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di Salvatore Borsellino - 9 febbraio 2009
In anteprima l'editoriale di Salvatore Borsellino che aprirà il nuovo numero di ANTIMAFIADuemila in edicola a partire dalla prossima settimana. Si avvicina il 17° anniversario della strage di Via D'Amelio, 17 lunghi anni nel corso dei quali si sono alternati in me sentimenti assolutamente contrastanti.


Prima l'esaltazione per quella che sembrava essere la reazione della coscienza civile a fronte di quelle due stragi così terribili e così riavvicinate.
Quella reazione che aveva portato la gente, ai funerali dei ragazzi di Paolo, a cacciare a spintoni, a pugni, a schiaffi, tutti i politici che si disputavano i primi posti davanti a quelle bare. I primi posti, la dove potevano essere meglio ripresi dalle televisioni accorse da tutto il mondo per un evento così tragico come l'assassinio di due giudici, che tutto il mondo conosceva, a distanza di soli 57 giorni..
Non importava che quelle bare fossero quasi vuote, non importava che le madri, i padri, i fratelli di quei ragazzi dovessero stare dietro a quella fila di avvoltoi con le loro facce compunte da occasione. Erano quelle stesse madri a cui la madre di Paolo aveva voluto baciare le mani una per una dicendo loro che avevano dato la vita dei loro figli per suo figlio. Ma per quegli avvoltoi quelli erano solo carne da macello, da mandare, indifesi, a far da scorta ad un giudice indifeso, anzi ad un giudice posto volutamente sotto l'obiettivo dei suoi assassini. Carne da macello per cui perdere il tempo di una messa, di un funerale, e poi da dimenticare, al massimo con la ricompensa, per chi aveva avuto la fortuna di morire, di una medaglia d'oro alla memoria. E di un indennizzo, come se si potesse indennizzare la perdita di un figlio, di un fratello, mandato a morire solo perché, per i "superiori interessi dello Stato", si era deciso che con quello che prima era il nemico da combattere si doveva invece ora trattare, stabilire una modalità di convivenza e di spartizione del potere.
Ma nonostante un cordone di 4000 poliziotti fatti venire apposta da fuori della Sicilia perché nessuno dei compagni di quei ragazzi si sarebbe prestato a farlo, quei poliziotti non avevano potuto, o non avevano voluto, fare da schermo a chi non meritava di essere difeso e quel funerale stava per trasformarsi in un linciaggio.
Poi i funerali di Paolo, con la gente che si accalcava, che cercava almeno di toccare la bara del suo giudice, che gridava "Paolo, Paolo, Paolo" con un urlo unico, continuato che faceva paura a chi doveva fare paura e che riempiva invece di speranza i cuori delle persone oneste. Che faceva credere che quel sogno per cui Paolo era morto si potesse ora realizzare grazie a quella massa di gente che dopo la morte di Paolo aveva trovato la forza di ribellarsi.
Poi i lenzuoli, appesi ai balconi di Palermo, quei lenzuoli che volevano dire "io, che abito qui, con questo nome, con i miei figli, con la mia famiglia, non ho paura di questi criminali e voglio combatterli, Paolo mi ha dato il coraggio di farlo".
Sembrava una promessa, la promessa di realizzare tutti insieme quel sogno per cui Paolo e i suoi ragazzi avevano dato la vita.
Poi la illusoria risposta dello Stato, i detenuti per mafia trasportati a Pianosa e all'Asinara, il 41 bis, le leggi speciali. Illusioni, solo illusioni.
Non c'è mai stata in Italia una volontà autonoma dello Stato di combattere la criminalità organizzata e questa lotta è sempre venuta sulla spinta di singoli settori dello Stato, di singoli uomini, magistrati, poliziotti, giornalisti, sindacalisti, che proprio per la loro solitudine sono stati additati alla vendetta di chi poteva così ben credere che eliminando loro quella reazione dello stato si sarebbe affievolita fino a spegnersi, o sino alla prossima strage. E con le stragi, da Portella della Ginestra in poi, sono stati pilotati gli equilibri politici in Italia, stragi di Stato. Stragi senza movente apparente, senza mandanti inchiodati alle loro responsabilità, solo qualche volta con degli esecutori processati e condannati. Ai quali però i tanti depistaggi e le complicità all'interno dei servizi deviati dello Stato sono spesso riusciti ad assicurare dorate latitanze in paesi lontani.
Poi i collaboratori di giustizia, i processi. Uno di questi, Scarantino, che si autoaccusa del furto dell'auto che venne imbottita di tritolo, poi ritratta, poi riconferma ancora. Arrivano le condanne e gli ergastoli per i vertici dell'associazione mafiosa e per i tanti che hanno collaborato all'organizzazione della strage.
Ma manca qualcosa. Non si sa, o non si vuole sapere, da dove è stato azionato il detonatore che ha innescato l'esplosione in Via D'Amelio, non si sa, o non si vuole sapere chi, a quale organizzazione appartenesse, chi lo ha azionato, non si sa o non si vuole sapere da dove sono partite tutte una serie di telefonate da cellulari clonati e in uso sia a componenti della criminalità organizzata che ad appartenenti a dei servizi dello Stato che, solo per carità di patria, possiamo chiamare deviati.
C'è chi lo sa e, grazie alla sue tecniche avanzatissime e al software da lui stesso sviluppato e di cui dispone è in grado di dimostrarlo in base soltanto all'incrocio di dati prelevati da tabulati telefonici. Non da intercettazioni, ma dai dati relativi al semplice traffico telefonico ed alle celle che hanno gestito questo traffico. Si chiama Gioacchino Genchi, un vicequestore della polizia in aspettativa, che ha collaborato con le procure di tutta Italia e le cui consulenze hanno permesso di assicurare alla giustizia centinaia di criminali. Ma proprio per questo, per queste sue capacità, deve essere eliminato. Eliminato non con il tritolo, ma come si fa oggi, con metodi che non richiedono poi la necessaria reazione dello Stato per tacitare l'opinione pubblica. Con gli stessi metodi che sono stati adoperati per Luigi De Magistris, per Clementina Forleo, Luigi Apicella, cioè con la delegittimazione, con la condanna da parte di un CSM ormai asservito ed organico al potere e la rimozione dall'incarico e dalle funzioni. Cioè con la morte civile, con un metodo talmente ignominioso che oggi mi fa pensare che è meglio che Paolo sia stato ucciso con il tritolo piuttosto che in questa maniera. Se si fossero seguite le intuizioni di Genchi, che due ore dopo la strage del 1992 andò a bussare alla porta del Castello Utveggio per identificare le numerose persone che quel pomeriggio, un pomeriggio di domenica, vi si trovavano oggi i mandanti di quella strage sarebbero in carcere piuttosto che occupare le più alte posizioni nelle gerarchie istituzionali. Ma quei processi non sono stati fatti e non si devono fare ed è per questo che Gioacchino Genchi deve essere eliminato e non per un fantomatico archivio illecito che non esiste, composto infatti solo da tabulati telefonici legittimamente acquisiti su incarico delle procure e poi restituiti alla conclusione delle indagini ad essi relativi. Gli assassini o i loro complici hanno pensato a tutto, a quasi tutto, hanno pensato a proibire o rendere impossibili le intercettazioni ma hanno dimenticato un particolare, quello che può essere rivelato dalla tracciatura del traffico telefonico, ed ora sono costretti a uscire allo scoperto e ritornare sulla scena del delitto per fare sparire anche questa ultima traccia dimenticata. O almeno la possibilità di utilizzarla.

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