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di Saverio Lodato
Non dovrebbe essere un mistero per nessuno che trent'anni fa Giovanni Falcone non riteneva che Giuseppe Pignatone, a quei tempi sostituto procuratore, stesse dalla sua stessa parte. Dicendo che non pensava di sentirsi parte della stessa barricata, sia chiaro che adoperiamo un eufemismo.
C’è chi perde la memoria e c’è chi preferisce perderla. Proveremo a rinfrescarla sia agli uni, sia agli altri, sia a noi stessi.
Ben consapevoli di addentrarci gratuitamente - cioè non richiesti - in un ginepraio.
Cosa pensava Falcone di Pignatone è riscontrabile in quelle striminzite paginette del suo diario elettronico rese pubbliche (ma il diario integrale non è mai stato ritrovato), poco dopo la strage di Capaci, dalla giornalista Liana Milella, che allora lavorava al Sole 24 Ore, mentre oggi è a Repubblica.
Falcone, non dava giudizi lodevoli di Pignatone. Basta rileggerli.

18 dicembre 1990: "Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina [Michele Reina, segretario provinciale della Dc, ndr], Mattarella e La Torre [Pio La Torre, segretario regionale del Pci, ndr], stamattina gli [a Giammanco, ndr] ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al gi [giudice istruttore, ndr] di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone [Giuseppe Pignatone, pm di Palermo, ndr] insistono per richiedere al gi soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo".
10 gennaio 1990: "I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del gi Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati [il 16 marzo 1988, ndr] per ordine di Curti Giardina [Salvatore Curti Giardina, ndr] tre anni addietro con imputazione di peculato [per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonio Calderone, su mafia-politica-imprenditoria, ndr]. Il gi ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il pm Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una «ardita» ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca".
26 gennaio 1991: "Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo [Giammanco, ndr], che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara [segretaria di Licio Gelli, ndr]. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta (...)".

Personalmente, non abbiamo mai ben capito in base a quale curriculum sul campo Giuseppe Pignatone sia diventato il capo della Procura più importante d'Italia.
Fatto sta che a Reggio Calabria e a Roma ebbe innegabili exploit investigativi con le operazioni "Crimine" e “Mafia Capitale”.
Ho letto, in questi giorni dello scandalo Csm, articoli di colleghi romani assai accorati sul “nome Pignatone” che sanno un po' troppo di panegirico.
Colleghi, per altro, che i fatti li conoscono benissimo.
Inviterei tutti a maggior prudenza.
Pignatone ha fatto un gran finale di carriera ma la storia va raccontata tutta e per intero.
Lasciategli godere la pensione, che è bellissima cosa, come sa chi scrive.

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La rubrica di Saverio Lodato

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