di Marco Travaglio - 7 dicembre 2011
20 anni di trattative (almeno tre) minuto per minuto nelle ultime indagini dei pm di Palermo, che interrogano politici e funzionari della Ie della II Repubblica
Qualunque trattò con la mafia per una malintesa “ragion di Stato”, qualcun altro per salvarsi la pelle, altri ancora per fermare le stragi di mafia che avevano messo in ginocchio l’Italia, altri infine per favorire Cosa Nostra in cambio di voti. Ma il risultato delle trattative – che sono almeno tre, nel biennio terribile 1992-1994 – fu comunque devastante: Cosa Nostra, che con la svolta terroristica di Riina, di Bagarella e dei Graviano, aveva gettato le basi per la sua fine, rinacque a nuova vita, grazie a una formidabile arma di ricatto sulla politica tutta: una cambiale che forse non ha ancora finito di incassare dallo Stato. Ecco l’agghiacciante conclusione a cui è giunta la Procura di Palermo nell'indagine sui negoziati Stato-mafia che fecero da sfondo alle stragi del 1992-‘93 e che hanno condizionato la politica negli ultimi 17 anni. Di questo ha parlato o dovrà parlare nei prossimi giorni davanti ai pm una lunga fila di politici, ufficiali dei Carabinieri, dirigenti delle forze dell’ordine e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). In veste di testimoni, con l’obbligo di dire la verità. Possibilmente, tutta.
1985-1987. Il rapporto di pacifica convivenza tra lo Stato e Cosa Nostra entra bruscamente in crisi quando il Pool antimafia di Falcone, Borsellino e altri valorosi magistrati alza il tiro delle indagini e, col maxi-processo alla Cupola nato dalle rivelazioni dei primi pentiti Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Nino Calderone, comincia a occuparsi anche di politici: Vito Ciancimino e i cugini Nino e Ignazio Salvo. Con l’arresto dei primi intoccabili, tutti dirigenti della Dc siciliana, ben si comprende che nulla sarà più come prima.
1987. La reazione di Cosa Nostra al maxi-processo non si fa attendere: la mafia decide di punire la Dc dirottando i suoi voti in Sicilia sul Psi e, in misura minore, sui Radicali (ritenuti utilissimi per il loro ipergarantismo). Per agganciare Craxi, o qualcuno del suo entourage, nel novembre 1986 il boss catanese Nitto Santapaola organizza un attentato dimostrativo alla villa milanese di Silvio Berlusconi, in via Rovani, nel tentativo di usare come tramite un vecchio amico dei mafiosi ben inserito in casa del Cavaliere: Marcello Dell’Utri. Alle elezioni politiche del 1987 la mafia vota e fa votare per il Psi, che in Sicilia candida come capolista Claudio Martelli. Nel 1989 gli attentati mafiosi a Catania contro i grandi magazzini Standa (all’epoca di proprietà di Berlusconi), interrotti – secondo i giudici – grazie alla mediazione del solito Dell’Utri.
1991. Il rapporto coi socialisti delude Cosa Nostra, che torna ad appoggiare la Dc alle elezioni siciliane, facendo eleggere deputato regionale – sempre secondo i magistrati – l’andreottiano Giuseppe Gianmarinaro. Anche perché i cugini Salvo e il plenipotenziario di Andreotti nell’isola, Salvo Lima, hanno garantito che il maxi-processo verrà annullato in Cassazione dal solito Corrado Carnevale, detto l’“Ammazzasentenze”.
1992, gennaio. Grazie alla rotazione dei presidenti alla Suprema Corte – sollecitata dal ministro della Giustizia del governo Andreotti, Claudio Martelli, su input del direttore degli Affari penali Giovanni Falcone – a presiedere il collegio del “maxi” non è Carnevale, ma Arnaldo Valente. Il 30 gennaio la Corte conferma le condanne dei boss, molti dei quali non usciranno vivi dal carcere.
1992, febbraio-marzo. La reazione di Riina, de-legittimato agli occhi dei padrini detenuti e dell’organizzazione tutta, contro i politici che l’hanno “tradito”, è rabbiosa e feroce: il 12 marzo fa assassinare l’eurodeputato Salvo Lima e, pochi mesi dopo, l’altro garante del patto non rispettato, Ignazio Salvo (il cugino Nino è morto per conto suo qualche mese prima). Ma nel mirino del capo dei capi ci sono anche altri politici considerati “traditori”: i siciliani Calogero Mannino (Dc, ministro del Mezzogiorno nel governo Andreotti), Carlo Vizzini (Psdi, ministro delle Poste e Telecomunicazioni), Sebastiano Pur-pura (Dc corrente Lima, assessore regionale al Bilancio) e Salvo Andò (dirigente socialista catanese e futuro ministro della Difesa), più Claudio Martelli (Psi, ministro della Giustizia, eletto in Sicilia nel 1987), e l’allora premier Giulio Andreotti, senatore a vita e favoritissimo per il Quirinale (la cui corrente ha la sua magna pars nell’isola). Gli interessati lo sanno in tempo reale. Il 16 marzo, in una nota riservata del capo della Polizia Vincenzo Parisi che cita una fonte anonima e che è stato rinvenuto di recente dagli inquirenti, si legge: “Sono state rivolte minacce di morte contro il signor Presidente del Consiglio e i ministri Vizzini e Mannino... Per marzo-luglio campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica (Andreotti, ndr)... Strategia comprendente anche episodi stragisti”. Quattro giorni dopo, in commissione Affari costituzionali del Senato, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti parla di un “piano destabilizzante” contro lo Stato. Tangentopoli intanto, detonata il 17 febbraio con l’arresto di Mario Chiesa, demolisce dalle fondamenta una classe politica che non si regge più in piedi. Cosa Nostra si attiva subito per crearsi nuovi referenti politici intorno a vaghi progetti secessionisti (le famose “leghe meridionali”), sul modello della Lega Nord che spopola nel Lombardo-Veneto.
1992, aprile-maggio. Accantonato il progetto di eliminare Andreotti, o uno dei suoi figli, a causa delle eccezionali misure di sicurezza, Riina ordina di eseguire una condanna a morte emessa da tempo: quella contro il simbolo del “maxi”, Giovanni Falcone. “Quando venne ucciso Lima – racconterà Giovanni Brusca – Riina mi disse che Ciancimino e Dell’Utri si erano proposti come nuovi referenti per i rapporti con i politici”. Il 21 maggio Paolo Borsellino rilascia una clamorosa intervista a due giornalisti francesi di Canal Plus, in cui parla di vecchie e nuove indagini sul mafioso Vittorio Mangano, già “stalliere” ad Arcore, e sui suoi rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. L’intervista non va in onda (verrà scoperta da Rainews24 solo nel 2000), ma è probabile che giunga agli orecchi dell’entourage berlusconiano, visti i rapporti della Fininvest col mondo televisivo francese. Due giorni dopo, il 23 maggio Falcone, la moglie e la scorta saltano in aria a Capaci: proprio alla vigilia della prevista elezione di Andreotti a presidente della Repubblica. Il senatore, messo kappaò dall'uno-due Lima-Falcone, deve cedere il passo all’ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro.
1992, giugno. Il giorno 8 i ministri Scotti e Martelli firmano un durissimo decreto antimafia che perfeziona il 41-bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che regola l’isolamento carcerario per i boss: il Parlamento ha due mesi di tempo per convertirlo in legge, ma i partiti, asciugate frettolosamente le lacrime per Capaci, non paiono granché intenzionati a farlo. Intanto Scalfaro incarica Giuliano Amato di formare il nuovo governo (anche Craxi è ormai fuori gioco e attende il suo primo avviso di garanzia per Tangentopoli). Negli stessi giorni Marcello Dell’Utri, presidente di Publitalia e braccio destro di Berlusconi, avvia il “progetto Botticelli”: incarica Ezio Cartotto, consulente di Publitalia ed ex esponente della Dc lombarda, di studiare un’iniziativa politica della Fininvest per sostituire i vecchi referenti partitici del gruppo, travolti dagli scandali e giudicati inservibili. Anche lui insomma, come Cosa Nostra, si attiva per riempire il vuoto politico. Frattanto il capitano Giuseppe De Donno del Ros dei Carabinieri aggancia Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo “don” Vito, durante un viaggio aereo, comunicandogli che il suo superiore, colonnello Mario Mori, vicecomandante del Ros, vuole incontrare suo padre per vedere come si possano fermare le stragi. Parte quella che non solo Ciancimino jr. e numerosi mafiosi pentiti, ma anche i magistrati considerano la prima vera e propria trattativa fra lo Stato e la mafia. Da quel momento Vito Ciancimino diventa il tramite fra il Ros e il vertice di Cosa Nostra, rappresentato da Riina e Bernardo Provenza-no (Ciancimino è legatissimo soprattutto a quest’ultimo). Nonostante le smentite di Mori, i magistrati si sono convinti che Mori avesse avviato i primi colloqui con Ciancimino già prima della strage di via D’Amelio, cioè almeno a metà giugno. Riina è felicissimo: come racconta Giovanni Brusca, in una riunione tenuta nei primi giorni di luglio, “Riina andava mostrando orgoglioso un papello con una serie di richieste: dall’abolizione del carcere duro alla revisione dei processi” e ripeteva: “Lo Stato finalmente si è fatto sotto, gli abbiamo fatto un papello così”. Il papello di Riina viene consegnato ai Ciancimino dall’intermediario Antonino Cinà, medico legato a Cosa Nostra. Don Vito ne passa subito una copia – come racconta il figlio – al fantomatico “signor Carlo” o “Franco”, uomo dei servizi segreti che segue come un’ombra l’ex sindaco. A sua volta Carlo-Franco, sempre secondo Massimo, fa avere il papello a Mori (che nega di averlo mai visto e “data” i primi colloqui con Ciancimino soltanto dopo la strage di via D’Amelio). Il papello contiene le richieste della mafia allo Stato in cambio della fine delle stragi: via il 41-bis (appena istituzionalizzato dal decreto Scotti-Martelli ), i benefìci ai pentiti, l’ergastolo e il sequestro dei beni ai mafiosi, norme per consentire ai mafiosi la “dissociazione come le Brigate rosse” e la revisione del “maxi”, e così via. Fra il 17 e il 19 giugno 1992 Martelli avverte Paolo Borsellino – che indaga forsennatamente sulla morte di Falcone – dei colloqui in corso fra il Ros e Ciancimino, e lo fa attraverso Liliana Ferraro, la giudice che ha sostituito Falcone al ministero. La Ferraro incontra il magistrato in una saletta dell’aeroporto di Fiumicino. Subito dopo vede anche il futuro ministro della Difesa Salvo Andò. “Mio marito – racconta Agnese ai pm – non mi fece partecipare all’incontro con la dottoressa Ferraro. E non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò: cioè che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per uccidere Paolo con l’esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: ‘Come mai non sa niente?’. In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco, ma Paolo non lo sapeva. Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore”. Intorno al 25 giugno Borsellino incontra Mori, ma non nel suo ufficio in Procura, bensì in un luogo più defilato: la caserma dei Carabinieri di via Carini a Palermo. Mori oggi nega che si sia parlato dei suoi colloqui con Ciancimino, ma i pm non gli credono: è altamente improbabile che Borsellino, appena informato dalla Ferraro, non abbia chiesto spiegazioni al diretto interessato. Anche perché quei “colloqui” tra mafia e pezzi dello Stato erano diventati una delle sue ossessioni.
Il 28 giugno si insedia il governo Amato. Pressioni indicibili per rimuovere Vincenzo Scotti dall’Interno e Claudio Martelli dalla Giustizia: cioè i due ministri di Andreotti che, nell’ultimo biennio, sotto l’impulso di Falcone al ministero, hanno varato dure leggi antimafia. Martelli punta i piedi e riesce a farsi confermare Guardasigilli dal Psi. Invece la Dc scarica Scotti, dirottato agli Esteri e rimpiazzato al Viminale da Nicola Mancino, considerato a torto o a ragione più “morbido”, forse perché esponente della sinistra Dc, la corrente di Calogero Mannino. Quello stesso Mannino che Riina voleva eliminare. Lo racconta Brusca, nelle sue recentissime dichiarazioni dinanzi ai pm: “Era stata stilata una lista di politici da uccidere. Per Mannino avevo già avviato gli appostamenti, poi a metà luglio fu bloccato tutto”. Oggi, a insospettire i pm, ci sono gli ottimi rapporti esistenti fra Mannino e l’allora comandante del Ros, generale Antonio Subranni, agrigentino di adozione mentre Mannino lo è di nascita. Un ulteriore elemento che potrebbe spiegare la trattativa del Ros come un tentativo dei politici nel mirino di salvarsi la pelle. La vedova Borsellino, Agnese, racconta che poche ore prima di morire il marito le confidò che Subranni era addirittura “punciutu”, cioè affiliato a Cosa Nostra (l’interessato ovviamente smentisce). Martelli ricorda di essersi “lamentato col ministro dell’Interno Mancino della condotta del Ros: ‘Che stan facendo questi? Perché pigliano iniziative autonome?’”. Mancino nega pure quel colloquio.
1992, luglio. Il giorno 1 Borsellino è a Roma per sentire un nuovo pentito, Gaspare Mutolo, che da tempo chiede di parlare con lui, ma che solo ora Giammanco l’ha autorizzato a interrogare. Mutolo preannuncia a Paolo che parlerà dei rapporti con Cosa Nostra di uomini delle istituzioni: il numero tre del Sisde Bruno Contrada e il giudice Domenico Signorino. Durante l’interrogatorio, Borsellino viene convocato d’urgenza al Viminale, dove si sta insediando il ministro Mancino. Il giudice incontra sicuramente il capo della Polizia Vincenzo Parisi e quel Contrada di cui Mutolo gli aveva appena parlato e di cui da anni il giudice diffidava, come pure Falcone. È pure certo – lo testimonia il collega Vittorio Aliquò, che lo accompagnava – che Borsellino viene condotto fin davanti all’ufficio di Mancino. Il quale però nega di averlo incontrato, se non forse per una sbrigativa “stretta di mano”. Sta di fatto che, tornato da Mutolo, Borsellino è sconvolto, fuma due sigarette alla volta, confida al pentito di aver appena visto Contrada. E quella sera, sul suo diario (l’agenda grigia, ritrovata dagli inquirenti diversamente da quella rossa, scomparsa dalla scena di via D’Amelio), annota “ore 18.30 Parisi, ore 19.30 Mancino”. Mancino smentirà anche l’agenda di Borsellino.
Sul fronte mafioso, Riina è deluso per lo stallo della trattativa, forse per il cambio di governo, o forse per l’azione di disturbo messa in campo da Borsellino che non ne vuole sapere. Sta di fatto che confida a Brusca, come riferisce quest’ultimo: “Si sono rifatti sotto. Bisogna dare un altro colpetto per convincere chi di competenza a trattare”: cioè alzare il tiro e dunque il prezzo della trattativa, visto che il papello era giudicato “troppo esoso”, e indurre lo Stato a più miti consigli con una nuova, terribile, spettacolare prova di forza. Come? Con l’assassinio di Borsellino, che si sta mettendo di traverso sulla strada della trattativa. “Le trattative esistenti furono – aggiunge Brusca – la causa determinante dell’accelerazione del progetto di eliminazione del dottor Borsellino. Sotto sotto, siamo stati pilotati dai Carabinieri”. Borsellino confida alla moglie che gli “resta ancora poco tempo” e intensifica furiosamente i ritmi di lavoro per venire a capo dei retroscena di Capaci. Sabato 18 luglio – ricorda Agnese – “feci una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza la scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accadesse. Pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione... Mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato’. Me lo disse intorno a metà giugno. Nello stesso periodo mi disse che aveva visto ‘la mafia in diretta’, parlandomi di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato”. Fra i quali, secondo Agnese, Subranni. Domenica 19 luglio Borsellino e i suoi uomini saltano in aria in via D’Amelio, davanti alla casa dell’anziana madre del magistrato dove, nonostante i ripetuti solleciti della scorta, nè Giammanco né la Prefettura né la Questura hanno vietato il posteggio alle auto. Sulla strage le forze dell’ordine attuano una spettacolare operazione di depistaggio, per far ricadere la colpa su alcuni quacquaracquà della manovalanza criminale, come i falsi pentiti Scarantino e Scandura: operazione smascherata di recente dal pentito Gaspare Spatuzza, vero esecutore della strage su mandato dei fratelli Graviano.
1992, agosto-settembre. Il 1° agosto, sull’onda dell’emozione per via D’Amelio, il Parlamento converte finalmente in legge il Decreto antimafia di Martelli e Scotti, approntato dal governo Amato dopo Capaci, ma subito accantonato dai partiti. Il 41-bis viene inasprito e subito sperimentato da centinaia di mafiosi prelevati nella notte dopo la strage e tradotti nei supercarceri di Pianosa e Asinara. In Cosa Nostra si apre il dibattito sull’efficacia della strategia stragista di Riina, che ha “costretto” lo Stato al giro di vite antimafia. I colloqui e le trattative Ros-Ciancimino proseguono per tutta l’estate (e non solo quelle: c’è anche il negoziato avviato con i carabinieri da uno strano confidente, Paolo Bellini, per mitigare le condizioni carcerarie dei boss in cambio del ritrovamento di alcune opere d’arte rubate da mafiosi o da malavitosi in contatto con loro). Intanto, a Roma – come racconta oggi ai pm Edoardo Fazioli, numero due del Dap – alla direzione delle carceri si discute una normativa che consenta ai mafiosi di uscire dall’isolamento (appena consacrato col decreto sul 41-bis) senza l’obbligo di collaborare con la giustizia, ma semplicemente dissociandosi a costo zero dall’organizzazione: proprio come chiede Riina nel papello. La politica distensiva dello Stato richiede una risposta analoga da Cosa Nostra. Infatti, negli stessi giorni, Bernardo Provenzano (vero referente di Ciancimino, che vede con sospetto la follia sanguinaria di Riina) viene individuato come l’interlocutore più credibile per gestire la Pax Mafiosa che seguirà alle stragi. Riina ormai è bruciato.
1992, ottobre-dicembre. Ciancimino chiede più volte di essere sentito dalla commissione Antimafia, presieduta dal 25 settembre dal Pds Luciano Violante. Lo fa pubblicamente, senza alcun esito, ma anche riservatamente tramite Mori, che a settembre incontra Violante e gli propone un tête à tête segreto con l’ex sindaco. Violante rifiuta e chiede a Mori se abbia informato la Procura di Palermo. Ma, alla risposta negativa del colonnello (“è cosa politica”), si guarda bene dal domandare all’alto ufficiale spiegazioni su quella “cosa politica” (c’è una trattativa con dei mafiosi? E chi l’ha decisa? E quali politici l’hanno avallata? E a quale fine?). Ma, soprattutto, si guarda bene dall’informare egli stesso i magistrati, i quali – sapendo o intuendo trattative fra Stato e mafia – avrebbero potuto bloccarle sul nascere, come avrebbe voluto fare Borsellino se non gli fosse stato impedito col tritolo. La circostanza sembra confermare il racconto di Massimo Cianci-mino: suo padre voleva saggiare la copertura politica del Ros, per evitare di bruciarsi le dita, e chiese al signor Franco-Carlo che la trattativa fosse garantita politicamente dal governo (e lì sarebbe giunto l’avallo di Mancino), ma anche da Violante per l’opposizione (ma su quel fronte l’esito fu negativo). Ciancimino jr. racconta pure che, sullo scorcio del 1992, Provenzano fece recapitare a suo padre, e da lui al Ros, le mappe della città di Palermo con i possibili nascondigli di Riina. Il Ros nega. In ogni caso, la trattativa s’interrompe bruscamente perché don Vito (finora agli arresti domiciliari) viene improvvisamente arrestato il 19 dicembre per uno strano autogol (secondo Massimo, suggerito dai Carabinieri): una bizzarra richiesta di riavere il passaporto, che fa pensare a un improbabile progetto di fuga e innesca il suo arresto.
1993, gennaio. Il giorno 15 anche Riina viene arrestato a Palermo dagli uomini del Ros. I quali, com’è noto, ingannano la Procura (dove s’è appena insediato il nuovo capo Gian Carlo Caselli) e ottengono il rinvio sine die della perquisizione del covo, con la falsa promessa di sorvegliarlo notte e giorno. In realtà abbandonano subito il covo, lasciandolo incustodito e consentendo a Cosa Nostra di perquisirlo, svuotarlo (secondo Brusca, anche dell’originale del “papello” e di altre carte inerenti la trattativa) e ripulirlo indisturbati. Secondo le confidenze di Ciancimino al figlio, quello era il prezzo da pagare a Binnu in cambio della testa di Riina. Brusca racconta che, all’indomani dell’arresto di Riina, Leoluca Bagarella “voleva fare un attentato a Mancino, terminale finale della trattativa” Ros-Ciancimino, che aveva portato solo guai a Cosa Nostra: “Ci sentivamo usati, traditi”. Finora, in effetti, la trattativa ha sospeso la strategia stragista di Cosa Nostra, facendo respirare lo Stato, e ha consentito alla classe politica di rilegittimarsi nonostante gli scandali, sventolando lo scalpo di Riina. Ma nessun vantaggio ha portato alla mafia. Don Vito, dopo il suo arresto, si convince di essere stato estromesso dalla trattativa per aprire la strada a un nuovo referente che si sarebbe fatto avanti nel frattempo: a suo dire, Marcello Dell’Utri. Il quale infatti, a cavallo tra il 1992 e il ‘93, ha ideato con Berlusconi l’embrione del partito Fininvest, che si chiamerà Forza Italia. E così Vito Ciancimino, poco dopo l’arresto, nei primi mesi del ‘93 si sfoga in un appunto vergato nervosamente in carcere: “In piena coscienza oggi posso affermare che sia io, che Marcello Dell’Utri ed anche indirettamente Silvio Berlusconi siamo figli dello stesso sistema, ma abbiamo subito trattamenti diversi soltanto ed unicamente per motivi ‘geografici’. Sia Ciancimino che Dell’Utri sono cresciuti imprenditorialmente a stretto legame con esponenti legati al noto mondo politico mafioso secondo quanto già scritto in noti rapporti giudiziari. Già la Interpol di Milano nei primi anni ‘80 aveva ampiamente accertato la vicinanza ed i rapporti diretti di Dell’Utri con noti esponenti mafiosi... Siamo figli della stessa Lupa...”. La prima trattativa finisce qui. Avanti con la seconda.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano