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dimatteo falcone lodatoI mascalzoni ridono
di Saverio Lodato
Tenetevi pronti. È solo questione di qualche settimana e l’anniversario della strage di Capaci - il venticinquesimo, un quarto di secolo volato via -, si ripresenterà puntuale e inevitabile, come una cambiale non pagata si ripresenta all’infinito.
E in tutta coscienza, abbiamo pagato la cambiale di quell’autostrada sventrata dal tritolo, dei corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, tutti al servizio dell’idea folle di voler combattere la mafia nella speranza, un giorno, di riuscire a sconfiggerla?
Abbiamo pagato la cambiale di quegli uomini e donne che osarono credere che l’Italia potesse fare a meno di quell’eterno convitato di pietra, forgiato nelle diaboliche officine del Potere, un po’ mafia e un po’ Stato, un po’ mafia e un po’ istituzioni, un po’ mafia e un po’ Politica, un po’ Alta Finanza, un po’ Potere bancario, un po’ Servizi Segreti, Massonerie, coperte o scoperte che siano, persino un po’ Massime Cariche dello Stato?
No di certo.
Scopriamo l’acqua calda.
Tutti gli italiani, se solo fossero interrogati sul punto, dai sondaggisti che tutto chiedono ma certe domande rimangono loro strozzate in gola perché nessuno paga per conoscere la risposta, risponderebbero in coro che no, la cambiale non è stata pagata, il convitato di pietra c’era allora come c’è oggi, e Falcone, Morvillo, Montinaro, Dicillo, Schifani, restano soldatini imbalsamati a perenne ricordo dell’amara verità che certe battaglie non andrebbero mai intraprese.
Non siamo pessimisti, ci mancherebbe.
E mettiamo le mani avanti, dicendo questo, ché fra qualche settimana, appunto, sfileranno le legioni degli ottimisti sorridenti, a ricordarci che questo quarto di secolo è stato scandito dai successoni della lotta dello Stato contro la Mafia.
Preparatevi, dunque.
Il 23 maggio è la giornata dedicata agli "amici di Giovanni" che diventano sempre di più con il passare degli anni; giornata dedicata alla sinfonia televisiva che per 24 ore intonerà, come una marziale sinfonia di Sostakovich, il canto dei Martiri che hanno avuto giustizia e dei mafiosi debellati; giornata in cui esponenti politici della peggiore risma si sciacqueranno la bocca alla ricerca di un voto in più e in meravigliosa assenza di contraddittorio.
Ma noi non siamo pessimisti, ci mancherebbe.
Perché ci piace pensare che persino in Italia - e dicendo Italia ci siamo capiti - ciò che è scritto leggere si vuole.
E allora non perdiamo l’occasione di questo anniversario "tondo" - 25 anni sarà anche la frazione di un secolo, ma è frazione di tutto rispetto - per rileggere ad alta voce questa paginetta, piccolo zibaldone di frasi pronunciate da Giovanni Falcone, nel 1986, dalla sua prima intervista in assoluto, concessa a me, ai colleghi Galluzzo e La Licata, per il libro intitolato "Rapporto sulla mafia degli anni 80", edito da Sergio Flaccovio.
Sentite Falcone: "Come si può isolare un giudice? Anche con una sfilza di luoghi comuni. Di me hanno detto: fa panna montata, affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco: è un semplice giudice istruttore; ama atteggiarsi a sceriffo; ma chi crede di essere? Il ministro della giustizia? Io ho la coscienza tranquilla".
Sentite Falcone: "Mi hanno accusato di essere accentratore. La gestione del caso Buscetta e la formazione del pool di magistrati all’ufficio istruzione mi pare la negazione di questo addebito. E le polemiche per il mio presunto protagonismo? Proprio a me che ho sempre avuto rapporti difficili con i giornali".
Sentite, sentitelo il Soldatino di Piombo della guerra folle: "E pecca di protagonismo chi subisce i titoli di prima pagina, o è costretto a vivere scortato?".
Torna l’ombra lunga e nera di quegli anni.
E a chi si riferiva Falcone?
Suvvia. A molti di quelli che da morto lo hanno beatificato.
Agli stessi colleghi di magistratura, molto spesso. I magistrati pavidi e gerontocrati, spesso giovanissimi ma già vecchi di testa, i quali strillano contro il "protagonismo" altrui, a paravento dell’inanità e dello scialbore propri, visto che al far carriera non rinunciano affatto. Agli stessi editorialisti e opinionisti i quali oggi, con la chioma incanutita, intingono le penne nei calamai del vetriolo per sfregiare giorno dopo giorno l’immagine di quei magistrati che ancora non si sono arresi ma che tanto fastidio danno a quel convitato di pietra di cui sopra modellato nell’officina di cui sopra.
Le persone per bene non riuscirono a salvare Giovanni Falcone e decine di galantuomini che avrebbero fatto o che già avevano fatto la sua stessa fine.
Noi non siamo pessimisti, ci mancherebbe.
Ecco allora che quella paginetta di Falcone ci serve come chiave di lettura per decifrare i guai che attraversano e scandiscono la vita di Nino Di Matteo.
Finalmente - e ne avevamo scritto qui - il CSM, nonostante le due boiate pazzesche che lo avevano visto metterci la firma, si era deciso a promuovere Di Matteo alla Procura nazionale Antimafia. Lo scrivemmo: atto dovuto, riconoscimento tardivo di un mega diritto, sia per curriculum che per condizione personale, di Di Matteo.
Sembrava fatta.
E invece è tornata la panna montata. Sono tornati i processetti che gli occhiuti vertici della magistratura palermitana scaricavano sulle spalle del povero Falcone proprio per impedirgli di puntare al "bersaglio grosso".
Identica contestazione, un quarto di secolo dopo, mossa a Nino Di Matteo.
Stessi ritornelli scolastici: non ci sono i processi di serie A, quelli sulla trattiva Stato-Mafia, per capirci, e processi di serie B, furti d’appartamento, di auto, di targhe d’auto, rapine, eccetera, eccetera. Punti di vista legittimi. Ma ci sia consentito: roba già sentita.
Con il risultato che Di Matteo andrà a Roma ad occupare quel posto che gli spetta di diritto, ma ci andrà con 6 mesi di ritardo. Vuole finire il processo sulla Trattativa? Bene. Allora finisse anche i "processetti".
È inevitabile che ne approfittino e gongolino gli editorialisti dalla chioma incanutita, gli stessi che c’erano ai tempi di Falcone quando lo osteggiavano con "tecniche mafiose" e che oggi lo chiamano confidenzialmente "Giovanni". Gli stessi che oggi intingono nel vetriolo per fare la festa a Nino Di Matteo.
Vedete? Noi non siamo pessimisti.
È che i mascalzoni non ci sono mai piaciuti.
È più forte di noi.

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La rubrica di Saverio Lodato

In foto: Nino Di Matteo (© Paolo Bassani) e Giovanni Falcone (© Shobha)

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