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La rubrica di Saverio Lodato

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amato-giuliano-web0di Marco Travaglio - 24 aprile 2014
Tra le varie cause che i papaveri d’Italia hanno intentato al Fatto, la più avvincente è senz’altro quella di Giuliano Amato, già braccio destro di Craxi, deputato e vicesegretario del Psi, vicepremier, due volte premier, ministro del Tesoro (due volte), dell’Interno, delle Riforme, degli Esteri, senatore dell’Ulivo e deputato dell’Unione, presidente dell’Antitrust all’insaputa dei più, candidato al Quirinale nel ’99, nel 2006 e nel 2013, consulente di Deutsche Bank, ora giudice costituzionale per volontà di Sua Maestà Giorgio I e II, in attesa di diventare presidente o della Corte medesima o della Repubblica. Non bastandogli la magra pensione che notoriamente gli passa lo Stato, lo Statista di Orbetello ci chiede 500 mila euro per avere noi “smantellato pezzo per pezzo il prestigio e il rispetto che si era costruito e guadagnato nel corso degli anni, sia in Italia che all’estero”.

La cifra richiesta dipende dalla “notorietà del soggetto leso”, che lui adduce come scudo e invece è proprio il motivo delle nostre attenzioni critiche. Insomma non si riconosce nei ritratti del “personaggio sordido, pienamente addentro alla parte corrotta e prepotente del mondo politico, prima asservito a Craxi poi incline ad abusare della propria posizione di potere per assicurarsi incarichi e vantaggi economici esagerati”, “lontano anni luce dal Prof. Amato”, ed è caduto in preda a vere e proprie crisi di “identità”. Sarebbe “falsa e dolosamente costruita” persino la sua “appartenenza alla Casta”, mai vista né conosciuta. Un altro esempio, per chi non fosse ancora soffocato dal ridere, è l’insistenza sulla sua pensione d’oro, che invece “non esiste”. La prova? Eccola: “Il Prof. Amato ha da tempo rinunciato al proprio vitalizio, permanentemente dato in beneficienza (con la i, ndr)” e sbarca il lunario con la miseria di “una sola pensione da 22 mila euro lordi”. In attesa di conoscere l’opera pia che fino all’anno scorso riceveva il suo vitalizio, facciamo sommessamente notare che esso, per “non esistere”, non avrebbe dovuto essere ritirato: riceverlo e poi devolverlo a misteriose entità benefiche dimostra al massimo il suo buon cuore, non certo l’inesistenza del medesimo, che ha continuato a gravare sulle tasche dei cittadini come se l’avesse intascato lui. Per carità, è comprensibile che il Prof. Amato si veda diversamente da come lo vediamo noi, ma – come dovrebbe avere studiato da qualche parte – è il caso che si rassegni a quella cosetta seccante che nelle democrazie ha nome “libertà di stampa”. E poi, via, non si può piacere a tutti. Negli anni 80 il Prof. Amato aveva la stampa e le tv ai suoi piedi perché amico di Craxi. Negli anni 90 e 2000 idem perché amico di D’Alema e di Berlusconi (e uno dei due, fra l’altro, era superfluo). Negli anni 2010 idem perché amico di Napolitano. Permetterà dunque che esista almeno un piccolo giornale che dubita e sorride dinanzi al suo monumento equestre. E, se non lo permetterà, pazienza. Noi continueremo a pensare che chi nel 1983 voleva “risolvere politicamente”, cioè senza giudici tra i piedi, lo scandalo Zampini, una delle prime Tangentopoli d’Italia, non possa fare il giudice costituzionale. Che chi nell’84-85 ispirò i vergognosi decreti Berlusconi donati da Craxi all’amico Silvio per neutralizzare le ordinanze dei pretori sulle antenne fuorilegge della Fininvest, e nel 1993 varò da premier il primo decreto Salvaladri per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e affossare Mani Pulite (preannunciato a Craxi con una lettera che lo invitava ad “avere fiducia in quel che io sto cercando di fare” per fornire ai tangentari “possibilità di uscita” perché “continuo a esserti grato ed amico”, e poi bocciato dal presidente Scalfaro), non dovrebbe giudicare la legittimità delle leggi. Ma soprattutto un giudice costituzionale non dovrebbe trascinare in tribunale un giornale che lo critica. Tra i “beni costituzionalmente tutelati” che il Prof. Amato cita nella denuncia, il suo monumento equestre non è contemplato. La libertà di stampa sì.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 24 aprile 2014

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