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di Saverio Lodato
Lasciatelo in pace, il povero Paolo Borsellino. Il quale morì di Patto Sporco.
Dopo ventisette anni, stiamo ancora a chiederci il perché e il per come di una strage, quella di via d’Amelio, annunciatissima da quell'altra, quella di Capaci, appena 57 giorni prima.
Alcuni hanno ancora voglia di celebrare. Ma celebrare cosa?
Alcuni hanno ancora voglia di sottilissimi distinguo, non morì per questo, morì per quello, la causa va ricercata a monte, no va ricercata a valle...
Cosa vogliono distinguere?
Fu la mafia, da sola. No, fu la mafia in bella compagnia.
Alcuni hanno ancora voglia di utilizzare le sue povere spoglie, quelle di Paolo Borsellino, per chiudere definitivamente i loro conti, ventisette anni dopo, con l'antimafia, quella di ieri e quella di oggi.
Cerchiamo di capirci.
Se 27 anni dopo, lo spettacolo è questo, ciò significa che qualcuno sta ancora lavorando per nascondere.
Paolo Borsellino morì di Trattativa Stato-Mafia. Morì per esserne stato informato, e per essersi messo di traverso. E la strage fu addirittura accelerata. Paolo Borsellino morì per essere riuscito a vedere il bandolo di quella matassa insanguinata che fu la Strage di Capaci.
Chi lo uccise voleva che le sue mani, mani investigative d’eccellenza, lasciassero cadere per sempre quel filo che era già abbondantemente insanguinato.
Paolo Borsellino morì perché doveva morire. Perché non c’era altra soluzione per togliersi dai piedi l’erede vivente di Giovanni Falcone, il quale, giusto per parlar chiaro, pochi giorni prima di via D’Amelio, aveva rilasciato una durissima intervista a un paio di giornalisti francesi, dilungandosi su Arcore, sullo stalliere di Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, e i “cavalli” che entravano e uscivano dagli alberghi.
Come spiegano, quelli che hanno ancora voglia di celebrare e di esercitarsi in causidici distinguo, che la Rai non volle mandare in onda quell'intervista?
Paolo Borsellino, se fosse rimasto vivo, il processo sulla Trattativa Stato-Mafia lo avrebbe istruito lui, con tre decenni di anticipo. Ci potete giurare.
Se ne facciano una ragione i denigratori della corte d’Assise di Palermo - presieduta da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille -, che ha inflitto a carabinieri, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, politici come Marcello Dell'Utri, e mafiosi come Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, le condanne che sappiamo.
Se queste nostre granitiche certezze non avessero qualche fondamento, non sarebbe mai esistito il clamoroso caso dell'agenda rossa.
Se quell'agenda fosse stata ritrovata, la stessa strage di via d'Amelio, sarebbe stata una gigantesca incompiuta criminale.
Capovolgiamo infatti il punto di vista: se in quell'agenda fossero state contenute banalissime bagatelle investigative, oggi avremmo sia la borsa, sia l‘agenda.
Giuseppe Ayala, che fu Pm al maxi processo - e che fu tra i primi in azione, sul campo, nell'inferno di via D’Amelio - perdette, purtroppo per tutti noi, una grande occasione investigativa. Ha ammesso di avere avuto in mano la borsa, ma “per un solo minuto“. E poi un passamano, al termine del quale, come per magia, la borsa si volatilizzò. E se invece, al posto di Ayala, la borsa fosse finita nelle mani di un passante senza arte né parte? Come sarebbe andata a finire? La controprova non c’è.
Comunque sia, ripetutamente interrogato sul punto, Giuseppe Ayala, avanti negli anni come tutti noi, a spiegazione di una quasi mezza dozzina di versioni differenti su questa circostanza, si è dichiarato pronto a rendere conto a Dio quando sarà, visto che su questa terra la memoria non lo aiuta più, nel ricordare a quali mani affidò la borsa della discordia. Ah se quel giorno Ayala avesse preso un piccolo appunto a futura memoria... E invece, lo ha raccontato lui stesso - e c’è da credergli su tutto -, diede ascolto a un amico giornalista che lo invitò a correre subito a casa, per tranquillizzare moglie e figli, visto che lui non era morto, come qualcuno aveva in un primo momento ipotizzato, mentre il morto era Borsellino. Che dire? Niente. Non c’è granché da dire.
Chissà che il buon Dio non decida di aiutare Ayala sin da ora, su questa terra, magari con un flash a posteriori, che tanto bene farebbe alle indagini su via d'Amelio.
Paolo Borsellino, insomma, oggi resta un gran bel problema da morto, dopo esserlo stato da vivo.
E ci sono infine quelli che continuano ad alimentare quegli autentici protocolli di Sion sull’argomento, rappresentati dalla tesi farlocca che Borsellino morì di appalti. Ci riferiamo, in questo caso, a giovanotti con gli alamari, anche loro oggi avanti negli anni come tutti noi che, prigionieri di una visione autistica di quanto accadde, nonostante valanghe di smentite processuali, restano convinti che non di Stato-Mafia morì Paolo Borsellino, ma di appalti. Che il Signore aiuti anche loro.
Nessun legame di parentela ci lega a Paolo Borsellino. Ma avendolo conosciuto, stimato e apprezzato, proviamo molta repulsione rispetto a quanto accade 27 anni dopo. Lui non se lo meritava.

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La rubrica di Saverio Lodato

Foto © Shobha/Paolo Bassani