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lodato-saverio-web32di Saverio Lodato - 23 febbraio 2015
E’ risaputo che non esiste un non plus ultra, un limite massimo, fissato per decreto, oltre il quale un evento storico cessa la sua attualità e il suo interesse, scemando improvvisamente a piccola bagatella per addetti ai lavori, accademici, bibliotecari, bibliofili che siano. Né sarebbe sensato pretenderlo. Ovviamente è un bene che sia così. Giusto, infatti, discuterne all’infinito se permane, anche a distanza di tantissimi anni, l’assillo di domande rimaste inevase, risposte giudicate non convincenti, dubbi sull’autorevolezza o la veridicità dei testimoni acquisiti; se non, addirittura, quando la scoperta di nuove prove documentali spariglia le verità canoniche. Non ci sono regole cronologiche, non c’è, se non convenzionalmente, un prima, un durante e un dopo.
Verrebbe da dire: é la storia, bellezza, e non puoi farci niente.
Erodoto, Tucidide e Senofonte, la scrivevano nella consapevolezza di riprenderla dal punto esatto in cui il loro predecessore l’aveva interrotta. Come fossero chiamati a passarsi di mano un ideale testimone.

Con il risultato di un corale feuilleton d’autore che raccontava la storia di un popolo, di un’identità e di una nazione in divenire, l’antica Grecia, e nel quale quel popolo era chiamato a riconoscersi. E si riconosceva.  Ognuno metteva il suo ingegno al servizio della prosecuzione dello sforzo intrapreso da chi li aveva preceduti, dando per acquisite e inconfutabili le conclusioni su quei periodi dei quali non erano stati testimoni. Era infatti disdicevole, per gli antichi greci, scrivere per sentito dire. Gli storici essendo, prima di tutto, uomini politici, strateghi, generali, oratori, quando non addirittura imprenditori profondamente inseriti nel tessuto socioeconomico della loro società. Gente, in altre parole, che prima di essere presa sul serio per il fatto di avere scritto, era stata presa sul serio, e valutata, per il fatto di aver preso parte alla vita pubblica. Giusto o sbagliato che fosse, il senso comune era questo.  
Il risultato fu un monolite costruito a più mani - la storia greca che è stata tramandata, quella che oggi noi conosciamo - che però, si dà il caso, non fu destinata a restare ibernata in eterno per la semplicissima ragione che anche gli occhi curiosi dispongono, per iniziare a indagare, di tutto il tempo che vogliono. E di quella storia, non a caso, ancora oggi se ne discute, e su quella storia, ancora oggi, ci si divide. Duemila anni dopo.
Non esiste dunque un non plus ultra, un limite massimo. Né, va anche aggiunto, la storia è materia per agrimensori. Prova ne sia che, sebbene ci siamo ormai significativamente addentrati nel terzo millennio, nonostante la messa in archivio di ideologie di diverso segno e contenuto, alle quali altre, puntualmente, si sono sostituite (e, forse, di più barbarica efficacia), i grandi e tremendi eventi del "secolo breve" fanno ancora sentire la loro voce asfissiante scaraventandoci addosso un cumulo di interrogativi ai quali milioni di pagine storiche, diplomatiche, letterarie, processuali,  ancora oggi non riescono a dare risposta definitiva e ultimativa.
Saremmo stati portati a pensare che, settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, le bocce fossero talmente ferme da poter compendiare ciò che accadde in uno schema succinto, di facile lettura e sicuro effetto, tanto da essere racchiuso in un depliant da regalare all’ingresso dei musei. Le cose non stanno così.
Ce n’è venuta conferma dalla lettura di un libro assai documentato, e, a tratti, angosciato, intitolato "Bombardare Auschwitz" - sottotitolo "Perché si poteva fare, perché non è stato fatto" -, dello storico Umberto Gentiloni Silveri, appena pubblicato da Mondadori. Il succo della ricerca, che si iscrive in un filone che data dalla fine degli anni Settanta, è tutto racchiuso proprio in quel sottotitolo.
Il processo di Norimberga, e quelli minori che a esso seguirono in altre città della Germania, la cattura di Adolf Eichmann nel 1960 in Argentina, e il conseguente processo a Gerusalemme che si concluse con la sua impiccagione nel 1962, precedettero l’apertura degli archivi in Occidente e quella, più ridotta, nei paesi di oltre cortina. E  di grandi segreti in circolazione, al netto di dietrologie dure a morire, negazionismi inclusi, non dovrebbero essercene più. Il materiale fotografico e filmato è stato reso noto, e non si tratta di pochi rullini e documentari. Le testimonianze dei sopravvissuti sono circolate ampiamente, raggiungendo larghe fasce dell’opinione pubblica mondiale. L’Olocausto - parola che gli ebrei respingono, sostituendola con quella più appropriata di Shoah -, è stato sviscerato per quanto attiene alla ferocia e alla criminale condotta bellica dei nazisti. Cosa fu il nazifascismo è stato ampiamente squadernato sotto gli occhi di milioni di persone che allora non c’erano, ma che  dopo hanno saputo. Eppure, gli interrogativi del libro di Gentiloni non sono piume. E rimangono.
Gli americani, ma anche gli inglesi e i russi, almeno due anni prima della fine della guerra, forse anche tre, sapevano ormai cos’era diventato il "concentrazionismo" nazista. E, aggiungiamo noi, lo sapeva anche il Vaticano che, attraverso la Croce Rossa, avrebbe poi favorito la fuga verso l’America del Sud dei gerarchi nazisti che erano riusciti ad abbandonare la Germania.
Erano stati individuati i "lager" sparsi per l’Europa. Erano stati persino fotografati da qualche bombardiere alleato che aveva forato il muro dei palloni che i tedeschi piazzavano in alto proprio nel tentativo di nascondere i campi. Con conseguente invio di dispacci e foto sull’esito di quei voli ai comandi militari. Era conosciuto, d’altronde, il reticolo ferroviario che dai Balcani sino al cuore d’Europa si dipanava con destinazione "Auschwitz", e non solo. Chi doveva sapere sapeva. Ma nonostante la mole d’informazioni procedesse in sincronia con il procedere del conflitto, quel centro nevralgico dell’operazione di pulizia etnica decisa da Hitler fu risparmiato.
Perché?, si chiede Gentiloni. Il quale riassume, in maniera articolata, le diverse risposte che sono di fonte prevalentemente americana.
La prima è che bombardare avrebbe significato eliminare in un colpo solo vittime e carnefici. Che, anche in caso di riuscita dell’impresa, nulla avrebbe impedito ai tedeschi, da quel momento in avanti, di sterminare gli ebrei e i loro compagni di tragedia, direttamente nei paesi d’origine, ricorrendo a fucilazioni di massa. Che l’apparato bellico alleato mirava alla sconfitta del nemico sul campo, con il dispiegarsi di una strategia che aveva in quel momento altre priorità, altri bersagli. Ma, allo stesso tempo, Gentiloni lascia la parola agli ebrei sopravvissuti, quasi un controcanto alle tesi difensive di chi non seppe o non volle intervenire. Una parola che per decenni è stata parola di condanna per gli alleati che preferirono non vedere il male nel punto in cui era maggiormente concentrato e visibile.
Le ultime pagine di "Bombardare Auschwitz"  sono dedicate alle incredibili vicissitudini che riguardarono il libro di Primo Levi, "Se questo è un uomo", che nessun editore nel dopoguerra volle pubblicare. Lo si riteneva un libro non veritiero, il libro di un "bugiardo",  come dichiarò l’Associazione degli scrittori sovietici motivando il rifiuto della pubblicazione in territorio sovietico in questo modo: "Il lager non era quel luogo di sofferenza e rassegnazione  degli internati, ma un luogo dove si svolgeva un eroica resistenza del proletariato prigioniero". In Italia, invece, per trenta edizioni, la Storia della letteratura italiana di Natalino Sapegno, a differenza dei sovietici, non diede spiegazioni di alcun genere, limitandosi a non includere mai il nome di Levi fra gli autori italiani.
Concludendo. Morale possibile: non basta dire la verità. Non basta che la verità emerga con forza. Non basta che la verità abbia dei testimoni. Perché la verità riesca a farsi strada occorre che gli "altri", quando la ascoltano, la vogliano sentire, vedere, e fare propria. Se ciò non accade, per qualsiasi ragione, c’è il rischio che anche gli uomini più sinceri siano condannati, nella migliore delle ipotesi, a essere dei predicatori nel deserto, nella peggiore, a essere definiti "pazzi" e "bugiardi". In questo senso, dagli anni del nazismo, la storia non è molto cambiata. E anche in Italia ne sappiamo qualcosa.

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