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lodato-la-torreESCLUSIVA - di Saverio Lodato - 3 ottobre 2012
Uccidere Pio La Torre e Rosario Di Salvo, dei quali, quest’anno, ricorre il trentesimo anniversario del sacrificio, militarmente parlando, fu un gioco da ragazzi. A due passi dalla sede del PCI siciliano, in una strada che è un budello, intrappolati nella loro auto, accerchiati da killer a bordo di una motocicletta e un’auto, e armati sino ai denti, le due vittime designate non ebbero neanche per un attimo una vera chance di sopravvivenza.

Queste modalità del delitto, che denotano assoluta certezza da parte dei carnefici circa l’esito della missione di morte, sono la prima stranezza che balza agli occhi e dovrebbe far riflettere. La Torre e Di Salvo infatti non furono uccisi a freddo, in un’imboscata non preventivata, meno che mai furono colti di sorpresa.
Tra tutti i delitti politico mafiosi di quegli anni, è difficile trovarne uno che sia stato più <<annunciato>> di questo. Le telefonate anonime a Giuseppina La Torre, moglie di Pio, e a Rosario Di Salvo,  nelle ultime settimane si erano moltiplicate mentre la materia politica e giudiziaria toccata dal dirigente comunista da quando era tornato a Palermo, appariva incandescente di per sé ( missili a Comiso, mafia vecchia e nuova, trame internazionali).
E lui, che non era uno sprovveduto, ne era perfettamente consapevole e non ne faceva mistero con i suoi compagni più fidati,  cercando, nei limiti del possibile, di correre ai ripari. Prova ne sia che La Torre e Di Salvo avevano precipitosamente chiesto e ottenuto il porto d’armi,  e che proprio Di Salvo riuscì a esplodere, ma senza risultati, cinque colpi di pistola contro gli stessi uomini del commando in via Generale Turba dove avvenne l’imboscata. Quindi, almeno loro due, se l’aspettavano.
Qui sorgono i primi pesanti interrogativi.
Se il clima in Sicilia si era talmente deteriorato da costringere il segretario di un partito politico presente in Parlamento, e parlamentare esso  stesso, a chiedere e ottenere il rilascio del porto d’armi, come mai questa forma di autodifesa restò una forma di autodifesa <<fai da te>>,  estesa tutt’al più al suo autista? Come mai le forze dell’ordine, prese nel loro insieme, sottovalutarono in maniera tanto plateale il clima di quei giorni non avvertendo la necessità di scorte e forme di tutela?
E come mai il gruppo dirigente del Pci siciliano, in presenza di una distrazione colpevole degli organi preposti alla tutela dell’ ordine pubblico,  non andò all’idea di forme supplementari di vigilanza ( nel Pci, in quegli anni, ancora si usavano)  che almeno non avrebbero reso la missione dei killer quell’ autentico gioco da ragazzi di cui dicevamo prima?
L’eventuale argomento che quelli fossero altri tempi ha credibilità zero. Il 30 aprile del 1982 a Palermo erano già stati assassinati: Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, Cesare Terranova, magistrato, Piersanti Mattarella, presidente della Regione, Emanuele Basile, capitano della compagnia dei carabinieri di Monreale (a due passi da Palermo), Gaetano Costa, procuratore capo e il medico chirurgo, Sebastiano Bosio, e l’imprenditore Pietro Pisa.
Occorreva ancora dell’altro per capire cosa stava rischiando Pio La Torre?
Allora, vediamo di cosa si occupava La Torre. Dell’installazione della base di missili Cruise a Comiso, che osteggiò sino alla fine dei suoi giorni dando il via a un movimento di popolo che in Sicilia non si vedeva dalla stagione del movimento contadino per l’occupazione delle terre. Che quel movimento, ancora nel vivo della guerra fredda, fosse subito dai circoli politici e militari statunitensi più conservatori come fumo negli occhi, già allora appariva a tutti, indipendentemente dalle convinzioni di ciascuno, una verità lapalissiana.
Pio La Torre si occupava anche di mafia siciliana e americana. Forte in questo , grazie alla sua attività di commissario parlamentare antimafia a metà degli anni ’70, di una conoscenza niente affatto superficiale  del fenomeno, dedicò le sue ultime settimane a stigmatizzare i comportamenti di “don” Vito Ciancimino, allora dominus degli affari leciti e illeciti a Palermo. E il suo approccio alla questione non ebbe mai un limite  “regionale”, consapevole di quanto fossero ancora forti, in quegli anni, i legami fra i “picciotti”  di Palermo e i loro “cugini” di New York, i Gambino, gli Spatola, gli Inzerillo. Inoltre, si batteva per quelle misure legislative volte ad aggredire i capitali mafiosi e che- solo dopo il suo sacrificio- sarebbero diventate legge ( la Rognoni-La Torre). Come si vede, di carne al fuoco ce n’era già parecchia, ma a La Torre – evidentemente - non bastava.
Così volle metterci anche il carico da novanta della massoneria deviata, dei legami fra mafia e trame piduiste, il carico delle sue spasmodiche ricerche, e conseguenti denunce pubbliche, in riferimento agli scenari dell’uccisione di Giorgio Ambrosoli , alla venuta di Michele Sindona a Palermo nei giorni del suo finto sequestro, a inconsuete esercitazioni di civili e militari, nell’entroterra siciliano ( la futura Gladio?).
A tale proposito, non tutti ricordano che nel novembre 1981, cioè qualche mese prima di finire assassinato, La Torre ottenne un enorme risultato delle sue denunce rese pubbliche in una rovente conferenza- stampa: le dimissioni del questore di Palermo Giuseppe Nicolicchia  e del suo vice, Giuseppe Impallomeni, entrambi, e per loro stessa ammissione, affiliati alla massoneria di Licio Gelli.
Verrebbe da dire: coincidenza quantomeno diabolica che proprio in quel momento i vertici della polizia fossero rappresentati da simile coppia di funzionari.  
Fermiamoci un attimo. A grandi linee, in meno di un anno di intensa vita politica a Palermo, Pio La Torre di questo si occupò.
Ora la domanda è: i 3 temi di preminente interesse per La Torre, devono essere letti come altrettante ipotesi investigative per fare eventualmente luce sul delitto o quei temi,  solo all’apparenza, erano disgiunti?
Noi saremmo più propensi a considerarli un unico e inestricabile grumo composto da interessi militari americani minacciati ma anche, nello stesso tempo, di aspettative e conseguenti disponibilità di una mafia tradizionalmente intesa e di massonerie deviate, che per altro riconducevano agli Usa.
Per concludere, rileggiamo questo passaggio della intervista concessa da La Torre a Panorama nel novembre 1981, dunque poco tempo prima di quell’ agguato che fu un gioco da ragazzi: << Noi sappiamo bene quel che successe nel 1943. Ci ricordiamo di mafiosi come Lucky Luciano e Vito Genovese fatti uscire dalle galere americane e mandati in Sicilia a preparare lo sbarco alleato>>. (La citazione è riportata nel bel libro “Chi ha ucciso Pio La Torre?” di Paolo Mondani e Armando Sorrentino, pubblicato da Castelvecchi).
<<Noi sappiamo bene>> - ed è frase che sembra quasi richiamare quel drammatico “io so” scolpito da Pasolini sulla galassia dei misteri italiani-: come volesse, a futura memoria, agganciare a questa certezza retrospettiva le intuizioni e le scoperte che via via andava facendo, nei suoi ultimi giorni di vita, su quel grumo torbido che legava i 3 temi a lui più cari.
In altre parole: La Torre era convinto che gli alleati nel ’43 non si erano limitati ad attraversare la Sicilia per ragioni esclusivamente geografico strategiche. Si erano lasciati qualcosa di stabile dietro le spalle. Strutture di intelligence- chiamiamole così- che in Sicilia, negli anni, avevano proliferato e messo radici.
Questo era il gran sospetto di La Torre che forse era sul punto di venirne a capo.
Se così fosse, si spiegherebbe perché il Pci siciliano,  di fronte alla sua morte, apparve come un giunco piegato da fortissimi venti internazionali,  finendo così con lo scontare la sua totale inadeguatezza. Come d’altronde si spiegherebbe la distrazione colpevole delle forze dell’ ordine.
In questo contesto, l’unico lusso che La Torre e Di Salvo poterono concedersi,  fu quella che abbiamo definito una forma di <<autodifesa fai da te>>.

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