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di Saverio Lodato
Forse, per qualche annetto, ce ne siamo liberati. Sul fronte della lotta alla mafia si respira finalmente aria pura. C’è silenzio, dopo la sentenza della seconda sezione della Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille, e i giudici popolari. Un silenzio tutt’altro che plumbeo, che ci ripaga dando finalmente tregua ai nostri timpani che troppe erano stati costretti a sentirne. Come per incanto, infatti, tamburi, fanfare, tromboni, hanno smesso di emettere note stonate.
Per sei anni, e anche più, il coro assordante: ma che vergogna il processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia; che boiata pazzesca; che violenza dello Stato di diritto pretendere di chiamare fior di galantuomini a rispondere di un reato tanto cervellotico, quanto mai contestato, come quello di minaccia a corpo politico dello Stato; che bei ceffi quei pubblici ministeri, da Nino Di Matteo a Vittorio Teresi, da Francesco Del Bene a Roberto Tartaglia, che si erano trasformati in cacciatori di farfalle, pur di dimostrare l’indimostrabile; riscrivere la storia degli anni ’90 con il carbone e il catrame della cronaca nera; mescolare a piacimento i “valori alti” della politica con la barbarie del delitto e delle stragi.
Quei lettori che qui ci seguono sanno benissimo di che stiamo parlando. Per oltre sei anni, in molti hanno puntato a fare deragliare il processo di Palermo. Per oltre sei anni, manine e manone interessate hanno cercato di manomettere quel congegno di ricerca della verità che si chiama semplice esercizio della giurisdizione. Per oltre sei anni, fu allestita una vera e proprio gogna mediatica che fosse da monito per tutti: il Potere non si tocca, i Potenti, anche se colpevoli, hanno da restare impuniti; i magistrati non possono spingersi oltre la cattura dei ladri di galline.
E si era visto il trattamento riservato a Nino Di Matteo: il pubblico ministero diventato, suo malgrado, simbolo del processo. Trattamento indegno, incivile, che la diceva lunga sulle autentiche finalità dell’Orchestrona che guidava le danze.
E invece, le cose hanno preso un’altra piega. Dimostrando, ove ce ne fosse bisogno, che ha avuto ragione, trecento anni dopo essere vissuto, e tanto avere scritto, il romanziere inglese Daniel Defoe quando affermò: “Signori, l’esperienza conferma quell’eterna massima secondo la quale non c’è altro modo per proteggere gli innocenti se non quello di punire i colpevoli”.
Ora vi chiederete: ma perché questo silenzio?
Cerchiamo di dirla così.
E’ sin troppo facile, in quest’Italia dove un Defoe sarebbe stato considerato  alla stregua di un pennivendolo colpevolista, buttarla in caciara, arruolando penne illustri e giuristi di fine concetto e storici sbrigativi e politici furbacchioni per tentare di stroncare sul nascere un processo che metteva paura. Un po’ più complicato, ora che quel processo è arrivato a sentenza, entrare nel merito dei suoi contenuti.
Contenuti che sono olio bollente per la politica italiana.
Parlare del processo, adesso, significherebbe parlare di Silvio Berlusconi. Significherebbe parlare della nascita di Forza Italia. Di Marcello Dell’Utri, che insieme a Berlusconi, quella Forza Italia fondò dal nulla (apparentemente, dal nulla, si intende). Significherebbe ricordare la sentenza del processo di Firenze sulle stragi di Roma, Milano e Firenze. Le parole contenute nella sentenza della Cassazione che misura cronologicamente dal 1974 al 1992 i rapporti fra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi mediati da Dell’Utri. Significherebbe parlare del clan dei Graviano, eccetera, eccetera, eccetera.
Ma come si fa?
Berlusconi è protagonista del siparietto politico che va avanti da due mesi in vista di un possibile nuovo governo. Vorreste sporcare con il carbone e il catrame della cronaca nera pagine così edificanti della nostra storia nazionale?
Accontentatevi.
Ecco spiegato il perché di questo silenzio assordante. Ma questo silenzio ci dice che la sentenza di Palermo non è affatto passata inosservata. Per ciò ce lo godiamo.
E’ un silenzio che ritempra i timpani. Tanto ormai tutti sanno tutto ciò che c’è da sapere.

Foto © ANSA

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La rubrica di
Saverio Lodato