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niceta dellutri riinadi Saverio Lodato
Domani a Bologna, se il copione sarà puntualmente rispettato, sulle solitarie spalle di un giudice di sorveglianza, graverà la decisione di pronunciarsi sulla detenzione di Totò Riina, il pluriergastolano capo di Cosa Nostra. A richiedere questo parere, la stessa Cassazione, preoccupata per le condizioni di salute del boss al quale dovrebbe essere garantita una "morte dignitosa", a prescindere dalla ferocia dei reati da lui compiuti durante decenni di omicidi, stragi e torture.
In sintesi: meglio sarebbe liberarlo per meglio poterlo curare.
L'occhio di riguardo della Suprema Corte verso lo "zio" Totò - a migliaia, infatti, si ritrovano dentro le carceri italiane in precarie condizioni di salute, ma restano ignorati - non poteva passare inosservato, provocando enormi reazioni di sdegno, un'autentica rivolta che ha accomunato familiari di vittime di mafia e la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica. Grande stampa e grandi televisioni si sono tenuti alla larga da giudizi e commenti, perché si potrebbe dire, saccheggiando in proposito il Manzoni, che chi il coraggio non ce l'ha, non se lo può dare.
I tempi sono cambiati, dalle stragi di Capaci e via d’Amelio è trascorso un quarto di secolo; e allora perché non tendere il ramoscello d'ulivo, scambiandosi un segno di pace con il clan dei Riina al gran completo, papà, moglie, figli e figlie?
Che dire?
Che ascolteremo le parole che dovrà pronunciare oggi, costretto dalla Cassazione, il giudice di Bologna.
Ma attenzione.
Il filone "sanitario-mafioso" si ingrossa.
Proprio l'altra sera, è entrato in scena, dagli schermi televisivi, Marcello Dell'Utri, condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa.
Sta male in salute. Lo hanno portato in ospedale per un intervento non realizzabile in carcere. Si è presentato in video al suo intervistatore con due cerotti che gli fasciavano i polsi. Ha ringraziato i medici, aggiungendo però che, fuori dal carcere, potrebbe essere curato meglio. Più o meno come sopra: meglio sarebbe liberarlo, per meglio poterlo curare. E poiché a Dell'Utri non è mai mancato un certo gusto per l'ironia, ha voluto definirsi un "prigioniero politico".
Che dire?
Che anche in questo caso ascolteremo con estremo interesse le parole che pronuncerà, fra qualche giorno, un altro giudice sulle cui fragili spalle peserà quest'altra decisione.
Infine, c'è Angelo Niceta.
Chi è? È un Signor Nessuno, per grandi giornali e grandi televisioni. È un imprenditore palermitano di 46 anni, appartenente a una notissima famiglia imprenditoriale palermitana del tessile, che si vede costretto quasi alla fame, insieme a moglie e figli, per avere duramente testimoniato contro il ruolo assunto (secondo lui) dai suoi parenti nelle tragiche vicende palermitane degli ultimi decenni.
Se non volete cadere nel trabocchetto della grande stampa che vorrebbe farvi credere che Angelo Niceta altro non sia che un Signor Nessuno, leggete qui l'intervista che qualche settimana fa gli ha fatto Giorgio Bongiovanni.
Ma la storia non è ancora finita.
Da 34 giorni, Niceta digiuna per protesta. Contro chi? È presto detto: contro coloro i quali non gli hanno voluto riconoscere lo status di "testimone". Che invece gli spetta di diritto: Niceta non è mafioso, non deve rispondere di alcun reato di mafia, e in assoluta spontaneità ha deciso di raccontare ai magistrati tutto ciò che sa della sua famiglia.
Gli hanno invece riconosciuto lo status di "collaboratore di giustizia", quasi fosse un ex mafioso, quasi che stesse parlando contro i familiari per ottenere sconti di pena.
Per fortuna, Franco Lo Voi, procuratore capo di Palermo, e Roberto Scarpinato, procuratore generale, hanno scritto un secondo parere a firma congiunta alla Commissione Centrale antimafia, perché sia riconosciuto a Angelo Niceta, una volta e per tutte, lo status di "testimone". E la notizia è stata data, con legittima soddisfazione, dall'avvocato Rosalba Vitale che assiste Angelo, la "pecora nera", ma in questo caso sarebbe meglio dire la "pecora bianca" della famiglia.
Infine una domanda: chi sta, in questo momento, in peggiori condizioni di salute? Riina, Dell'Utri o Niceta al trentaquattresimo giorno di digiuno? È una domanda imbecille.
La domanda esatta dovrebbe essere questa: perché grandi giornali e grandi tv piangono lacrime amare solo sulle condizioni di salute di due condannati per mafia in via definitiva e non gli scappa neanche una lacrimuccia per il "testimone" che accusa la sua famiglia e dimenticato, per questo, da Dio e dallo Stato?
Insomma. Va bene piangere e commuoversi, ma farlo a senso unico, solo per i mafiosi, non va bene.

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La rubrica di Saverio Lodato

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