Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Giorgio Bongiovanni e Karim El Sadi
Ieri la Corte d'Appello ha rimosso i sigilli alle proprietà dell'editore

Se non indigna la sentenza di ieri, con la quale la Corte d'Appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo, lascia quantomeno un po' perplessi. I giudici hanno motivato la loro decisione affermando che "non può ritenersi provata l'esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese". Né che "può ritenersi provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto e il suo nucleo familiare potevano disporre e la liquidità utilizzata nel corso del tempo". Addirittura la Corte ritiene che vi sia una "mancanza di pericolosità sociale" dell'editore catanese. Conclusioni che, seppur da rispettare, collidono, e non poco, con gli elementi raccolti dai magistrati che nel 2017 chiesero ed ottennero un processo contro il potente imprenditore catanese con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Un processo ancora in corso davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Catania (presidente Roberto Passalacqua), che si basa su una serie di prove ed elementi che sarebbero iniziate negli anni ’70 per protrarsi nel tempo fino ad anni recenti. Vicende, scrivevano i pm, relative "la partecipazione ad iniziative imprenditoriali nelle quali risultano coinvolti forti interessi riconducibili all’organizzazione Cosa nostra, catanese e palermitana". Nel corso delle indagini, inoltre, la procura annotava di aver trovato cinquantadue milioni di euro depositati in Svizzera e non dichiarati in occasione dei precedenti scudi fiscali. Tra gli atti acquisiti vi era anche la motivazione della sentenza del gup a carico dell'ex governatore siciliano Raffaele Lombardo. In quelle pagine il nome di Mario Ciancio Sanfilippo è scritto più volte. “Il modus operandi e la presenza di elementi vicini alla mafia palermitana - aveva scritto il gup del processo Lombardo, Marina Rizza - fanno ritenere con un elevato coefficiente di probabilità che lo stesso Ciancio fosse soggetto assai vicino al detto sodalizio”. “Attraverso i contatti con Cosa nostra di Palermo”, l’editore “avrebbe apportato un contributo concreto, effettivo e duraturo alla famiglia catanese”.
Nel frattempo è iniziato il processo e non sono mancate, nel corso del dibattimento, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Tra questi i pentiti Maurizio Avola e Francesco Squillaci.
Il primo aveva raccontato le parole del boss Marcello D'Agata il quale gli disse "che Ciancio era protetto dai Corleonesi". Il secondo, invece, aveva riferito di un finto attentato da organizzare ai danni dell’editore “per far passare il signor Ciancio come vittima di Cosa Nostra e non come carnefice, in quanto il signor Ciancio si sentiva controllato e aveva saputo che c’era un’indagine nei suoi confronti”. In pratica un modo per allontanare l’ombra dell’autorità giudiziaria dalle sue spalle. E queste sono solo alcune delle vicende che riguardano l’imprenditore.

Responsabilità storiche e sociali di Ciancio
Certo è che i fatti fin qui emersi sono già sufficienti per avere un’idea e fare anche delle valutazioni storiche e sociali. Un soggetto capace di influenzare l’opinione pubblica, e non solo, nella provincia di Catania e nella Regione. Sebastiano Ardita, già sostituto procuratore presso il Tribunale di Catania e oggi consigliere togato del Csm, nel suo nuovo libro "Cosa nostra S.p.A." (ed. Chiarelettere) ha ripercorso alcuni fatti descrivendo passo passo quelle che sono state le sue responsabilità storiche e sociali nella sua città natale. In breve, secondo il magistrato, Mario Ciancio Sanfilippo "rappresentava la Catania bene nella sua edizione più esclusiva e raffinata, e al tempo stesso soddisfaceva i desideri del popolo. Gestiva sapientemente strumenti di evasione ed esigenze identitarie della sicilianità, mantenendo poco apparenti - se non occulte - le commistioni con la politica". Una fama, la sua, tale da riuscire ad ospitare i reali di Inghilterra nel 1985. Un'inconsueta visita che non fece altro che elevare la sua considerazione agli occhi dei catanesi "fino quasi alla soglia del mito". Ciancio si guadagnò quella reputazione grazie al quotidiano "La Sicilia" di cui divenne direttore nel 1976, carica che lasciò solo nel 2018, anno del suo arresto.

tribunale catania da fnsi it

Il Tribunale di Catania


In questi 46 anni passati sulla scrivania della redazione in Viale Odorico da Pordenone “Ciancio aveva centrato i suoi obiettivi: disponeva di forza economica, di credito politico e del consenso popolare per aver avuto la capacità di chiamare a raccolta attorno a sé i catanesi che contano”. Inoltre il suo “successo era coinciso in gran parte con il periodo storico di dominio della Democrazia Cristiana e con l’epopea dei cavalieri del lavoro, le cui iniziative politico-economiche trovavano sempre una importante eco nel giornale. Si trattava di un tutto tondo che non escludeva alcuna prospettiva, neppure quella giudiziaria”, scrive Ardita. L’informazione unica, rappresentata dal gruppo Ciancio, “riusciva a dare una propria lettura di tutti i fatti, anche di quelli giudiziari, accreditando a priori una pseudo-identità vincente”. “In quel delirio di anni Ottanta, stordito dalla musica rock e dal suo sogno identitario, il popolo recepiva le posizioni minimaliste sul ruolo e la consistenza della mafia alle pendici dell’Etna, descritta come una realtà fatta di bande ed estranea a Cosa nostra, mentre invece i catanesi vi militavano nella serie maggiore. Proprio mentre Giuseppe Calderone prima e Nitto Santapaola poi - scrive il magistrato - ascendevano nella struttura di comando della cupola, mantenendo uno stretto rapporto con i cavalieri dell’Apocalisse; cioè mentre la mafia catanese e il suo metodo invadevano l’intera nazione”. Nel mentre, proprio negli anni di maggior successo, riporta Sebastiano Ardita nel suo libro, “iniziavano a circolare i primi echi di alcune vicende che avevano destato sconcerto nella opinione pubblica”. A Palermo, il 27 luglio del 1985, veniva ucciso Beppe Montana.
Un "'catanese' di cui si poteva davvero andare orgogliosi", scrive Ardita. La famiglia, in occasione del Trigesimo, preparò un necrologio da pubblicare nel quotidiano di Ciancio Sanfilippo, nel quale esprimeva il suo “rabbioso rimpianto”, “rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori” .
“Era un modo per dire che in quella città, con quel sistema di potere e di informazione, il sacrificio di Beppe era rimasto insabbiato e dimenticato”. Dal vertice del giornale, però, arrivo un diniego e quel necrologio, che conteneva la parola 'mafia', non fu mai pubblicato.
Tempo dopo “vi fu la vicenda del capo mafia Ercolano, che protestò contro il giornalista Concetto Mannisi - che in un suo pezzo lo aveva definito “boss” - e ottenne la soddisfazione di vedere il cronista redarguito dal “direttore” in sua presenza”.
Tutto ciò, spiega Ardita, “sussurrato, ma ben conosciuto dai catanesi”, non impedì tuttavia al gruppo editoriale e al suo direttore di continuare “ancora per anni a navigare sicuri. Tant’è che anche la crisi istituzionale del 1992, con la piccola rivoluzione giudiziaria provocata da Tangentopoli ai piedi dell’Etna, lasciò quasi indifferente il gruppo di viale Odorico da Pordenone; che anzi ne cavalcò l’onda proponendosi strategicamente come l’interlocutore del “nuovo” che si sarebbe affacciato in politica. Un senso di intoccabilità che durò decenni anche nel momento in cui Mario Ciancio Sanfilippo si interessò alla costruzione di ipermercati in odor di mafia, di cui Ardita parla ampiamente in “Cosa nostra S.p.A.” fino a quando nel 2010 non iniziarono i primi guai con le indagini avviate a suo carico e l’arresto avvenuto 8 anni più tardi dopo un intricato iter giudiziario. Una storia, insomma, fatta di grigi contorni. E’ lecito chiedersi come sia possibile che la Corte d’Appello di Catania possa essere entrata a gamba tesa su un processo in corso, con valutazioni che dovrebbero essere competenza della prima sezione penale del Tribunale di Catania. Ad ogni modo non resta che attendere l'esito del processo per concorso esterno.
Come sempre abbiamo affermato in questo giornale le sentenze vanno rispettate, ma le responsabilità politiche e sociali, i rapporti oscuri ed ibridi con le mafie dei potenti (Mario Ciancio Sanfilippo è un potente a tutti gli effetti), vanno sempre ricercate e svelate. E certi episodi non possono essere dimenticati.

Foto di copertina © Imagoeconomica

ARTICOLI CORRELATI

Ciancio: Corte d'Appello di Catania dispone dissequestro di tutti i beni

Processo Ciancio, il pentito Avola parla di ''protezioni'' dei corleonesi

Processo Ciancio. Il pentito Squillaci: ''Ci chiese un finto attentato perché lo stavano indagando''

Processo Ciancio: ''Così 'La Sicilia' rifiutò il necrologio sulla morte di Beppe Montana''

Quella volta che Pippo Ercolano ''entrò nella redazione de La Sicilia per lamentarsi di un articolo''