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Avvitamento dopo avvitamento, il governo si allontana, e una nuova votazione si avvicina
La quadratura del cerchio non è stata ancora inventata e non sarà certo Mattarella a diventare il nuovo Pitagora. Ma non è di prognosi che nutriremo questo articolo. Il fatto è che ormai tutti i protagonisti dovrebbero dedicare maggiore attenzione al loro futuro. E questo, in certo qual senso, significa voltarsi indietro e studiare meglio che li ha votati e perché.
I sondaggi dicono che sia la Lega che il Movimento 5 Stelle andrebbero avanti impetuosamente in caso di un ritorno alle urne. Può darsi. Ma non sono sicuro che la stessa analisi valga per entrambi, sebbene credo che una parte dell'elettorato di entrambi pensi che la corsa a chi arriva primo sia ancora da portare fino in fondo.
Ma chi la pensa così è la maggioranza? C'è da dubitarne. Il voto del 4 marzo è stato un sommovimento profondo, un terremoto politico di vaste dimensioni. l'effetto di una emozione collettiva, di rabbia e di inquietudine al tempo stesso. Il suo risultato non è paragonabile a quelli che la tradizione ci ha offerto negli ultimi 40 anni. E questo ci fa pensare (o dovrebbe) a una fase di grande fluidità. Detto in parole più semplici: siamo sicuri che la distribuzione delle forze emersa il 4 marzo sia stabile per lungo tempo?

Ci sono molti motivi per pensare il contrario. Per esempio Di Maio ha giocato tutta la sua campagna elettorale sullo slogan del futuro "governo 5 Stelle". Il 32% degli elettori votanti (non il 32% degli italiani, se si calcola che oltre il 30% non è andato a votare) gli ha creduto. Ma, nel caso in cui non si andasse a un "governo 5 stelle" ma a un governo di coalizione (per giunta non guidato dal "leader unico"), cosa ne penserebbero i suoi elettori?

Molti non saranno contenti, questo è certo. Quanti di questi credo potremo presto contarli, ma una cosa è certa già fin d'ora: che una gran parte dell'elettorato 5 Stelle non è affatto abituata, né consapevole della necessità di farlo, a muoversi - come è stato scritto da qualcuno - "nel perimetro politico del possibile". Al contrario molti sono rimasti affascinati dall'idea di "fare da soli", di raggiungere una maggioranza che avrebbe loro consentito di non avere bisogno di nessuno, di sconfiggere in un colpo solo tutti i nemici.
Di Maio li ha incoraggiati fino all'ultimo a coltivare questa, che si è rivelata un'illusione. Gli ha assicurato l'exploit, è ben vero, ma adesso è una cambiale che non può essere incassata. "Non faremo alleanze!" Questo è stato il mantra, anche quando il crudo calcolo del realismo diceva che il 40% sarebbe rimasto lontano e irraggiungibile. Solo allora si è corretto il tiro, ma con una ingenuità troppo trasparente per restare invisibile. "Ci rivolgeremo a tutti, esibendo il nostro programma e chi ci starà verrà con noi". Quanto questa formula differisca da una alleanza vera e propria è ancora da chiarire. E lo si vede in questa trattativa per formare il governo, dove Di Maio ha dovuto inventare la parola "contratto".

Il termine tedesco, appena consumato per mettere insieme un governo a Berlino, gli ha consentito di evitare l'indicibile parola "compromesso" che non sarebbe piaciuta quasi a nessuno degli elettori del M5S. Ma stendere un "contratto" con i nemici di ieri non è cosa esaltante per chi aveva promesso di sgominarli tutti. È chiaro che questa lesione nell'architettura di Di Maio comincia ad appesantire le sue mosse. In una recente trasmissione di Porta a Porta, il vecchio marpione che porta il nome di Bruno Vespa inferse una considerevole picconata a questa architettura ricordando a Di Maio che Bettino Craxi divenne Presidente del Consiglio di un governo di centro sinistra con soltanto il 6% dei voti del Partito Socialista. E poi affondò il coltello nella ferita ricordandogli che Spadolini era riuscito in un'analoga impresa con meno del 3% addirittura. Affacciandosi a quella fenditura anche Di Maio poté certamente vedere l'abisso di un governo non solo non "a 5 stelle", ma nemmeno con Di Maio premier.

Non è solo una questione di prestigio personale: sarebbe un colpo per gran parte dell'elettorato che Di Maio è riuscito a coagulare. Si tradurrebbe in un molteplice e percepibile ridimensionamento della stessa vittoria elettorale. Per questo motivo - come avvenne nelle circostanze appena ricordate, - il leader unico del M5S non seppe che riproporre, senza convincere nessuno dei presenti, né tanto meno la platea degli spettatori, che il premierato "5 Stelle" non poteva essere messo in discussione comunque. Inutile fargli rilevare che l'interesse generale del paese potrebbe richiedere un sacrificio del genere (sempre, naturalmente, che ci sia qualcuno che ragiona in termini di interesse generale).

Dunque - se queste considerazioni hanno un valore - o si andrà a nuove elezioni e Mattarella non potrà assurgere al ruolo di Grande Geometra, oppure Di Maio, o chi per lui nel Movimento 5 Stelle (forse Beppe Grillo in persona), dovrà decidere se pagare un prezzo elettorale. Diciamo così: un prezzo "emotivo", il che non diminuisce il suo carattere di "prezzo".

L'altro punto su cui l'esito "positivo" (cioè quello che si conclude con la formazione di un governo "con", al suo interno, i 5Stelle) riguarda i contenuti. Di Maio è riuscito a dissipare gran parte dei sospetti che il M5S fosse rimasto una forza avventurista, pericolosa, estremista. Lo ha fatto qualificandolo come forza politica "non ideologica", palesemente tanto interclassista da far pensare a una nuova democrazia cristiana. Questo gli ha permesso di raccogliere voti da molte parti, anche opposte. Ma questo gli ha fatto perdere, appunto, gran parte del fascino anti-sistema che ne caratterizzò in parte le origini.

Rimane la lotta alla corruzione della Casta, la moralizzazione della politica. Ma, com'è evidente a chi ragiona, questa è la goccia nel mare. E anch'essa sarà ridimensionata in corso d'opera mentre si stenderà il "contratto".

Molto più importante sarà dare un'occhiata anche sommaria al suo corpo elettorale attuale. Si capisce subito che occorrerà una grande sapienza tattica e di manovra nei mesi a venire per evitare tracolli che potrebbero divenire turbinosi. Il voto operaio specie al nord, è andato verso il Movimento 5 Stelle. Se sono veri i dati che dicono che il 43,5% dei lavoratori a tempo indeterminato; che il 39,1% di quelli a tempo determinato, hanno votato il M5S; che ha votato Di Maio il 42,9% dei disoccupati, allora la questione sociale, il lavoro (e non soltanto il reddito di cittadinanza) saranno cruciali per la sua tenuta. E un programma che, per esempio, consenta a Di Maio di raccogliere un "contratto" con, per esempio, il PD, sarà una trappola troppo moderata per convincere tanta parte di un elettorato tanto furioso quanto sommario nelle sue speranze.
Sotto molti di questi aspetti Matteo Salvini avrà problemi diversi e non così acuti. Il suo elettorato è più omogeneo, chiaramente di destra, cioè meno ondivago. In caso di insuccesso nella formazione del governo, non corre il rischio di un karakiri. Se si spacca la sua coalizione, allora farà una scorpacciata doppia di voti di Forza Italia. Altri argomenti per pensare a un voto anticipato. Ma con quale legge elettorale nessuno può ancora immaginarlo.

L'architettura di Di Maio si è venuta pian piano lesionando. È rimasto nell'ombra, a prescindere dall'altalena Tra i due, cioè tra Di Maio e Salvini, quello che rischia di più mi sembra il primo. Cercherò di spiegare il perché, non senza avere premesso che il Movimento 5 Stelle è una forza politica post-ideologica. Una forza populista, nel senso alto del termine. Essa si muove costantemente nel perimetro politico del possibile. Non è una forza avventurista, né estremista, né antisistema. È una forza di cambiamento, anche radicale, ma non rivoluzionaria in senso classico. Siamo appena all'inizio di un percorso che si preannuncia lungo ed incerto. Tatticismi e strategie si alterneranno prima che questa fase si esaurisca e si potranno cominciare a dare alcuni giudizi perentori.

Tratto da: it.sputniknews.com

Foto © Sputnik - Natalia Seliverstova

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