di Marco Travaglio - 8 gennaio 2011
Anche quest’anno le massime autorità politiche, civili, religiose, giudiziarie e giornalistiche hanno commemorato l’anniversario dell’assassinio di Piersanti Mattarella, l’ex presidente Dc della Regione Sicilia assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1980. E, anche quest’anno, hanno tuonato contro i depistaggi e le collusioni che ostacolano l’accertamento della verità. “Fare luce”, “non guardare in faccia nessuno” e “non abbassare la guardia”.
Queste celebrazioni sono tutte uguali: non si fa mai un nome, a parte – si capisce – quelli dei morti. Il procuratore Piero Grasso ha citato fra i depistatori Vito Ciancimino, opportunamente scomparso nel 2002. Già che c’era, ha parlato anche del fallito attentato dell’Addaura contro Falcone, accusando imprecisati “elementi che non hanno favorito il normale sviluppo delle indagini”. Grasso però aveva capito tutto: “Mi assumo il merito di avere iniziato uno stravolgimento della ricostruzione iniziale”. Del resto aveva capito tutto pure su Mattarella: “Io che ho iniziato a indagare 31 anni fa, ho avuto subito l’intuizione, che però non si è mai potuta dimostrare, che quello di Mattarella fu un delitto politico-mafioso. Ma nemmeno da Cosa nostra si riescono ad avere notizie”. Strano che nessuno dei cronisti presenti, anziché pendere dalle sue labbra, gli abbia rammentato un paio di sentenze della Cassazione. Quella sull’Addaura parla dell’“infame linciaggio” subìto da Falcone a opera di “ambiti istituzionali” per “delegittimarlo”, lasciando o facendo credere che la bomba al plastico se la fosse messa da solo: “Autorevoli personaggi pubblici” come i giudici Sica e Misiani (ai vertici dell’Alto Commissariato antimafia) e l’allora colonnello Mario Mori “si lasciarono andare a imprudenti dichiarazioni” sulla “non funzionalità dell’ordigno” e “contribuirono indirettamente a fornire lo spunto ai molteplici nemici e detrattori del Giudice per inventare la tesi dell’attentato falso o simulato”. Quanto a Mattarella, nella sentenza del 2003 della Corte d’appello di Palermo, confermata dalla Cassazione su Andreotti (prescrizione per il “reato commesso” di mafia fino al 1980), si legge che il sette volte premier, ora senatore a vita, “ha indicato” ai boss, Bontate in primis, “il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli di fatti gravissimi (come l’assassinio Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare sull’omicidio Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. Egli non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia all’incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità e i loro disegni. A seguito del tragico epilogo, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi e ad allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è ‘sceso’ in Sicilia per chiedere al Bontate conto della scelta di sopprimere il presidente della Regione. I mafiosi si sono determinati ad alzare il tiro su un così eminente esponente del partito di maggioranza relativa anche perché contavano sull’appoggio di ancora più importanti personaggi politici”. Come Andreotti. Ora, è improbabile che Grasso non conosca questa sentenza, ed è offensivo pensare che non ne parli perché, da procuratore di Palermo, lasciò soli i suoi pm rifiutando di firmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado. E allora vien da domandarsi perché non la citi mai nessuno. Forse perché fare nomi non conviene? Nel qual caso tanto vale evitare la prossima fiera del tartufo, abolire la commemorazione di Mattarella e derubricare il caso a suicidio. Anzi, a tragica fatalità.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
L'intervento di Grasso: "Non mollai i miei pm"
di Pietro Grasso* - 9 gennaio 2011
Gentile Direttore, non è mia abitudine instaurare momenti di conflittualità coi giornalisti, anche attraverso iniziative giudiziarie, proprio perché sono portato a presumere la buona fede in chi esercita la difficile professione di riferire e commentare fatti, documenti e comportamenti.
Rimango sconcertato, però, nel verificare come questa “assenza di malafede” possa essere messa in dubbio dalla lettura dell’articolo del suo giornale, dal titolo “Il suicidio Mattarella”, a firma di Marco Travaglio, pubblicato in prima pagina nell’edizione di ieri, sabato 8 gennaio, sulle cui tesi non intendo confrontarmi, se non per quello che mi riguarda personalmente.
Nel ringraziare l’autore del suo manifestato intento di non essere offensivo (…sarebbe offensivo pensare che…), tuttavia, a parte l’artificio dialettico, il tenore della frase lascia intendere che, nelle pur estemporanee battute sul luogo dell’omicidio Mattarella, in occasione del 31° anniversario, alle domande di giornalisti che “pendevano dalle mie labbra”, avrei volutamente omesso di citare la sentenza d’appello “Andreotti”, perché da Procuratore di Palermo (sic) “lasciai soli i miei pm, rifiutando di firmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado”. Tale affermazione, mi attribuisce una motivazione non solo non espressa, di cui il giornalista inopinatamente si fa interprete, ma serve da pretesto per introdurre due fatti non veri, comunque ingenerosi e lesivi del prestigio di un capo dell’ufficio, che si è sempre assunto le responsabilità delle proprie scelte.
Innanzitutto, coerentemente col mio ruolo, appena attribuitomi dal CSM dopo il trasferimento del mio predecessore alla direzione del DAP, mi sono schierato accanto ai sostituti che avevano condotto l’accusa al dibattimento, presenziando alla lettura del dispositivo di primo grado.
In secondo luogo, come l’articolista, attento lettore di atti processuali, avrà modo di riscontrare (nel caso in cui non ne fosse a conoscenza, non avendo la presunzione che conosca le mie ripetute dichiarazioni o pubblicazioni sul punto), dagli stessi pm del processo potrà apprendere che come persona informata dei fatti sono stato sentito, nella qualità di giudice “a latere” del maxiprocesso, sia in istruttoria che in dibattimento e che il rispetto delle regole procedurali impone in tali casi l’astensione da atti che possano determinare eventuali incompatibilità nei successivi gradi di giudizio. In ogni caso, da un giornalista, di cui è nota la professionalità, mi sarei aspettato quantomeno di esser interpellato per un doveroso controllo delle sue fonti.
Se posso fornire la mia autentica motivazione, le mie parole, in occasione dell’anniversario dell’omicidio Mattarella, al di là di qualsiasi strumentalizzazione, sono state perfettamente in linea con valutazioni, frutto di anni e anni di indagini e di processi, che ritenevo ormai acquisite e storicizzate nella memoria collettiva, limitandomi a citare un misconosciuto episodio di depistaggio delle indagini, attribuito a Vito Ciancimino nella sentenza per i c.d. omicidi politici, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa.
Poiché non è la prima volta che vengo sottoposto ad attacchi personali – sempre dallo stesso giornalista e nel suo giornale – auspico il suo autorevole intervento, per rendere noti ai suoi collaboratori i motivi del mio disagio e, nell’esercizio delle sue funzioni di garante di una corretta informazione, mi aspetto la pubblicazione di questa mia lettera con una evidenza proporzionata alla precedente pubblicazione.
* Procuratore Nazionale Antimafia
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
La replica di Marco Travaglio
Ma quei pm lo smentiscono
di Marco Travaglio - 9 gennaio 2011
Nessuna “tesi”, né illazione che “lascia intendere”, né “fatti non veri”. Un fatto vero è che Grasso non firmò l’atto di appello dei suoi pm contro l’assoluzione in I grado di Andreotti; non solo, ma rifiutò persino di apporvi il suo “visto” rituale. La qual cosa gli valse il vivo apprezzamento dei giornali berlusconiani, che la lessero come una presa di distanze da chi quel processo aveva istruito (Caselli, Lo Forte, Scarpinato e Natoli). Grasso poteva smentirli con una lettera tipo questa, ma purtroppo non lo fece. Siccome sono abituato a verificare i fatti prima di scriverli, ho appreso dalla viva voce di quei pm che Grasso spiegò loro che non sottoscriveva l’appello perché non aveva avuto il tempo di leggerlo (per fortuna, godono tutti di ottima salute e possono confermare o smentire). Mesi dopo, nel divampare delle polemiche, cambiò versione e scoprì improvvisamente di non avere firmato perché aveva testimoniato al processo Andreotti. Quanto al resto, l’articolo incriminato è una sintesi esaustiva delle sue dichiarazioni alla commemorazione di Mattarella e di due verdetti di Cassazione che le smentiscono platealmente. La Cassazione fa i nomi di alcuni depistatori delle indagini sull’Addaura, Grasso parla di imprecisati “elementi che non hanno favorito il normale sviluppo delle indagini”. Sul delitto Mattarella, Grasso dice di aver subito intuito che “fu un delitto politico-mafioso”, ma “non si è mai potuto dimostrarlo” perché nessuno, nemmeno “dall’interno di Cosa nostra” ha fornito notizie utili. La sentenza definitiva su Andreotti invece ricorda i mafiosi pentiti, in primis Marino Mannoia, ritenuti totalmente credibili, che seppero e/o addirittura furono testimoni oculari dei due incontri in Sicilia fra Bontate e Andreotti in cui i due parlavano del delitto Mattarella prima (1979) e dopo (1980) che fosse perpetrato. Come diceva Sciascia, “c’è una letteratura delle parole e una letteratura dei fatti”. Io preferisco la seconda.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano