di Marco Travaglio - 22 marzo 2013
Da quando il gup di Palermo Piergiorgio Morosini ha rinviato a giudizio tutti gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia, certificando la bontà delle indagini della Procura, ci si domandava con quale rappresaglia avrebbe reagito il Palazzo nelle sue varie propaggini politiche, amministrative e giudiziarie. La risposta è arrivata puntualmente negli ultimi tre giorni, mentre gli italiani e i media sono distratti dalla crisi di governo, con un uno-due che mira a estromettere o almeno a delegittimare i pm in vista del processo, che inizia il 27 maggio. Prima il ministro della Giustizia Paola Severino ha avviato l’azione disciplinare contro Antonio Ingroia, reo di aver criticato il presidente di Cassazione, vecchio amico di Carnevale, che aveva annullato la condanna di Dell’Utri. Per le toghe che hanno pubblicamente attaccato i pm palermitani per l’inchiesta sulla trattativa, invece, nessuna denuncia: anzi applausi a scena aperta (intanto il Csm della vergogna comunica a Ingroia che, se vuole restare magistrato, potrà farlo solo ad Aosta).
Ieri l’altro titolare dell’azione disciplinare, il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, l’ha promossa contro un altro pm dell’inchiesta, Nino Di Matteo, per una vecchia intervista a Repubblica sulle intercettazioni indirette e involontarie Mancino-Napolitano, in cui non svelava nulla di segreto, visto che la notizia era già uscita su Panorama: si limitava a spiegare che la Procura le aveva già ritenute penalmente irrilevanti e dunque segretate in cassaforte senza trascriverle, in attesa di inoltrarle al Gip per l’udienza di distruzione, previo ascolto da parte dei difensori. Ma così, per Ciani, Di Matteo avrebbe “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” per aver “ammesso seppure non espressamente l’esistenza delle telefonate Mancino-Napolitano” e così “leso indebitamente il diritto di riservatezza del capo dello Stato”. E il suo capo Francesco Messineo si sarebbe macchiato di omessa denuncia per non aver segnalato al Pg l’inesistente violazione del sostituto. Mancavano giusto queste accuse lunari, in una vicenda già kafkiana di suo. Come può un pm, commentando una notizia già nota su quattro telefonate segrete e mai trascritte e mai pubblicate, “ledere la riservatezza” di chicchessia? E come fa ad “ammettere seppure non espressamente” qualcosa? Anche un bambino tonto capirebbe che ci si arrampica sugli specchi per giustificare ex post una rappresaglia bella e buona contro i pm che hanno osato toccare gli intoccabili e gli amici degli amici. Il fatto paradossale è che, se in questa vicenda legata alla trattativa si cerca qualche magistrato che è uscito dai suoi poteri e che meriterebbe un’azione disciplinare, questo è proprio il Pg Ciani. Il quale, il 18 aprile 2012, ricevuta dal Quirinale la lettera dell’indagato Mancino accompagnata da una nota di Napolitano in cui si chiedeva di intervenire sulle indagini di Palermo, anziché cestinarla come un’indebita e irricevibile interferenza, scattò sull’attenti e convocò su due piedi, aumma aumma, in Cassazione il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Nell’imbarazzante riunione si parlò espressamente di “avocare” le indagini da Palermo e di “coordinarle” con quelle di Caltanissetta su via D’Amelio. Una proposta talmente indecente che persino un uomo di mondo come Grasso sobbalzò sulla sedia, pretese che gli fosse messa per iscritto e poi la respinse perché non aveva il potere di accoglierla e né il Colle e il Pg avevano il potere di fargliela. Tantopiù che il coordinamento era stato fissato da mesi dal Csm sotto la presidenza di Napolitano e rispettato dai pm “senza violazioni”. In un paese serio, se proprio si volesse mettere sotto accusa qualcuno, bisognerebbe occuparsi del Pg, della sua proposta indecente e del mandante. Che, se si chiamasse Obama, sarebbe già sotto impeachment.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano