di Marco Travaglio - 11 luglio 2015
Sono vent’anni che leggiamo intercettazionidi politici, e mai una volta che li abbiamo sentiti preoccupati per le sorti dell’Italia, o allarmati per la disoccupazione, la corruzione, la crisi economica, il degrado dei servizi pubblici, o concentrati sui provvedimenti da adottare per migliorare la vita dei cittadini che profumatamente li stipendiano.
Non parliamo poi degli alti vertici della Guardia di Finanza, che negli ultimi 40 anni, dagli scandali dei petroli in poi, hanno collezionato – fatte le debite eccezioni – vagonate di arresti, condanne, rinvii a giudizio e avvisi di garanzia per essersi occupati di tutto, fuorché del loro dovere istituzionale: combattere l’evasione fiscale. Che, guarda un po’, se la batte con quella greca per il record europeo e forse mondiale.Appena un politico o un alto papavero incappano nelle intercettazioni della magistratura – che di solito arriva a loro per caso, indagando su fior di malfattori, che presto o tardi finiscono per parlare con chi più di tutti dovrebbe scansarli – si scopre che passano il tempo fra nomine, promozioni, intrighi, intrallazzi, ricatti, maldicenze, affari e malaffari.
È anche il caso delle intercettazioni depositate dai pm di Napoli al termine delle indagini sulle coop rosse, gli appalti truccati e la camorra in Campania. Indagini che hanno coinvolto anche il generale Michele Adinolfi, allora comandante interregionale per l’Italia Centro-Settentrionale e ora comandante in seconda delle Fiamme Gialle, per una presunta fuga di notizie, poi archiviata.Intercettazioni che il Fatto, per le firme di Vincenzo Iurillo e di Marco Lillo, sta raccontando per la loro eccezionale rilevanza pubblica.
Il 10 gennaio 2014, nel suo 39° compleanno, Matteo Renzi è da un mese il nuovo segretario del Pd, avendo sbaragliato Gianni Cuperlo alle primarie di dicembre, e si prepara alla scalata finale: l’assalto al governo di Enrico Letta. Ma è ancora incerto sui tempi: meglio per intanto “mettere qualcuno dei nostri... a sminestrare un po’ di roba” nel governo Letta per “governarlo da fuori” con un “rimpastone”? Oppure “buttare all’aria tutto”che “sarebbe meglio per il Paese perché lui (Letta jr.,ndr) è proprio incapace” e prendersi subito Palazzo Chigi? Renzi è per la seconda opzione e ha già sondato Berlusconi otto giorni prima dell’incontro al Nazareno per il famoso Patto, trovandolo “più sensibile a fare un ragionamento diverso”.
Cioè a un governo Renzi sostenuto occultamente da FI con la scusa delle riforme, al posto del governo Letta, da lui scaricato a novembre nei giorni della sua decadenza da senatore. Napolitano (“il numero uno”) però “non molla” Letta. Matteo confida – sempre al comandante tosco-emiliano della Gdf – di aver proposto a Enrico il Quirinale: essendo “un incapace”, “sarebbe perfetto” come presidente della Repubblica. Ma bisogna attendere che compia 50 anni nel 2016, e Re Giorgio “non ci arriva... me l’ha già detto... nel 2015 vuole andare via”.
La telefonata si chiude con un affettuoso “che stronzo!” rivolto da Adinolfi a Renzi, a riprova di una familiarità cameratesca e piuttosto inquietante: il generale è pappa e ciccia con Gianni Letta e B., ma anche con il presunto rottamatore Renzi e con i suoi fedelissimi Luca Lotti e Dario Nardella. I quali si dannano tutti e tre l’anima per bloccare la proroga biennale (poi decisa dal morente governo Letta) del generale Saverio Capolupo a comandante generale della Finanza e piazzare al suo posto Adinolfi. Un bel conflitto d’interessi: Renzi e Nardella, sindaco e vicesindaco di Firenze, sono due potenziali controllati delle Fiamme Gialle toscane comandate da Adinolfi.
È in questo contesto che, il 5 febbraio, una settimana prima del ribaltone Letta-Renzi, Nardella cena con Adinolfi e Mario Fortunato, ex capogabinetto di Tremonti, alla Taverna Flavia di Roma. Lì il generale descrive lo strapotere del figlio di Napolitano (“Giulio oggi a Roma è tutto”). Nardella conferma (“è fortissimo”, per la sua influenza sul padre), accenna a sue “consulenze dalla Pubblica amministrazione” e rivela di aver parlato di suoi presunti altarini con la Santanchè (“prima o poi verrà fuori, se lo sa la Santanchè, vabbè ragazzi”). È lì che l’alto ufficiale dice di Giulio che “bisogna passare da lui per arrivare” al Colle e che il presidente “ce l’hanno per le palle Gianni De Gennaro e Letta, pur sapendo qualcosa di Giulio”.
Poi c’è una telefonata del presidente della Confindustria Sicilia (oggi indagato per mafia) Antonello Montante, che spiega la proroga di Capolupo col fatto che “ha in mano tutto del figlio di Napolitano, tutto: me l’ha detto Michele”, cioè Adinolfi.
E infine c’è Fortunato, che insulta l’allora capo dello Stato (“pezzo di m....”) e accenna a sue presunte pressioni per “far passare provvedimenti per l’università che stavano a cuore al figlio”, cioè a Giulio, docente a Roma Tre dov’era preside lo zio Guido Fabiani, marito della sorella di Clio Napolitano, dunque cognato del presidente.
Resta da capire come possanooraCapolupoeAdinolfi convivere sulle due poltrone più alte della Guardia di Finanza, visto che il secondo accusava il primo di aver ottenuto la carica con un’estorsione, anzi una concussione ai danni degli allora presidenti della Repubblica e del Consiglio.
Insomma, un bel quadretto di ricatti su notizie in parte note, in parte top secret e in parte incomprensibili se non a chi ne parla o vi allude, che dovrebbe inquietare tutti i personaggi citati a loro insaputa. Infatti, letto il Fatto, Letta jr. commenta il contenuto delle intercettazioni. E Giulio Napolitano si riserva di querelare i “commensali” della “conversazione da taverna”. Viceversa l’ex presidente Giorgio Napolitano, anziché ringraziare il Fatto per aver svelato quegli intrighi alle sue spalle e avergli svelato il pensiero del premier sul suo conto, ci attacca per aver fatto il nostro dovere: dare notizie. Invece di prendersela con chi si esprimeva in quei termini su di lui e su suo figlio, giunge ad attribuirci “menzogne e intimidazioni”, ad accusarci di “imbastire una grossolana, ignobile montatura” su “intercettazioni giudiziarie acquisite e pubblicate in modi di assai dubbia legittimità” e a minacciare di azioni legali non chi diceva quelle cose, ma noi che ne abbiamo informato i nostri lettori (lui compreso). Ora, siccome l’ex presidente non è in grado di distinguere il dito dalla luna, il termometro dalla febbre, la radiografia dalla malattia, proviamo a schiarirgli le idee prima che lo facciano i suoi legali.
1) Le eventuali “menzogne e intimidazioni” appartengono a chi quelle cose ha detto, non a chi le ha riportate, quindi si rivolga non a noi, ma all’entourage del premier da lui nominato.
2) Non c’è nulla di illecito nell’acquisizione e pubblicazione di quelle intercettazioni, depositate agli avvocati di un’inchiesta conclusa, e dunque non più segrete.
3) L’“ingiuriosa” ipotesi che lui potesse “essere oggetto di ricatti” non l’abbiamo formulata noi, ma i personaggisopracitati,tuttialui piuttosto noti.
4) Quella che lui definisce “grossolana e ignobile montatura” si chiama informazione ed è tutelata dall’articolo 21 della Costituzione.
5) Se poi Napolitano ama farsi insultare da rappresentanti delle istituzioni, oppure non vuol sentire né sapere, non è affar nostro. Anzi, un pochino lo è.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano