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lodato favaA noi no
di Saverio Lodato
Sembrava, qualche mese fa, che dovesse venir giù tutta l’Antimafia. E sembrava questione di ore. Si scatenò una colossale guerra di tutti contro tutti che sembrò preludere a un definitivo regolamento di conti dopo il quale nulla sarebbe più stato come prima.
Scesero a singolar tenzone Paladini senza macchia e Cavalieri mascariati; associazioni di volontari e centri studi e associazioni a tassametro statale; ex magistrati anti cosche che nel frattempo - ed è storia ormai dell’ultimo ventennio - avevano intrapreso la carriera degli “onorevoli”; professionisti della giurisprudenza, teorici di un codice penale più “leggero” sull’argomento; storici vagheggini che non videro mai il ruolo dei mafiosi nello sbarco degli alleati in Sicilia; giornalisti di settore, che una volta stavano di là, ora stanno di qua, e domani non si sa; perfino qualche alta carica dello Stato che ha sempre coltivato il “pallino” dell’antimafia.
Giganteschi e inoppugnabili casi di cronaca furono la scintilla di questo tremebondo incrociar di sciabole: “caso Crocetta”, “caso Tutino”, “caso Helg”, “caso Montante”, “Caso Saguto”, “caso Maniaci”, e chi più ne ha più ne metta.
Sembrava che i partecipanti avessero intenzioni serie. Sembrava guerra seria. E proprio in questi giorni, Andrea Orlando, attuale ministro di Grazia e Giustizia, che forse anche lui pensava fosse roba seria, ha osservato - a mò di epitaffio su questo scenario - “che servono ormai nuovi Stati generali dell’antimafia”.
L’espressione è suggestiva e ha un suo fascino. E in essa ci riconosciamo, avendola coniata noi più di una decina di anni orsono, in pubblico dibattito (a “Campi Bisenzio” (Firenze), se la memoria non ci inganna, durante uno dei vertici sulla legalità organizzati da Antonino Caponnetto), e riprendendola poi per iscritto, in un’altra di quelle occasioni dell’antimafia che sembravano essere cosa seria, ma che a conti fatti si rivelò ennesima occasione perduta.
A questo punto, potremmo cavarcela dicendo, oggi come allora, tanto rumore per nulla. Ma non vogliamo “cavarcela” facilmente.
Ecco perché.
Si torna insistentemente a parlare, proprio in questi giorni, dell’utilità o meno di questa “commissione parlamentare antimafia”, presieduta da Rosy Bindi, i cui presunti meriti, in un apposito articolo, sono stati enucleati dall’onorevole Claudio Fava, che di questa commissione è commissario. Fava si è visto costretto a quest’elenco a seguito di attacchi, più o meno composti, che provengono ormai, e da diverse parti, contro questo istituto.
Sostanzialmente Fava rivendica la “tenuta” della Bindi, quando si scatenò la polemica sui candidati “impresentabili”, al punto da resistere alle pressioni della stessa Direzione del suo partito, il PD; chiama in causa stagioni passate della commissione - presidenza Chiaromonte, presidenza Violante, e persino la stagione di Pio La Torre, che ne fu semplice commissario -, come ai  bei tempi andati nei quali la volontà dei partiti di combattere la mafia era ben altra rispetto a quella di oggi; infine, critica il prefetto Giuseppe Caruso per non aver fatto nomi quando, sentito in commissione, denunciò che sequestri e confische erano diventati manna dal cielo per gli addetti ai lavori delle misure di prevenzione che popolano i Tribunali siciliani. E su Caruso, già che ci siamo, apriamo un inciso: quando il “commissario” La Torre ebbe la certezza che a Palermo agiva, in combutta con la mafia, il comitato d’affari Vassallo-Lima-Gioia, nella sua relazione di minoranza creò l’acronimo “Valigiò”, senza aspettare che quei nomi glieli facesse nessun prefetto, nessun capo di gabinetto, nessun questore. Non è tutto: negli atti delle commissioni ci sono centinaia di nomi che ai tempi in cui furono scritti non figuravano neanche nei rapporti di polizia. E’ ingeneroso - è questo che vogliamo dire - scaricare la responsabilità su Caruso per non aver fatto lui il nome di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione. Se non scopre neanche questo, una Commissione di inchiesta che ci sta a fare?
E così pensiamo di non aver dimenticato nulla e nessuno.
Ricordiamo ai lettori, ma non a Fava che lo sa, che in Italia la prima commissione antimafia - lasciando da parte quella ottocentesca di Franchetti e Sonnino - venne istituita nel 1963, ai tempi della “strage di Ciaculli”, quando sette fra carabinieri e militari furono trucidati per l’esplosione di una “Giulietta” Alfa Romeo imbottita di tritolo dai mafiosi. In altre parole, è da oltre mezzo secolo che lo Stato italiano “studia” e “approfondisce” il fenomeno mafioso.
Già per questa semplice verità “anagrafica”, ci sarebbero elementi sufficienti per non dare tutti i torti a quanti ormai la vorrebbero sciogliere. In oltre mezzo secolo, un fenomeno criminale prima lo si combatte, poi lo si sconfigge, infine lo si debella per sempre. Continuare a studiarlo fa semplicemente ridere.
Ma veniamo all’onorevole Fava.
Ammetterà che, indipendentemente da questa o quella presidenza, i momenti più alti nella storia dell’istituto parlamentare si sono verificati quando i commissari posero al centro della loro attenzione due nodi di fondo: lo “stragismo” in Italia e il rapporto fra “mafia e politica”. E’ giusto ricordare Chiaromonte e Violante. Ci mancherebbe. Ma fra la loro presidenza e quella odierna della Bindi ce ne sta anche un’altra che non sarebbe male citare almeno di sfuggita: la presidenza di Giuseppe Pisanu.
Da sempre uomo di destra, ex democristiano, poi per due volte ministro degli interni nei governi Berlusconi, Pisanu ebbe il merito di dedicare buona parte del suo mandato all’approfondimento di quei primi riscontri sull’esistenza di una Trattativa Stato-Mafia fra il ’92 e il ’93. Gli stessi riscontri che parallelamente i procuratori di Palermo raccoglievano nell’inchiesta che poi sarebbe sfociata nel processo che si sta celebrando a Palermo. Una sintonia che non veniva vista da nessuno come ingerenza su fatti processuali.
Pisanu, e forse meritava di essere ricordato, convocò tutti, da Mancino Nicola, al ministro Giovanni Conso, al ministro Claudio Martelli, al direttore del Dipartimento Azione Penitenziaria, Adalberto Capriotti, a esponenti e funzionari dei servizi segreti dell’epoca, al comandante del Ros Antonio Subranni … Insomma, Pisanu ebbe il potere di accendere i riflettori. E li accese.
Pronunciò parole definitive sulla trattativa? Certo che no.
Era troppo chiedere alla commissione successiva, quella presieduta dalla Bindi, che il lavoro della “presidenza Pisanu” non andasse del tutto sprecato?
Non si doveva forse ripartire da lì?
E in tutta coscienza,  Fava trova invece “regolare” che “stragismo”, “mafia e politica”, “trattativa Stato-Mafia” siano temi ormai desaparecidos nelle sedute odierne? Di che si parla?
Di Crocetta Rosario? Nessun partito presente all’Assemblea Regionale siciliana ha mai pensato per un attimo di sfiduciarlo, pena il dover rinunciare alla poltrona di “onorevole”. Questa legislatura deve arrivare alla fine. Si rassegni anche la commissione antimafia. Crocetta è inamovibile. Parlarne - purtroppo - è solo chiacchericcio da barberia della Sicilia dell’interno.
Quali audizione vengono fatte? Quella dello “storico” Lupo che va a raccontare che fu leggenda metropolitana il contributo della mafia allo sbarco degli americani? O che se la prende con il fantasma di Buscetta?
Ma insistiamo: di cosa si occupa esattamente la commissione? Fava, fra l’altro, lo spiega così: “cercando di censire tutti i dubbi e di ascoltare tutti i dubbiosi (uno dei prossimi sarà l’amico comune Pietrangelo Buttafuoco)”.  
“Censire tutti i dubbi. Ascoltare tutti i dubbiosi”. Va Bene. D’accordo: sentiamo anche “l’amico comune Buttafuoco”.  
Ma oltre mezzo secolo dopo la strage di Ciaculli, non è un po’ pochino?

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La rubrica di Saverio Lodato

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