancellare fatti ormai assodati in documenti e testimonianze su una trattativa tutt’altro che presunta, visto che ad ammetterla e a chiamarla così sono molti dei protagonisti: da Mori e De Donno ai mafiosi pentiti, che negano la sua rilevanza penale, non certo la sua esistenza. E proprio quei fatti i pm hanno doverosamente sottoposto al vaglio del giudice (dopo aver superato quello dell’udienza preliminare: tutti gli imputati rinviati a giudizio). Uomo intelligente, Mannino in cuor suo lo sa benissimo. Altrimenti nel febbraio ’92, dopo le condanne del maxi-processo in Cassazione, non avrebbe confidato all’amico maresciallo Guazzelli che la mafia si sarebbe vendicata proprio su di lui (“o uccidono Lima o uccidono me”). E, dopo il delitto Lima, non avrebbe detto a Mancino “ora tocca a me” e a Padellaro (allora all’Espresso) “sono sulla lista nera”, proprio mentre Brusca lo pedinava per fargli la pelle. E magari avrebbe denunciato alla Procura le intimidazioni che subiva (crisantemi a domicilio, croci nere sulla porta del suo studio, due incendi nel suo ufficio), anziché parlarne aumma aumma col capo della Polizia Parisi, con quello del Ros Subranni e col numero 3 del Sisde Contrada.
La fine è nota: il Ros iniziò a trattare con Riina e Provenzano tramite Ciancimino, l’attentato a Mannino fu revocato, la lista nera dei politici “traditori” fu cestinata e nel mirino entrò Borsellino, che guardacaso aveva saputo della trattativa e vi si opponeva. Non c’è sentenza che possa cancellare questi fatti. Si può tentare di rimuoverli, ma continueranno a parlare. Anzi a urlare, insieme ai parenti delle vittime che da 23 anni chiedono verità e giustizia.
Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2015
Tratto da: ilfattoquotidiano.it