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di matteo salerno vitale tg2 postdi Giorgio Bongiovanni - Video

Ventotto anni sono passati da quel 19 luglio 1992 in cui il giudice Paolo Borsellino fu ucciso in via d'Amelio assieme ai cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Ventotto anni di misteri, mezze verità, depistaggi e prove sottratte, come l'agenda rossa. Ventotto anni alla ricerca di quei mandanti esterni che hanno chiesto ed ottenuto l'esecuzione del magistrato, appena 57 giorni dopo l'Attentatuni di Capaci. Tra i magistrati più impegnati in questa strenua ricerca della verità vi è Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura, ma che nel corso della sua carriera professionale si è sempre occupato di questi argomenti.
Ieri, intervistato dal conduttore Luca Salerno e Francesco Vitale per Tg2 Post, ancora una volta ha ricordato il percorso fin qui svolto, ribadendo che "non è vero che non sappiamo nulla sulla strage di via d'Amelio". "Dopo gli iniziali depistaggi ed errori - ha spiegato - già dal 1995 e dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti. I processi ci consentono oggi di dire che la strage di via d'Amelio è stata una strage di mafia, ma non solo. E per colmare questi buchi di verità, dando un nome e cognome a quegli uomini estranei a Cosa nostra che hanno compartecipato all'organizzazione e probabilmente alla stessa esecuzione della strage, dobbiamo concentrarci su due fattori: capire perché improvvisamente nel giugno del '92, rispetto a un progetto assolutamente generico di uccidere il dottor Borsellino, viene accelerata da Salvatore Riina questa volontà di eliminare subito il magistrato. E poi dobbiamo inquadrare quella strage in contesto più ampio di sette stragi che hanno caratterizzato il biennio del 1992-1994. Dobbiamo cercare di capire quale fu la strategia di Cosa nostra e mi sento di dire, sulla base della mia conoscenza degli atti dei processi, non soltanto di Cosa nostra".
Ricostruzioni che sono state sviluppate nelle indagini e nel dibattimento del processo, oggi in corso in appello, sulla trattativa Stato-Mafia.
il patto sporco alt 300 internaDi Matteo, assieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, è stato uno dei quattro membri del pool che ha rappresentato l'accusa e, dopo la sentenza del 20 aprile 2018, ha scritto insieme al nostro editorialista, il giornalista scrittore, Saverio Lodato, "Il Patto Sporco" (edito da Chiarelettere) all'interno del quale vengono ripercorse varie vicende.
Tra queste, nella parte finale del libro, rispondendo alle domande poste da Saverio Lodato, in maniera sintetica e scorrevole il magistrato riassume le oltre cinquemila pagine di sentenza del processo Stato-Mafia passando in rassegna, in maniera semplice e chiara, quei fatti inquietanti e drammatici che si sono succeduti nel terribile biennio '92-'94 nel quale si consumarono le stragi. Un libro importante, specie per i giovani che non masticano usualmente le carte giudiziarie, in cui si riassumono i motivi che portarono la Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, a condannare in primo grado, accanto ai boss mafiosi, anche alti funzionari di Stato e politici e boss di Cosa nostra.

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Perché cessano le stragi?
Tornando allo speciale Tg2 Post, una domanda dopo l'altra, l'analisi è proseguita sui motivi per cui, dopo il fallito attentato all'Olimpico nel gennaio 1994, a cui si possono aggiungere in base alla ricostruzione del processo 'Ndrangheta stragista anche i delitti contro i carabinieri in Calabria, ad un certo punto le stragi di mafia cessano improvvisamente. "Sappiamo - ha ricostruito Di Matteo - dai processi che Cosa nostra con la strategia stragista intendeva seguire una strategia politica: creare nuovi referenti politici, minacciare lo Stato perché qualcuno si facesse avanti per dialogare. Purtroppo dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d'Amelio, mentre Paolo Borsellino andava coscientemente ed eroicamente contro la morte, uomini dello Stato, tramite Vito Ciancimino, contattarono Riina per capire cosa volesse in cambio per abbandonare quella scia di omicidi eccellenti inaugurati col delitto Lima. Bisogna capire perché, dopo il fallito attentato all'Olimpico già pronto con tutti i particolari esecutivi, quell'attentato non venne ripetuto. Siamo subito dopo il 23 gennaio '94 qualche mese prima delle elezioni del marzo '94 che cambiarono lo scenario politico. E' molto importante capire perché non venne portata avanti quella strategia. Da un punto di vista di Cosa nostra possiamo dire che prevalse l'ala di Provenzano che da qualche tempo propugnava la teoria del dialogo con lo Stato e l'inabissamento promuovendo il dialogo attraverso una nuova forma di accreditamento nei confronti di referenti politici".

Scarcerazioni come segnale devastante
Nel corso dell'intervista ha trovato spazio anche la storia recente, con la vicenda delle scarcerazioni, tra gli altri, anche di boss mafiosi al 41 bis e detenuti in alta sicurezza nel periodo in cui dilagava l'emergenza coronavirus. Secondo Di Matteo "un segnale devastante sia da un punto di vista concreto che da un punto di vista simbolico. Centinaia di boss mafiosi sono rientrati a casa ai domiciliari avendo quindi la possibilità di riallacciare rapporti e contatti criminali. Quindi si è creato un effetto concretamente molto pericoloso. Da un punto di vista simbolico io penso a come il popolo, chi subisce quotidianamente le violenze mafiose, ha potuto interpretare il fatto del ritorno a casa del capo mafia. Per me è un segnale devastante di impotenza e resa dello Stato soprattutto se lo colleghiamo al fatto che queste scarcerazioni sono avvenute poco dopo le rivolte organizzate in varie carceri d'Italia". Da sottolineare che prima di quelle scarcerazioni, nelle carceri d'Italia vi erano state anche delle rivolte e sul punto la valutazione del consigliere togato è semplice: "L'esperienza ci insegna che non erano quelli ad essere saliti sui tetti ad aver ideato le rivolte che sono state organizzate contestualmente in più penitenziari d'Italia. Presumo che ci sia stata un'organizzazione".
Ovviamente non poteva mancare anche una domanda sul clamoroso dietrofront del ministro della giustizia Alfonso Bonafede e la mancata nomina di Di Matteo al Dap. Il magistrato ha ritenuto di non fare ulteriori aggiunte a quanto già riferito in sede istituzionale: "Quello che avevo da dire l'ho detto davanti alla Commissione Antimafia. In commissione ho anche ricordato le parole del ministro Bonafede. Lui aveva fatto riferimento a mancati gradimenti e dinieghi che sarebbero pervenuti quindi lui dovrebbe rispondere a chi e a che cosa si riferisse".

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Messina Denaro, i segreti e le bombe del ricatto
Altro punto toccato nell'intervista è quello della lunga latitanza del boss trapanese Matteo Messina Denaro. "Ventisette anni di latitanza non possono essere soltanto il frutto dell'abilità del fuggiasco che si sottrae alla cattura - ha analizzato Di Matteo - Così come è stato per Bernardo Provenzano, che è stato latitante per 43 anni, io mi sento di dire che una latitanza così lunga la si può giustificare solo con coperture istituzionali e forse anche politiche. E' gravissimo che lo Stato italiano non riesca dopo 27 anni a consegnare alla giustizia un soggetto condannato come uno dei principali ispiratori delle stragi del '93 che portarono addirittura l'ex presidente del consiglio Ciampi a temere che fosse in atto un golpe. E' grave ancor di più questa latitanza perché Messina Denaro è certamente custode dei segreti della campagna stragista del '93 che lo rendono in grado purtroppo di poter esercitare ancora un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni. Ecco perché sarebbe un bel segnale se Messina Denaro, condannato per le stragi del '93, venisse catturato. Messina denaro è uno di quelli che indica al commando di uomini d'onore che si spostarono a Roma, Firenze e Milano quali obiettivi colpire".
Sul concetto di ricatto il consigliere togato ha poi specificato: "Messina Denaro è stato uno degli strateghi delle bombe del '93 che non sono tipiche di mafia. Spatuzzza diceva 'quei morti non ci appartengono'. Sono bombe di dialogo e di ricatto. Chi è custode di questi segreti è in grado di esercitare questo ricatto. Ci sono collaboratori di giustizia come Antonino Giuffrè che dice che Messina Denaro è in possesso di documenti di Riina che non sono stati pervenuti dal covo di Riina perché, ormai è storia, quel covo non venne mai perquisito". E poi ancora: "Cosa nostra è l'unica organizzazione al mondo che è riuscita a concepire stragi, centinaia di omicidi eccellenti tra magistrati uomini delle forze dell'ordine, politici, sindacalisti, predetti e giornalisti. Questo perché Cosa nostra è la più politica tra le organizzazioni mafiose. E' quella che ha avuto sempre la maggior capacità di intessere rapporti col potere e di sfruttarli a proprio favore. E' quella che ha avuto la maggior capacità di condizionare scelte politiche nazionali. Basta pensare alle sentenze del processo Andreotti e del processo Dell'Utri e quella di primo grado del processo trattativa Stato-Mafia".

Il 41bis sotto attacco
Certo è che le stragi, e quei delitti avvenuti tra il 1992 ed il 1994, secondo quanto affermato da diversi collaboratori di giustizia, avevano tra gli obiettivi anche quello di portare ad un alleggerimento del cosiddetto 41 bis, il carcere duro. Un regime detentivo speciale che negli ultimi anni è finito nel mirino della Corte Europea di Strasburgo. "Con tutti il rispetto per le corti europee io credo che quelle pronunce abbiano un problema di fondo - ha affermato Di Matteo - Il 41 bis non è una misura afflittiva. E' una misura di prevenzione, per prevenire il pericolo che il capo mafia detenuto continui a comandare.
Il 41 bis è stato importantissimo ed ha evitato sicuramente altre morti. Probabilmente deve essere meglio applicato nei confronti di chi veramente comanda, non con una misura di ulteriore afflizione. Mai bisogna pensare che lo Stato si debba accanire contro i detenuti. Ma deve essere uno strumento di prevenzione". Purtroppo negli ultimi anni, per delle carenze strutturali del sistema carcerario e con esse la carenza di uomini e mezzi, possiamo dire che l'applicazione del 41bis è stata annacquata negli ultimi anni".

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Sempre restando all'attualità, dopo il Caso Palamara e lo scandalo per le nomine delle Procure, Di Matteo ha evidenziato come i fatti emersi dall'inchiesta di Perugia "non devono sorprendere, ma indignare". "Noi magistrati avevamo tutta la possibilità di capire quanto il sistema stesse degenerando ancor prima dell'inchiesta dei magistrati di Perugia. Purtroppo non abbiamo reagito in maniera compatta e in tempo per ribaltare quel sistema. Mi riferisco alla degenerazione del correntismo, al collateralismo con la politica e al carrierismo. Oggi noi dobbiamo essere i primi a reagire. Dobbiamo farlo con comportamenti individuali". E poi ha ribadito: "Servono riforme radicali e dobbiamo lottare perché qualcuno non approfitti di questo momento di grande difficoltà per far fare quelle riforme che limitino l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e facciano diventare soprattutto l'ufficio del pubblico ministero un ufficio collaterale e servente rispetto al potere esecutivo. Questo non lo dobbiamo permettere nell'interesse dei cittadini".

Borsellino e via d'Amelio

A due giorni dalla strage di via d'Amelio le parole di Di Matteo diventano importanti perché tracciano un quadro tra passato e presente che è a dir poco allarmante. Come ha ricordato Salvatore Borsellino, anche lui intervistato su Tg2 Post, dopo 28 anni c'è un pezzo di verità che va ancora ricostruito su certi delitti. Guardando a via d'Amelio, ha affermato che a mancare non è la "verità sull'identità dei mafiosi che hanno ucciso mio fratello, che erano i nemici che Paolo combatteva ed è quasi normale quando si è in guerra morire per mano del nemico, ma i traditori di Paolo. Questi sono i nomi che voglio conoscere. Coloro che hanno preferito intavolare una trattativa scellerata con la mafia e per questo hanno sacrificato la vita di mio fratello. Questo significa conoscere la verità: conoscere non i nomi dei mafiosi ma i nomi dei traditori che all'interno dello Stato hanno deciso di eliminare mio fratello perché non rivelasse quella trattativa che aveva scoperto essere in corso e che sapevano avrebbe denunciato all'opinione pubblica.
Il piano di eliminazione di Paolo è stato accelerato perché aveva chiesto di testimoniare a Caltanissetta. Paolo era l'unica persona che aveva letto tutti i diari di Giovanni Falcone, era suo amico, non è stato mai chiamato a Caltanissetta e il 25 di giugno ha chiesto di essere sentito lì. Questo è il secondo motivo per cui è stato assassinato mio fratello. Perché non testimoniasse a Caltanissetta”. Domande che restano aperte e che si spera possano trovare presto risposta.

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