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lodato-saverio-big7ESCLUSIVA - di Saverio Lodato - 16 ottobre 2012
C’è un’enfasi quirinalizia, in questa ennesima puntata dell’affaire del conflitto d’attribuzione dei poteri, che lascia perplessi. Il capo dello Stato non perde occasione per definirsi il bersaglio di una dura campagna contro di lui. Non fa mistero di indicare in “magistrati, giornalisti e politici” i sapienti tessitori di una trama di denigrazione, calunnie e insinuazioni sospettose a danno della sua persona e dell’incarico istituzionale che si trova ad occupare.
Che lo pensi, non è una novità.

Sin dal momento in cui trapelò la notizia dell’esistenza di colloqui telefonici fra lui e il cittadino Mancino Nicola - prima indagato e poi imputato dalla Procura di Palermo per falsa testimonianza nell’ambito della trattativa Stato-mafia - il capo dello Stato scelse quella strada. Disse quello che pensava. E continua a pensarla allo stesso modo. Assolutamente superfluo ribadire che è suo pieno diritto pensarla come vuole.
La sintesi del suo pensiero sull’intera vicenda, d’altra parte, ormai è agli atti. E, fra l’altro, è alla base della decisione fragorosa di sollevare conflitto di attribuzione dei poteri di fronte all’Alta Corte a riprova dell’illiceità - da lui asseverata - dei comportamenti dei pubblici ministeri palermitani.
Però, verrebbe da dire che a tutto, anche agli  affari di Stato, dovrebbe esserci un limite.
Siamo alla vigilia di quel verdetto della Corte Costituzionale tanto auspicato dal Capo dello Stato e dai giuristi a lui vicini, e invocato come taumaturgico. Siamo alla vigilia dell’inizio, a Palermo, del dibattimento di fronte al gup dal quale scaturirà il destino dell’inchiesta sulla trattativa. Siamo alla vigilia del trasferimento in Guatemala del procuratore Antonio Ingroia indicato, da più parti, come  la <<pecora nera>> che avrebbe derazzato dal bon ton istituzionale. Siamo, in altre parole, al rush finale.
Ora, mentre nessuno se lo aspettava, ed esclusivamente per unilaterale decisione del capo dello Stato, la temperatura è tornata a surriscaldarsi. Il capo dello Stato, in occasione della pubblicazione di un suo libro, ha infatti reso pubblico il carteggio fra lui e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio, alla vigilia della scomparsa di quest’ultimo. Opera meritevole, trattandosi della divulgazione di atti che male avrebbero fatto a restare segreti.
Le lettere, basta leggerle, come vale per qualsiasi carteggio. Ma accompagnarle, come è avvenuto in questo caso, ancora una volta con la colonna sonora della voce del Quirinale che torna a denunciare l’esistenza di un complotto ai suoi danni, rientra, a nostro giudizio, in quell’enfasi quirinalizia di cui dicevamo all’inizio e che a lungo andare rischia di produrre un involontario rumore sinistro.
Siamo tutti uomini, capi dello Stato compresi. E per ciò fu legittimo lo sdegno di Napolitano alla notizia della morte improvvisa di Loris D’Ambrosio. Le sue parole di condanna, rivolte a chi, a suo giudizio, aveva provocato la morte del consigliere, nonché amico, furono umanamente comprensibili. Anche se incondivisibili, perché fuori dalle righe e inopportune nel contesto di dolore di una tragedia innanzitutto privata.
Prova ne sia che quelle parole indussero Giuliano Ferrara ad indicare in televisione, di fronte a milioni di spettatori, proprio in Antonio Ingroia il principale assassino dello stesso D’Ambrosio.
Non si levò una mosca (meno che mai dall’alto delle istituzioni) a condanna del macabro sproloquio dell’opinionista Ferrara.
In altre parole, il nostro Capo dello Stato, che conosce bene il paese in cui ci troviamo tutti a vivere, non dovrebbe mai dimenticare che le cose si dicono una volta sola e che le cause - quando sono delle buone cause - si difendono da sole.

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                                                                                                                    Foto © Samuele Firrarello

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