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lodato bn c giorgio barbagallo 2014di Saverio Lodato
Sono trascorsi trent'anni da quella grande stagione del "pool antimafia" di Palermo di Caponnetto, Falcone e Borsellino, che provò, dopo oltre un secolo di convivenza italiana con la mafia, a cambiare le regole del gioco schierando la magistratura siciliana in prima linea contro i poteri criminali. Un Grande Gioco, o un Gioco troppo Grande, a seconda dei punti di vista. Quella stagione è finita da tempo. I protagonisti di quello sforzo titanico non ci sono più. I giovani di oggi stentano a capire perché quella stagione fu tanto breve e cosa impedì di rendere stabile e definitivo un impegno che richiamò l'attenzione del mondo intero tanto da essere considerato materia di studio all'estero, nelle università e nelle scuole di polizia. Erano gli anni in cui se l'Italia era proverbiale per l'esistenza della mafia lo era finalmente anche perché un gruppo indomito di giudici, poliziotti, carabinieri, esponenti politici, giornalisti, imprenditori, sacerdoti e cittadini comuni - e tutti siciliani - si ponevano come una diga inamovibile di fronte al dilagare di Cosa Nostra e delle sue ramificazioni con le istituzioni, con lo Stato e con il Potere. Inutile negare che quella gigantesca partita, costata enormi sacrifici umani, si chiuse con le stragi di Capaci e Via D'Amelio. Venne infatti meno l'illusione, che contagiò lo stesso Giovanni Falcone, che si fosse giunti all'ultimo atto e che la mafia avesse le ore contate. Il de profundis per quelle speranze fu di una drammatica e solare evidenza. Fu la fine del Mito. E segnò la sconfitta di quanti in quel Mito avevano creduto. Poi iniziò la stagione successiva. Quella che dura ancora oggi e della quale intendiamo parlare. Stagione assai prosaica, perché scaturita da un tacito convincimento fra le parti: che la mafia non potrà mai essere sconfitta e debellata. Perché è troppo forte, troppo collegata, troppo protetta. E - aggiungiamo noi - perché torna troppo comoda a molti. Convivere con la mafia, osò dire in anni lontani un ministro della Repubblica.
Ma è pur sempre merito del "pool" se in questi ultimi decenni altri hanno raccolto il testimonio, quantomeno tenendo in piedi l'infinita aspettativa che almeno fra cento o duecento anni la mafia non ci sarà più. Perché è di questo che si tratta, è di questo che stiamo parlando.
Ci sono domande, a tale proposito, che sono talmente dirompenti, nella loro ovvietà, da non meritare risposta. Lo impedisce quel tacito convincimento del quale parlavamo prima.
Ha ancora senso l'esistenza di una commissione parlamentare di inchiesta che da tempo ha superato i cinquant'anni? È ammissibile, concepibile, accettabile, il grado di inquinamento  della politica, quale quotidianamente ci viene scodellato sotto gli occhi da una valanga di intercettazioni che spazzano ormai l'Italia da un capo all'altro?
Esiste una sola ragione plausibile a spiegazione del fatto che il destino di un pubblico ministero che si ostina ad indagare sulle collusioni fra lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato non possa essere altro che quello della crocifissione mediatica?
E questo Piercamillo Davigo, il magistrato che viene da un'altra grande stagione, quella del "pool" di Milano, e diventato presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, non sta forse indigesto alla stragrande maggioranza degli esponenti politici? Come si permette ad andare in televisione per ridicolizzare le Verità Rivelate del governo sui rapporti fra politica e magistratura sbugiardandole agli occhi di milioni d'italiani?
Ma questa è la stagione odierna. Ed è qui e oggi che dobbiamo misurarci con l'eredità tradita del "pool" di Palermo di trent'anni or sono.
I frutti marci di questo modo di intendere la lotta alla mafia ci sono tutti. E li conosciamo tutti. Infinita teoria di "casi" scandalosi, indipendentemente da quali saranno le conclusioni giudiziarie specifiche.
Il "caso Montante". Il "caso Helg". Il "caso Saguto". Il "caso Lo Bello". Il "caso Maniaci"...
C'è chi ha fatto affari con l'imprenditoria anti mafiosa. C'è chi ha costruito ventennali carriere politiche o in nome dei proclami anti mafiosi o in forza di un parentela con le vittime della stessa mafia. C'è chi ha usato l'antimafia come poderoso propellente per la propria carriera accademica. Sono i prezzi, forse, che si devono pagare quando si vive una stagione prosaica. Il quadro è opaco. Troppe certezze sono crollate. Troppe corde si sono spezzate. Ma a tutto c'è un limite.
Non si può anche pretendere di riciclare idee rancide facendo finta che siano fresche di giornata. E pretendere di farlo in nome di non ben precisate "istanze fondative" di una nuova antimafia.
La sostanza degli attacchi più violenti ai quali fu sottoposto Giovanni Falcone, da vivo e mentre stava istruendo il "maxi processo" a Cosa Nostra, fu che "la magistratura non può essere contro la mafia, essendo unico compito dei magistrati quello di perseguire singoli reati". Ricordiamo benissimo - e non solo noi - come andò a finire. Quell'obiezione fu mirabilmente sintetizzata dalla buonanima di Antonino Meli, che scippò a Falcone il posto che gli spettava naturalmente - quello cioé di capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, dopo la partenza di Antonino Caponnetto: "non ci sono mafiosi intoccabili, come non ci sono anti mafiosi intoccabili". Il riferimento era proprio a Falcone.
Possiamo considerare quella la vera frase levatrice delle idee rancide che stanno circolando in questi giorni.  
Soltanto immaginare che sia data in natura un'"antimafia equidistante da pubblici ministeri e politici" ci sembra alquanto blasfemo al cospetto di centinaia di magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine assassinati in Italia per aver fatto il loro dovere. Assomiglierebbe troppo da vicino a una bizzarra "equidistanza fra guardie e ladri". È idea che non ci convince.

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La rubrica di Saverio Lodato

Foto originale © Giorgio Barbagallo

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