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damelio 19luglio

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populismo 1di Nicola Tranfaglia
Mancava, nella linea politica di Matteo Renzi, dopo due anni di governo, uno scatto che desse finalmente una risposta a un quesito che ha accompagnato per anni l'ex sindaco di Firenze, asceso alla presidenza del Consiglio per sfinimento del partito che lo ha espresso continuando a restare diviso in due gruppi politici che non riescono più nemmeno a comunicare tra loro. In che senso, con l'ascesa al potere di Renzi, siamo usciti dal ventennio populista impersonato a lungo dall'uomo di Arcore?
A questa domanda che molti si sono fatti, anche tra i "professoroni" e tra i "gufi" che animano le giornate del presidente del Consiglio, la risposta migliore si trova in quella che l'attuale governo ha avuto il coraggio di definire una riforma della Rai e che è, invece, come è necessario chiarire ai nostri lettori, un atto centrale di un populismo di governo che, rispetto agli altri compiuti dal presidente-segretario, si qualifica con molta evidenza come il blitz di controllo dello strumento decisivo dei media. Approfittando dell'aria di festa e quasi di vacanza che i media e il governo hanno diffuso, nella seconda metà di dicembre, è arrivato a segno il “colpo” con cui Renzi ha realizzato ciò che neppure Berlusconi, negli anni dei suoi governi, era riuscito a realizzare in maniera compiuta: far dipendere l'azienda radiotelevisiva direttamente dal governo in carica senza altre possibili mediazioni e senza distinzioni di persone o di reti, di trasmissioni o di telegiornali. Come ad annullare il quadro democratico nella maniera più indolore possibile ma in maniera sicuramberlente efficace e totalizzante.

Un quotidiano tra i tanti che escono ancora nel Bel Paese, il Fatto quotidiano. è stato indicato come quello da mettere al bando in quanto ostile al presidente del Consiglio e il professor Marco Revelli, che lo ha detto nel suo ultimo saggio “Dentro e contro” (Laterza editore) come più volte avevo anche io scritto, ha specificato con precisione: "Come i populismi, Renzi usa un linguaggio caldo, emotivo, che sconvolge gli equilibri per indebolire o cancellare i corpi intermedi-sindacati, organizzazioni di categorie ed instaurare un rapporto diretto tra capo e le masse popolari. Lo fanno ormai un pò tutti ma la differenza è che Renzi lo ha fa dall'interno delle istituzioni. Renzi è molto coerente sul suo programma. Lavora a 360 gradi sulla riforma costituzionale, sulla legge elettorale, sull'assetto del Parlamento e del suo stesso Partito”. “Questa classe dirigente - continua il sociologo piemontese - salita al potere sulla base di filiere amichevoli e rapporti di fedeltà non è legittimata a parlare di modernità, è un sistema antico. Si guardi ai recenti fatti delle banche, con le figure dei 'babbi' e dei legami familiari arrivati da luoghi periferici, dalla Toscana a Roma, è il ritorno dello 'strapaese' che domina con strumenti bolsi. Ora, dopo la prima e la seconda repubblica, nella terza abbiamo figure di terza fila. Alla Rai si va a una narrazione addomesticata dettata dall'alto e monocorde. Accadrà anche ai grandi quotidiani e rimarranno ancor meno voci libere. Non ci sono più anticorpi al populismo di governi dopo la mutazione genetica del Partito democratico. Una parte di questi anticorpi sono diventati portatori sani della subalternità e così sono diventati trasmettitori del contagio".
Una diagnosi tutta pessimistica del futuro. La domanda è: ci sono speranze in un momento come questo e di fronte all'attivismo totalitario dell'ex sindaco di Firenze? Io non ne vedo ma mi piacerebbe sentire su questo punto anche i lettori che seguono il mio lavoro.

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