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Questo articolo comparirà su «La Voce delle Voci» - luglio 2010.
di Giulietto Chiesa - 1° luglio 2010
Di Pomigliano dovremo parlare a lungo. Anzi, più che parlarne, su questa trincea dovremo combattere. Perché questo è l’inizio di una svolta epocale, in cui chi comanda cerca di imporre le sue nuove regole alla società intera.

Regole di una nuova guerra di classe.

Regole di un potere che traballa, senza prospettive e destino, ma che per questo diventa feroce e pronto a tutto.

Noi, che stiamo dalla parte di chi subisce la violenza, abbiamo perduto. Se ti costringono, con la pistola alla tempia, a scegliere tra il vivere e il morire, l’esito è scontato.

Ma a Pomigliano l’esito non è stato così scontato.

Se si misura l’enormità del ricatto e dell’offesa inferta ai lavoratori; se si misura il tradimento di quasi tutte le centrali sindacali; se si misura l’assenza, l’insulso balbettamento del PD, quando non i decibel scomposti dei peana innalzati a Marchionne dai maggiordomi torinesi Fassino e Chiamparino; se si misura la praticamente unanime azione del mainstream televisivo e giornalistico a sostegno del padrone e/o del governo: se si misura tutto questo, allora il risultato ottenuto dalla caparbia resistenza della FIOM assume dimensioni straordinarie. Che fanno pensare che la partita non è affatto perduta.

Ecco perché la FIAT non è contenta del risultato e la Confindustria neppure: si aspettavano di stravincere e così non è stato. Già pensavano che sarebbe stata una pacifica (per loro) discesa introdurre dappertutto le norme imposte a Pomigliano, in tutti gli stabilimenti italiani, in tutti i settori.

Tutti i padroni, infatti, potranno dire, cifre alla mano, che in tutte le aziende italiane il costo del lavoro è superiose a quello che c’è nelle loro filiali (o nelle filiali del vicino di panfilo) in Romania o in Cina, o in Polonia, o nelle Filippine, o in Messico. Invece i dati del referendum gaglioffo dicono che non di una pacifica discesa si tratterà e forse, al contrario, di una strada dissestata e in salita.

Certo il sindacato si è presentato allo scontro non solo diviso ma anche disarmato. Non solo perché arrendevole. Soprattutto perché, non avendo elaborato, pensato, immaginato, disegnato un programma di radicale riconversione industriale (l’unico in grado di difendere e rilanciare l’occupazione, ma in altra direzione), non ha potuto contrastare la mortifera atmosfera che promana da un’azienda (la FIAT) e da un settore (quello dell’auto) destinati ad affondare nella crisi. E in tempi rapidi.

Senza una chiara visione del disastro che incombe non si può proporre nessuna alternativa. Senza aver capito che l’automobile non è più un futuro per nessuno, non si può nemmeno gridare a gran voce che la scimmia al comando è definitivamente impazzita. E che le sue promesse – per le quali la maggioranca, costretta, ha comunque votato – sono non soltanto cattive ma anche irrealizzabili. La FIAT non produrrà comunque i sei milioni di vetture che ha detto di voler progettare. E, se li producesse, non li potrebbe vendere. Perché se comprimi il mercato della domanda (come sta avvenendo drammaticamente in tutte le direzioni) la tua offerta non troverà acquirenti.

Quello che si vede è soltanto una cosa: un attacco strategico ai diritti, da usare subito. Per cui a Pomigliano si è votato che cosa? Di rinunciare a diritti, costituzionali e umani, fondamentali, per tenere in vita per qualche mese un quasi cadavere che, quando comincerà a puzzare, verrà seppellito, esattamente come Termini Imerese, con la scusa che il mercato non tira. Amen.

In realtà sta accadendo qualche cosa di molto più importante. Il capitalismo finanziario è senza una linea e una guida, e assomiglia sempre di più a una guerra per bande senza esclusione di colpi. E il capitalismo industriale è di fronte ai limiti dello sviluppo, e non ha più i margini per ripetere quello che ha fatto per quasi un secolo: cioè non può più mantenere un retroterra relativamente privilegiato, relativamente fidato. Il gigantesco surplus che realizzava sulle spalle del mondo povero veniva in parte erogato per tenere relativamente alto il tenore di vita delle classi lavoratrici dei paesi ricchi, soprattutto dei ceti medi.

Certo, questo gli serviva non solo per attenuare il conflitto in casa propria, ma anche per avere un mercato di consumo sostenuto all’interno dai produttori divenuti consumatori.

Oggi non è più possibile. Scesi i margini, nel pieno di una sovraproduzione non assorbibile, apparsi concorrenti non addomesticabili, le classi dirigenti sono costrette a rompere il patto sociale con le classi lavoratrici del miliardo d’oro. Non si può più offrire loro tutti i lussi del consumo di massa. Dopo averli istupiditi per decenni con la pressione consumistica a oltranza, non si sa più se li si potrà costringere a spendere ancora indebitandosi (in America e Gran Bretagna ci sono già riusciti, ma in Europa pare funzioni molto poco). E non si sa, al contrario, se si riuscirà a spiegare loro che non potranno comunque più consumare come prima.

E questo cambio di marcia non si potrà farlo lentamente.

La crisi arriva galoppando. Lentamente significherebbe usare l’arma lunga della seduzione con cui li hai manipolati. Ma non c’è tempo.

Allora bisognerà farlo con il bastone. Per questo Marchionne c’è andato giù duro dopo essere andato a scuola negli USA. Solo che, appunto, queste cose le puoi fare su un pubblico lavoratore che è stato in ginocchio per ottant’anni. Non è detto che funzioni in un paese che ancora non è stato piegato del tutto. Per cui l’operazione “fine dei consumi, fine dei diritti” non ha un esito scontato. Pomigliano è un laboratorio sperimentale per vedere se ce la possono fare.

Ciò che li rende inquieti è il fatto che hanno il fiato corto e non hanno un progetto per il futuro Vanno a tentoni, anche se, avendo il bastone in mano, possono fare molti danni. Certo è che rovineranno. Il problema nostro è che corriamo il rischio di rimanere anche noi sotto le loro macerie.

E c’è un solo modo per evitarlo: innalzare la bandiera della verità, che è la bandiera di una transizione consapevole verso la società che verrà dopo questa, ormai in agonia.

Certo non ci si può aspettare che il sindacato, la FIOM, faccia da solo ciò che è un compito collettivo delle classi lavoratrici e dell’intellettualità italiana. Il problema è che, al momento attuale, il problema della transizione non è ancora entrato nel discorso politico corrente.

Perché questo cominci ad avvenire occorre: a) vedere la profondità e irreversibilità della crisi. Condizione essenziale per cominciare a fronteggiarla nell’interesse dei più deboli, strappando ai più forti il privilegio della proposta; b) liberarci di un’elite politica della sinistra e della democrazia che è ormai piuttosto simile a una cupola complice del potere. Con questi non si può andare da nessuna parte, per la semplice ragione che nemmeno loro sanno dove andare. E certo non interpretano più i sentimenti dei milioni di inquieti.

La “nostra” transizione non la può guidare Marchionne. Se ne ha in mente una, come Pomigliano dimostra, quella non è la nostra. La transizione non può venire da Berlusconi, né da Bersani, né da Epifani. Loro sono gli organi della scimmia al comando dell’aereo che sta precipitando.

La transizione dobbiamo pensarla noi e organizzarci per imporla, con il sostegno della gente.

Tratto da: megachip.info

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