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di Saverio Lodato
Con Gianni Parisi, morto in ospedale a Palermo a seguito di una complicazione chirurgica, se ne va un pezzo della storia bella del Pci siciliano, un partito che elettoralmente fu sempre piccolo, minoritario, poco premiato dall’elettorato. Soprattutto a Palermo, capoluogo difficile, moderato, conservatore, difficilmente incline al cambiamento.
Ciononostante, quel Pci di allora, nel quale Parisi rivestì sempre incarichi di prestigio e per lunghi anni, non fu mai assente dalle grandi battaglie per il lavoro e per i diritti, la difesa degli strati più deboli della società, per la pace a Comiso - furono gli indimenticabili tempi di Pio La Torre -; movimento, questo, finalmente di popolo, e che per un attimo fece davvero sperare che anche la Sicilia riuscisse a fare un gran balzo in avanti rispetto ai decenni precedenti della sua storia. Non andò così.
Dopo lo scioglimento del Pci, Gianni Parisi aveva aderito al Pds, ai Ds, e infine al Pd renziano. Ma a differenza di altri dirigenti di allora, che avevano semplicemente “cambiato residenza”, dimostrando una veloce, quanto sospetta e eccessiva adattabilità ai Tempi Moderni, Gianni Parisi, con il passato di coerenza e rigore che si portava sulle spalle, sfuggiva a qualsiasi banalizzazione, restando immune persino dalle eventuali riserve mentali dei suoi avversari o di chi non la pensava come lui. Insomma: uno come lui, poteva persino permettersi di essere “renziano”.
E di che stoffa fosse fatto, lo aveva ricordato quando, finito per sbaglio nel pentolone di un’indagine antimafia (dalla quale poi fu totalmente prosciolto), non pronunciò mai una parola contro i suoi giudici naturali, preferendo, invece, la via di un’autodifesa giudiziaria puntigliosa che poi lo avrebbe parzialmente ripagato per quanto umanamente era stato costretto ad attraversare.
Con Gianni Parisi se ne va dunque un pezzo di bella storia siciliana, per quanto minoritaria e mai premiata dall’elettorato, come sarebbe dovuto accadere.

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La rubrica di Saverio Lodato

Foto © Paolo Bassani

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