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lodato saverio c paolo bassani bn 2014di Saverio Lodato
Sono ossessionati dall’esistenza dei magistrati, della magistratura, da qualsiasi forma di controllo della legalità. Detestano visceralmente, e non ne fanno mistero, i pubblici ministeri, in quanto tali. Li detestano perché rappresentano l’accusa, perché esercitano un’azione penale obbligatoria che invece loro, quelli che li detestano, preferirebbero facoltativa, morbida, sollecita agli interessi degli amici degli amici, accomodante, aumma  aumma, insomma: birra e salsicce, per dirla con Totò. Non ci dormono la notte al pensiero che esistano i codici, che i codici vengono applicati, che un cittadino possa essere chiamato a rispondere per una o più fattispecie di reato. E in questo eterno dormiveglia, avvelenato dalla scritta che campeggia nei tribunali a ricordare che “La legge è uguale per tutti”, dedicano spasmodicamente la loro esistenza per ripetere all’infinito che i magistrati, indipendentemente da quello che fanno, sbagliano. Non ne imbroccano una. Sono tali e quali un nugolo di cavallette, in questo Nostro Paese che, se non fosse per la loro petulante azione, sarebbe il Paese più bello del mondo. E i magistrati sbagliano in mala fede. E sbagliano perché, esercitando la legge, in realtà fanno carriera. E sbagliano perché, rappresentando l’accusa, fanno affari, ai danni della povera collettività indifesa e impoverita dagli stratosferici costi della giustizia.
Questi poveretti, sonnambuli senza pace, e dal sonno disturbato dalla Signora raffigurata con in mano i due piatti della bilancia, hanno speso gli ultimi decenni della loro vita professionale a far di conto.
E quanto costarono ai cittadini sette anni di processo a Giulio Andreotti, il sette volte presidente del consiglio “prescritto per mafia” dalla Cassazione? E quanto hanno speso i cittadini per i processi al signor Marcello Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia che tanto piaceva a tante signore palermitane, oggi in carcere per mafia? E forse che si badò al risparmio per processare fior di galantuomini come Bruno Contrada, il numero 3 del Sisde, o Totò Cuffaro, il presidente della regione siciliana, le cui vicende processuali si conclusero definitivamente con il pollice verso per il concorso esterno in mafia o del favoreggiamento alla mafia? Ma non si tratta solo di costi ritenuti troppo alti. E allora, dai con l’altra tiritera.
I magistrati, i pubblici ministeri peggio ancora, lavorano poco, hanno l’estate troppo lunga, non hanno orari, non rispondono a nessuno, non timbrano il cartellino, come fanno tutti i comuni mortali, in fabbrica o in ufficio. Poi ci sono quelli che “vanno ai dibattiti”, quelli che “salgono sul palco”, quelli che “rilasciano dichiarazioni e fanno interviste”, quelli che si autodefiniscono “partigiani della Costituzione”, quelli che “scendono in politica”, quelli che emettono condanne “indossando le calze rosse”, quelli che “cercano la claque” dei supporters delle loro inchieste, quelli che “vogliono farsi un partito tutto loro” … E si potrebbe continuare all’infinito.
E allora, dai con l’altra tiritera. Ad esempio, perché i magistrati non rispondono mai dei loro errori? Vai a sapere. Ma i poveri sonnambuli, ossessionati dalla Signora di cui sopra, quella con la bilancia, non riflettono mai sul fatto che, esistendo in Italia tre gradi di giudizio, pretendere che non ci siano “sentenze sbagliate”, e magistrati, di conseguenza, “che hanno sbagliato”, equivarrebbe a pretendere, per tre gradi di giudizio, tre sentenze fotocopie, tre sentenze in copia conforme, o tutte di condanna o tutte di assoluzione? Noi sappiamo bene che i poveri sonnambuli hanno un tarlo che li rode, ma loro stessi potrebbero lasciarsi consigliare da uno specialista in disturbi mentali, come faceva persino un simpaticissimo Robert De Niro in “Terapie e Pallottole”.
Per non dire, e qui vai con l’altra tiritera, dei collaboratori di giustizia, “strumenti ciechi di occhiuta rapina” al soldo di pubblici ministeri che li usano come testa d’ariete contro la “crema” della società, per farla invece apparire collusa, corrotta, inquinata, mafiosa, “mascariata” dal carbone nero di accuse inventate di sana pianta e che, quando sarà ormai troppo tardi, si riveleranno infondate. E come si fa, sbraitano i sonnambuli, ad ascoltare in processo le farneticazioni di questi brutti ceffi che hanno torturato, strangolato e ucciso con le loro mani, donne, uomini e bambini? E lo Stato quanto li paga a questi pentiti? E quanti sconti di pena è disposto a concedere? E, già che ci siamo, quanto costano tutti gli stessi collaboratori di giustizia alla povera collettività indifesa e impoverita di cui sopra?
Ma i poveri sonnambuli sanno anche prenderla alla lontana. Ma quanto è lunga, lenta, sesquipedale, la giustizia italiana? Poi, cercando il rimedio, si ingarbugliano irrimediabilmente. Se un imputato è risultato innocente, basta una botta e via, un solo unico grado di giudizio. Certo, se invece dovesse risultare colpevole, vanno benissimo i tre gradi, sperando che “l’innocenza”, come un ritardatario dei numeri al Lotto, esca sulla ruota del diretto interessato. A non volere affrontare il tema della prescrizione, che da trent’anni scienziati dell’argomento hanno affrontato, senza mai riuscire a risolverlo.
Poveri sonnambuli che hanno speso gli anni della loro vita nella convinzione che “a parlar male dei magistrati” alla fine sarebbero riusciti a cavare un ragno dal buco. Lotta eterna, la loro. Ma con magri risultati.
Ne ricordo tanti di questi poveri sonnambuli che avevano scelto il giornalismo negli anni del “pool antimafia” di Caponnetto, Falcone e Borsellino. Erano battaglieri, raffinatamente “garantisti”, equidistanti dalla mafia e dall’antimafia, ma avevano un malinteso senso anglosassone della professione. Definivano Michele Greco, il boss dei boss, un bonaccione, un coltivatore di limoni saporitissimi. Definivano Falcone e De Gennaro “i capi di un’altra cupola”, non meno pericolosa di quella di Cosa Nostra: la “cupola dell’antimafia”. Definivano Falcone e De Gennaro i giustizieri, gli sceriffi che avevano armato la mano dei pentiti, Masino Buscetta e Totuccio Contorno, per aprire il fuoco contro i “corleonesi” che in quegli anni mettevano Palermo a ferro e fuoco. E i sonnambuli dei miei tempi, tempi assai lontani, non disdegnavano di andare a pranzo e cena con i boss con la scusa, apparentemente ineccepibile, che anche loro, visto che venivano attaccati dai giudici e portati in processo, dovevano avere diritto alla replica.
Tra qualche giorno celebreremo il ventiquattresimo anniversario della strage di via D’Amelio.
Ai  poveri sonnambuli di oggi sta profondamente sullo stomaco il pubblico ministero Nino Di Matteo, perché lavora, con un pugno di colleghi, all’ipotesi che una delle cause della morte di Paolo Borsellino sia stata il suo rifiuto alla Trattativa Stato-Mafia. E’ un processo, quello sulla Trattativa Stato-Mafia, che spinge i sonnambuli quasi a una condizione pre-epilettica. Non lo digeriscono, non lo mandano giù. Ci scrivono un articolo al giorno. Si sono messi in testa lo scolapasta a guisa d’elmetto per una guerra senza quartiere. Garantisti dell’ultima ora, non c’è che dire.   
Ecco perché, se per tutti i casi che ho elencato prima, l’analista di “Terapie e Pallottole” potrebbe andar bene, restituendo loro un mimino di serenità, a ora di Nino Di Matteo e del processo sulla Trattativa Stato-Mafia, non sono sicurissimo che l’Esorcista potrebbe riuscire a fare miracoli. Sono “turbe”, non curate negli anni, che provengono dall’esasperazione del concetto di “giornalismo anglosassone”. Quello che vidi nascere ai miei tempi, ai tempi di Falcone e Borsellino.

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La rubrica di Saverio Lodato

Foto originale © Paolo Bassani

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