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falcone giovanni c ansa

di Saverio Lodato

Ormai sfidano il comune senso del pudore, occultando i fatti - fatti acclarati, documentati, scritti e argomentati - perché i fatti dicono inesorabilmente che lo Stato italiano, almeno da una settantina di anni a questa parte, ha evocato in laboratorio il mostro mafioso, lo ha gestito, se ne è servito, qualche volta facendo la voce grossa, nella stragrande maggioranza dei casi trattando, inchinandosi supinamente, in un continuo scambio di divise con i suoi avversari di fantasia, escogitato per confondere le acque. Perché questo è accaduto.
Così sono andate le cose. Difficile distinguere il mafioso, con il timbro di Cosa Nostra, dall’esponente delle istituzioni, nascosto, invisibile, ma con il timbro del Potere ben visibile e stampato in fronte.
E ora che questo scenario andrebbe finalmente spiegato ai cittadini, i quali in qualche modo avevano finito con il saperlo, intuendolo, o sospettandolo, diversamente non si sarebbe spiegata la Tragedia-Italia che, quanto a sangue, delitti e stragi, affonda i suoi natali nella pagina di Portella della Ginestra, ora, dicevamo, è calato un silenzio spettrale.
E mai si vide, e si era visto, un silenzio simile, su fatti che hanno sconvolto la vita dei cittadini.
Mai si era giunti all’assurdo di un’operazione di rimozione tanto gigantesca da fare apparire Orwell - che pure intravide letterariamente l’eventualità che il Potere, sotto ogni latitudine, ne fosse tentato -, un ragazzo di bottega che oggi si aggirerebbe smarrito nella grande officina della mistificazione.
Crediamo di sapere bene quali siano gli ingredienti di questo silenzio.
Questo silenzio sta a significare che tanta parte dello Stato italiano calzava una maschera di ferro. E che quella maschera di ferro tornò utile per seminare terrore e lutti, indipendentemente dai singoli frangenti, economici e politici, che attraversava l’Italia.
No. Non vogliamo cadere nel giochino di società di stabilire quale fosse la proporzione fra i mascherati e quelli che si battevano, a spese loro, e a viso aperto. Sappiamo, però, e di sicuro, che i mascherati vivevano e facevano carriera, gli altri, quando andava male, ci perdevano la vita. C’è dell'altro, che ne discende per conseguenza. Oggi questo silenzio sta a significare che i grandi giornali e le grandi tv dovrebbero riconoscere che per decenni fu raccontata la grande favola di uno Stato e di una Mafia quali entità distinte e contrapposte. Riconoscere, cioè, che si scelse la scorciatoia della retorica e del mendacio, pur di non guardare mai dentro le acque torbide perché avrebbero potuto riservare infinite - e sgradevoli - sorprese.
Ma va anche precisato che questo non è un silenzio fresco di giornata, è un silenzio che viene da molto lontano.
E qui ci rivolgiamo direttamente a voi, Anime Belle.
Alle Anime Belle che non credono sia mai esistita una Trattativa, un attacco - come si dice secondo il dizionario penale - a corpo politico dello Stato, attraverso le stragi di Capaci e via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano.
Alle Anime Belle che cominciarono con l’Antimafia e si ritrovarono in Parlamento dove misero radici.
Alle Anime Belle che iniziarono in magistratura, spinte dall'Esempio-Sacrificio di Falcone e Borsellino, e non solo, e si ritrovano oggi a cavillare sull’attività dei loro stessi colleghi, perché, sotto sotto, loro, le Anime Belle, inesorabilmente attratte ormai dalla voglia di far carriera.
Alle Anime Belle, duole dirlo, persino rappresentate in qualche famiglia che annoverò le sue vittime fra i caduti della “lotta alla mafia” e che sembrano essersi smarrite in alto mare.
Alle Anime Belle di un certo giornalismo antimafia che riconoscono il mafioso solo se ha la “coppola storta”, guai invece a parlarne se indossa giacca e cravatta. E si potrebbe continuare.
Alle Anime Belle, qualche volta rappresentate da improvvisati storici, un po' falsari e un po' farlocchi, che pur di negare la Trattativa fra il 1992 e il 1994 negano persino quella degli americani con Cosa Nostra, in vista dello sbarco in Sicilia nel 1944, quando gli stessi americani, da tempo, la riconoscono e la ammettono.
Chiediamo a voi, Anime Belle, che fine ha fatto la Trattativa Stato-Mafia? Perché ne avete parlato solo per ventiquattr’ore, a sentenza calda calda, come si dice? Ma soprattutto.
Secondo voi, quando Giovanni Falcone, qualche giorno dopo il fallito attentato dell'Addaura, denunciò pubblicamente l’esistenza di “menti raffinatissime” che stavano dietro Cosa Nostra, cosa intendeva dire?
Di che parlava?
A chi si riferiva?
Con chi ce l’aveva?
O Falcone straparlava?
Possibile che non capiate?
Lo chiediamo a voi, Anime Belle, proprio a voi che avete beatificato “Giovanni” solo dopo la sua morte: quali inquietanti presenze aveva intravisto Giovanni Falcone dietro i corvi che volteggiavano nel suo Palazzo di Giustizia, sin dalla prima metà degli anni ottanta?
E chiediamo a voi, anime belle, molte delle quali ancora lavorate in giornali e tv, come mai avete sempre lasciato cadere l’espressione "menti raffinatissime"? Perché tradite sempre una punta di imbarazzo, quando proprio siete costretti a ricordarla?
E invece di dire: ah se oggi ci fosse ancora Falcone, perché non provate a chiedervi di farvi forti da soli, mettendo in pratica le incommensurabili lezioni che vi lasciò Falcone, prima fra tutte quella del coraggio?
Domandiamoci infatti.
Quella espressione di Giovanni Falcone, a maggior ragione dopo la sua morte, non avrebbe forse dovuto rappresentare un grimaldello per cercare di capire cosa era effettivamente la mafia, chi ne tirava le fila, chi si nascondeva abilmente dietro la sua sagoma?
Incredibilmente, se noi dovessimo riassumere in due parole l’intera opera di Giovanni Falcone useremmo le sue “menti raffinatissime”. Come un ragazzino di scuola, per Cesare direbbe “il dato è tratto”, o per D’Azeglio “fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani”, o di Cicerone “il sino a quando Catilina abuserai della pazienza nostra?”, o per il Metternich “l'Italia è soltanto un’espressione geografica”... e così via, all’infinito, a riprova che il messaggio di tutti i grandi della Storia alla fine è condensabile in una manciata di parole pronunciate quando erano in vita. Dunque, per Falcone, il ragazzino di scuola direbbe: “Menti raffinatissime”... Non vogliamo farla lunga.
Oggi voi, Anime Belle, non riuscite ad articolare una frase di senso compiuto a commento della sentenza che ha chiuso il primo grado di processo alla Trattativa Stato-Mafia. E dire che nei cinque anni di dibattimento, vi eravate sbizzarriti in pronostici azzardati, giudizi di merito sugli argomenti dell’accusa simili a rasoiate, e giudizi di valore sull’operato personale degli stessi rappresentanti dell’accusa, dando colpi d’accetta al tronco di un albero che vi sembrava fosse lì lì per non reggere agli spifferi di vento.
E sapete bene a chi mi riferisco. A Nino Di Matteo che altre Anime Belle, quelle del Csm in questo caso, tentarono, invano, di neutralizzare definitivamente.
Scusateci per l’immagine, ma quel vostro ripetere sempre le stesse contumelie, richiamava molto da vicino un coro di pappagalli tropicali distinti fra loro solo dal colore delle piume. Identico era il verso.
Ora che le cose sono andate come sono andate, ve ne state zitte e mute - è sempre a voi che ci rivolgiamo Anime Belle - convinte che il tempo aggiusterà ogni cosa. Il che sarà vero. Molto spesso è vero.
Ma cos’è, a suo modo, questo “chiedere tempo”, se non ciò che chiede persino il generale Mario Mori, imputato-condannato a dodici anni (in primo grado, e lo precisiamo prima che riparta il coro dei pappagalli tropicali) quando chiede “alle pillole” di tenerlo in buona salute, sperando di poter “vedere la morte dei suoi nemici”? Va bene. Parole forti.
Ma il generale Mori non è tenuto a conoscere e uniformarsi al versetto di Matteo “è mio dovere pregare per i miei persecutori”, se non altro perché è parte in causa, è imputato, è condannato.
Ma lasciatecelo dire, Anime Belle: umanamente preferiamo l'augurio ferale del generale ai suoi “nemici” piuttosto che questo vostro silenzio, questo vostro far finta di nulla, in quest’Italia che ormai da tempo ha imparato a distinguere le maschere di ferro.

Foto © Ansa

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La rubrica di Saverio Lodato