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Csm, riforme della giustizia, mafia e mandanti esterni delle stragi

La prescrizione, la riforma della giustizia, la riforma del Csm. Sono solo alcuni degli argomenti trattati in questa prima parte dell'intervista al consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, che abbiamo raggiunto a Roma. Il magistrato, che per anni si è occupato di importantissime indagini sull'organizzazione criminale Cosa nostra, le stragi, la trattativa Stato-mafia, offre un'analisi a 360° su questi argomenti che sono al centro del dibattito politico.

Dott. Di Matteo, lo scorso ottobre lei è stato eletto con 1184 voti al Consiglio superiore della magistratura. Partirei proprio da qui, dal ruolo di consigliere che lei oggi ricopre. Come sa il nostro giornale ha più volte criticato - in passato, ma anche di recente - prese di posizione dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura che non abbiamo affatto condiviso. Oggi qual è l'aria che si respira?
Faccio parte del Consiglio Superiore della Magistratura da quasi cinque mesi e non sono pentito di avere affrontato questa avventura della candidatura che è poi sfociata nell'elezione. Sul Csm condivido anch'io un giudizio che è di molti: troppe volte in passato, piuttosto che difendere l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura e dei singoli magistrati, si è comportato come ci si comporta nei centri di potere. Mortificando - come è avvenuto per esempio per Giovanni Falcone - le aspirazioni legittime dei magistrati più coraggiosi, esposti e validi. Ed è vero che con quanto emerso da una inchiesta di Perugia, risalente all’inizio dell’estate scorsa, probabilmente ha toccato il punto più basso della sua storia. Ma non dobbiamo rimanere sorpresi, dobbiamo essere indignati e conservare questa indignazione ora e in futuro. I fatti hanno dimostrato che il Re era nudo, che l'Organo di autogoverno dei magistrati stava rischiando di trasformarsi, definitivamente, in un’istituzione non solo collaterale alla politica, ma anche profondamente malata poiché permeata da logiche di esasperato correntismo, di clientela, da logiche che facevano prevalere criteri di appartenenza a correnti o cordate.
Ma è vero pure che quello scandalo può costituire un momento di svolta e di rinascita del Csm. Il mio e il nostro impegno è quello di contribuire a questa svolta. Dobbiamo adoperarci per lavorare con logiche che siano soltanto di trasparenza e coraggio con un fine preciso: tutelare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e soprattutto di quelli più esposti, più a rischio, quelli che contano esclusivamente sulla propria capacità professionale, sul proprio coraggio e non sono legati - né si vogliono legare - a gruppi di potere di qualunque tipo.
Io sono convinto che tanto si può fare per questa lotta di libertà e di democrazia perché il Csm diventi veramente baluardo dell'autonomia dell'indipendenza della magistratura, così com’era nella intenzione dei Padri Costituenti e nella legge istitutiva del 1958. E’ un'opera, un cammino lungo, un obiettivo difficile da conseguire, ma che sicuramente si può raggiungere puntando ad un cambiamento che coinvolga anche la base. I mali che si sono evidenziati in tutto il loro clamore con l’inchiesta di Perugia, le prassi odiose - ora finalmente sotto gli occhi di tutti - dovranno essere abbandonate non soltanto da chi fa parte degli organi di autogoverno, ma da tutti i magistrati. Che dovranno essere capaci di rinunciare a quelle logiche di carrierismo, di corsa a tutti i costi agli incarichi direttivi e semi-direttivi, di burocratizzazione, di gerarchizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi anni della storia della magistratura italiana.

Lei ha parlato della necessità di una “svolta etica della magistratura”. Che cosa intendeva dire?
Senza volermi ergere a moralista io credo che la magistratura italiana - prima ancora di affrontare i problemi legati alla efficienza del servizio Giustizia - debba recuperare nei fatti l’orgoglio che deriva dal suo passato. Che non è stato contrassegnato solo - e già sarebbe tanto - dai molti colleghi che hanno sacrificato la vita per la Giustizia, ma anche da un dato che non si può disconoscere: è stata capace di essere in prima linea nel tentativo di applicare veramente la nostra Costituzione. In prima linea non soltanto nella lotta al terrorismo e alla mafia, ma nell’azione quotidiana di cercare di rendere la legge davvero uguale per tutti; in prima linea per dare libertà e dignità ai più deboli; in prima linea perché il secondo comma dell'Art. 3 della Costituzione* - e cioè l'invito a rimuovere gli ostacoli all'uguaglianza, sancita dal primo comma - fosse veramente attuato. E allora noi dobbiamo essere consapevoli che abbandonarci a logiche di collateralismo politico, di opportunismo, di mediazione tra vari interessi significherebbe tradire quella storia. E consegnarci ad un futuro in cui si potrebbe realizzare il sogno, l’aspirazione di una gran parte del potere politico, economico e finanziario: quello di avere una magistratura sostanzialmente asservita al potere politico, al potere esecutivo. In questo senso la lotta per riportare pulizia e trasparenza all’interno del Csm diventa una lotta di libertà, di democrazia che ha il fine di conservare il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato.

Tra le tante riforme che il Ministero della Giustizia ha proposto c'è anche quella del Consiglio Superiore della Magistratura. Quali modifiche suggerirebbe lei ai legislatori?

Guardi, fermo restando il principio della elezione e non della scelta mediante sorteggio dei membri togati del Csm, io suggerirei loro di studiare dei sistemi elettorali in grado di diminuire, già in questa fase, il potere delle singole correnti. E, di conseguenza, di aumentare la possibilità che venga candidato ed eletto il magistrato effettivamente stimato ed effettivamente meritevole di quella stima.

Una sorta di Meritocrazia.
Potrebbe essere utile studiare un sistema a doppio turno, in cui la rosa dei candidati viene inizialmente individuata attraverso elezioni su base territoriale, distrettuale. In questo modo verrebbe privilegiato non solo o non tanto chi è appoggiato da una corrente ma chi, all’interno di quel territorio, è particolarmente stimato per le sue doti professionali, di onestà, di forza morale.
Anche se io non credo che il cambiamento debba avvenire soltanto a colpi di riforme, benché qualche riforma, come quella di cui ho parlato, potrebbe essere utile. Il vero cambiamento avviene attraverso l’abbandono di logiche clientelari, spartitorie, di mediazione, di corrente, di cordata e questo cambiamento passa dai singoli magistrati e soprattutto, visto che parliamo di CSM, dai singoli consiglieri. Chi viene eletto al Consiglio Superiore della Magistratura deve sentire la responsabilità di contribuire al cambiamento. Deve sentire la grande responsabilità e il grande peso nella trattazione di ogni pratica - anche quella apparentemente di routine - di difendere la vera indipendenza della magistratura. E di valorizzare quei magistrati che l’autonomia e l'indipendenza la vivono quotidianamente nell’esercizio, spesso veramente difficilissimo, delle loro funzioni.

Lei è noto al pubblico per la sua chiarezza, per la capacità di far comprendere i temi della Giustizia anche ai non addetti ai lavori. Può quindi spiegare ai nostri lettori il dibattito-polemica sulla riforma della prescrizione attualmente in corso? E qual è la sua opinione in merito?

Io credo che bisognerebbe partire dai dati di fatto. Il principale è che in Italia si è creata, per troppi anni, una sacca di vera e propria impunità per una serie di delitti. Mi riferisco, soprattutto, ai delitti tipici dei colletti bianchi, dei pubblici ufficiali, degli incaricati di pubblico servizio contro la Pubblica Amministrazione. Questa sacca di impunità è dimostrata dal fatto che soltanto una percentuale irrisoria di detenuti, ristretti nelle nostre carceri, sta scontando una pena per quei reati. Ed è stata provocata non solo dalla difficoltà di individuare, sanzionare, punire, condannare i corrotti, ma anche dal fatto che molti di quegli imputati, anche quando le prove a loro carico erano schiaccianti, non sono stati condannati per intervenuta prescrizione.
E allora cerchiamo di fare chiarezza: l’istituto della prescrizione, in tutti i sistemi processuali, nasce per fotografare il momento in cui, per il passaggio di troppo tempo dalla commissione di un reato, lo Stato non ha più interesse ad individuare e punire i colpevoli. Ma nel momento in cui un processo nasce - e quindi lo stesso Stato dimostra questo interesse - ritengo che per un principio elementare di civiltà giuridica quel processo debba concludersi con una sentenza di condanna o di assoluzione. Quindi con un accertamento nel merito. Da questo punto di vista ho giudicato assolutamente positiva la novella legislativa che prevede che, almeno dopo la sentenza di primo grado, il termine di prescrizione non decorra più. Non condivido quindi tutte queste obiezioni, i dubbi, le proteste e le grida di dolore che la dipingono come una riforma che uccide lo stato di diritto quando invece questo tipo di regola, adesso introdotta nella Legge italiana, è prevista anche in altri ordinamenti giuridici sicuramente evoluti, quali quelli di quasi tutti gli Stati Europei.
Altro problema è quello della insopportabile lunghezza dei processi penali. Su questo tema penso che chi ha il compito di ottenerne una velocizzazione, quindi il legislatore, dovrebbe capire che ciascun processo ha una storia a sé, una complessità diversa e che non è quindi possibile stabilire astrattamente che un processo debba durare un anno, due anni o tre anni, come previsto da alcuni progetti di riforma. Con conseguente sanzione disciplinare per i pubblici ministeri e i giudici che non rispettino quei tempi. La minaccia di una sanzione, infatti, comporterebbe inevitabilmente una induzione, per il Pm, ad indagare meno approfonditamente pur di rispettare i termini e, per il giudice, a decidere più velocemente anche quando invece la sua coscienza e la sua professionalità imporrebbero un approfondimento.
A mio parere la velocizzazione si dovrebbe ottenere attraverso una riduzione del numero dei processi penali, che può avvenire con una seria depenalizzazione e attraverso una riforma del giudizio di appello che preveda l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Questo per scoraggiare quegli appelli che hanno come unica finalità quella di allungare i tempi perché in ogni caso l’imputato appellante non rischia nulla, se non che venga confermata la sua sentenza.
Sono inoltre convinto che sia necessaria una profonda rivisitazione delle regole processuali del dibattimento penale. Nel senso che, pur confermando la validità dell’impianto accusatorio del nostro processo, si preveda però la possibilità di recuperare a livello probatorio, senza necessità di ripetere la prova in dibattimento, alcuni risultati delle indagini preliminari.

Questo accorcerebbe molto i tempi del dibattimento.
Esatto. Tanto questo non precluderebbe la possibilità, anche per le difese, di approfondire in dibattimento eventuali passaggi degni di un esame più attento. Eviterebbe però storture processuali che allungano tanto i tempi quale quella, per esempio, che obbliga oggi un ufficiale di Polizia giudiziaria ad andare in dibattimento a fingere di ricordare dettagli di uno scippo sventato quindici anni prima e sul quale aveva al tempo stilato una relazione completa.
Potremmo fare un altro esempio sul regime della utilizzabilità delle intercettazioni. Oggi, qualsiasi intercettazione diventa prova soltanto quando viene trascritta, con le forme della perizia, nel giudizio dibattimentale, anche qui con conseguente e spesso notevole allungamento dei tempi.
Io credo che le trascrizioni fatte nel corso delle indagini preliminari dalla Polizia giudiziaria, che nel frattempo sono state esaminate, così come le intercettazioni ascoltate dai difensori, potrebbero certamente transitare nel fascicolo per il dibattimento, essere considerate elementi di prova. Fatta salva, ovviamente, la possibilità per il difensore di contestare determinati passaggi di quella trascrizione della Polizia giudiziaria, ma senza doverla necessariamente ripercorrere nella sua integralità. Questo perché spesso parliamo di centinaia e centinaia di ore di intercettazioni ambientali.
Ecco, intervenire su questi meccanismi processuali potrebbe accorciare i tempi del giudizio penale.

Purtroppo le polemiche su questa proposta di legge sono tante, sia da parte di esponenti politici che, purtroppo, di magistrati. Perché secondo lei c'è questa resistenza, questa volontà di non far approvare tale legge?
Fermo restando il pieno rispetto delle opinioni altrui - quando queste opinioni sono espresse in buona fede - io temo che ci sia da un lato una parte, spero piccola, di resistenza dovuta a chi, tutto sommato, vuole che rispetto a certi fenomeni e certi reati venga conservata quella sacca di impunità che il vecchio regime della prescrizione consentiva. E, dall'altro - ed è possibile che ciò riguardi, purtroppo, una parte della magistratura, anche se minima - che la prescrizione venga considerata comunque come un fattore positivo di deflazione del numero dei processi e di alleggerimento di carichi che spesso sono oggettivamente insopportabili.
Rispetto però ai principi generali ed agli obiettivi di cui parlavamo prima, credo che sarebbe un grave errore tornare indietro nella logica della conservazione di quella sacca di impunità e di deflazione dei numeri che, appunto, il vecchio regime della prescrizione consentiva.

* Articolo 3 della Costituzione Italiana
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.



SECONDA PARTE

Csm, riforme della giustizia, mafia e mandanti esterni delle stragi


Se nella prima parte l'argomento principale affrontato riguardava la riforma della giustizia e del Csm, in questo secondo capitolo dell'intervista con il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, il focus si sposta sulla mafia ed i rapporti che essa ha con il potere per poi arrivare alle stragi dei primi anni Novanta e quella ricerca dei mandanti esterni che non si è ancora esaurita.

Nei mesi scorsi vi sono state due sentenze, la prima della Cedu e poi quella della Corte Costituzionale, sul tema dell'ergastolo ostativo e la concessione dei benefici penitenziari anche a chi non collabora con la giustizia. Caso vuole che di entrambe nelle ultime settimane abbia parlato un boss di Cosa nostra come Giuseppe Graviano. Secondo lei c'è un nesso? Quali sono i rischi che si corrono dopo queste pronunce?

Guardi, a prescindere da quello che pensa o che ha detto Graviano sul punto, il tema di interesse è un altro. Io faccio riferimento ad alcuni dati di fatto.
La nostra legislazione, all’Articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prevedeva che questi sconti e questi benefici non potessero applicarsi ai condannati definitivi per certi reati tra i quali le stragi, gli omicidi di mafia, di terrorismo.
Il primo dato di fatto: quel tipo di ergastolo è l’unica vera sanzione penale che ha fatto sempre paura ai mafiosi. Loro non temono eccessivamente le detenzioni temporanee, ma temono l’ergastolo perché lo considerano il vero ostacolo all’esercizio del loro potere all’interno delle organizzazioni criminali.
Secondo punto di fatto: proprio per ottenere l’abolizione o l'alleggerimento dell’ergastolo, quantomeno dell’ergastolo ostativo, in certi momenti della loro storia i mafiosi, in particolare nel periodo stragista tra il ‘92 e il ‘94, hanno ricattato lo Stato a colpi di attentati con una vera e propria strategia della tensione.
Noi adesso dobbiamo fare i conti con una sentenza della Corte Costituzionale che dobbiamo obiettivamente rispettare, anche se non la condividiamo.
Essa presenta dei punti che, a mio parere, possono essere suscettibili di uno sviluppo, di un approfondimento in sede legislativa.

Ovvero?

In primo luogo sarebbe un gravissimo errore ritenere che la sola condotta carceraria del detenuto ergastolano di mafia possa costituire un elemento per valutare la concedibilità di permessi e sconti di pena.
Io credo, e spero, che il legislatore si muova per capire quali dovrebbero essere gli elementi di fatto legittimanti per un eventuale accesso ai benefici penitenziari.
Non può essere sufficiente una valutazione positiva del comportamento carcerario. Casomai si dovrebbe avere una prova fattuale, certa e concreta, non solo del fatto che il detenuto abbia già interrotto il suo rapporto con l’organizzazione criminale, ma che la stessa organizzazione criminale abbia definitivamente voluto troncare i rapporti con il detenuto. Soltanto in presenza di questa prova certa, concreta, che evidenzi la reciproca rottura del vincolo associativo, sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale, si potrebbe valutare la concedibilità.

Quella rottura con la mafia che diventa chiara ed evidente con la collaborazione con la giustizia...
Certamente, nella prassi, l’unico momento di rottura è la collaborazione con la giustizia. Ma noi non possiamo nemmeno escludere il dato, che però deve venire fuori da un punto di vista probatorio in maniera concreta, che effettivamente la rottura, anche per chi non inizia a collaborare con la giustizia, sia avvenuta e sia definitiva.
Le faccio un esempio. Rispetto ad un detenuto di mafia all’ergastolo che dica 'io mi dissocio dall’organizzazione criminale' o 'io non ho più contatti con l’organizzazione criminale e non li voglio avere', personalmente, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non mi sentirei tranquillo.
Diverso sarebbe se si consacrasse una prova certa che quel detenuto non vuole recuperare i rapporti, che quel detenuto e i suoi familiari, non siano stati più, da anni, assistiti economicamente o in altro modo dai mafiosi in libertà.

Verificarlo in che modo?

Potrebbe essere attraverso un'attività di intercettazione ambientale o telefonica, attraverso le indagini sul territorio.
Indagini volte a dimostrare che i mafiosi non hanno più nessuna voglia di considerare quel detenuto come uno di loro o, addirittura, hanno la volontà di ucciderlo o comunque di estrometterlo da ogni possibilità di conoscenze e di rapporto con l’organizzazione.
Allora in quel momento ci troveremmo di fronte a situazioni concrete, desunte non dalla sola condotta carceraria, ma da una situazione investigativamente ricostruita all’esterno del carcere in cui si può valutare anche la concretezza della prova del venir meno definitivo del vincolo. E’ una situazione estremamente difficile da provare, ma io auspico che il legislatore si muova in tal senso.

E la pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo, che peso può avere nelle valutazioni del legislatore?
Rispetto a quella della Corte Costituzionale la pronuncia della Cedu mi è sembrata assai più superficiale. Essa sembra muovere, mi dispiace dirlo, da una assoluta mancata conoscenza della specificità del fenomeno criminale mafioso. Da questo punto di vista devo dire anche che, da molte indagini condotte nell’ultimo decennio ed anche intercettazioni ambientali di soggetti condannati all’ergastolo, anche degli stragisti del biennio ‘92-‘93, veniva fuori la speranza di questi detenuti che un cambiamento potesse arrivare proprio a partire dalle pronunce delle Corti Europee. Sono stati, da questo punto di vista diciamo, facili profeti. Non hanno sbagliato le loro previsioni.

Uno di questi "profeti" era proprio Giuseppe Graviano che ne parlava con il suo compagno d'ora d'aria, Umberto Adinolfi. Il boss stragista di Brancaccio, nelle ultime settimane, pur non essendo un collaboratore di giustizia, sta rispondendo alle domande del Pubblico Ministero, il Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, in un processo, 'Ndrangheta stragista, che lo vede imputato assieme a Rocco Santo Filippone come mandante degli attentati ai Carabinieri che si verificarono tra la fine del '93 e gli inizi del '94, in cui morirono gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.

Secondo l'ipotesi dell'accusa quei delitti si inserirebbero nel medesimo contesto stragista che, a Palermo, avete ricostruito, prima nelle indagini e poi nel processo, con l'inchiesta Stato-mafia.
Lei che idea si è fatto delle dichiarazioni, tra menzogne e mezze verità, di Graviano?
Perché sta parlando?
Guardi, esprimere completamente la mia opinione sarebbe irrispettoso nei confronti dei colleghi che stanno conducendo quel processo, che hanno condotto quell’esame dibattimentale. Mi limito soltanto a formulare una considerazione e un auspicio, senza dare opinioni sulla base delle cronache giornalistiche.
La considerazione, più che una considerazione valutativa è la sottolineatura di un dato di fatto. Alcuni rapporti, di cui Graviano oggi parla nel dibattimento, tra famiglie mafiose palermitane e Silvio Berlusconi, hanno formato oggetto delle conversazioni che noi, come procuratori del processo trattativa Stato-Mafia avevamo intercettato nel 2016 in carcere tra Graviano ed il suo compagno di socialità Adinolfi. Ma quei rapporti, ben più significativamente sulla base di tutta una serie di elementi certamente molto più ampia rispetto al solo angolo visuale che oggi prospetta Graviano, sono stati ricostruiti in sentenze.
Mi riferisco alla sentenza definitiva della Corte Suprema di Cassazione che ha condannato Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e mi riferisco alla sentenza di primo grado del processo Trattativa Stato-Mafia.
In quelle sentenze questi rapporti tra Cosa Nostra palermitana e Silvio Berlusconi sono ricostruiti come esistenti, duraturi, costanti almeno nel periodo dal 1974 al ‘92 per quanto attiene la sentenza definitiva Dell’Utri. E sono anche dettagliati come rapporti che si sono consacrati in costanti e cospicui versamenti di denaro da parte dell’imprenditore Berlusconi alle famiglie mafiose palermitane.
Per quanto riguarda, poi, la sentenza Trattativa Stato-Mafia, si specifica che quei rapporti sono proseguiti anche nel periodo in cui Silvio Berlusconi era diventato Presidente del Consiglio a seguito delle elezioni politiche del ‘94.
Quindi devo dire che oggi la parte di opinione pubblica che valuta le esternazioni di Graviano dovrebbe quantomeno sapere che alcune sentenze hanno effettivamente accertato l'esistenza di taluni rapporti.
Questa è la constatazione.

Ma si può sperare in una collaborazione con la giustizia di un boss stragista?

L’auspicio, che non può essere diverso da quello che ho sempre avuto nei confronti dei più importanti esponenti di vertice della mafia - e Graviano lo è - è che questi effettivamente inizino a collaborare a partire dalla ammissione del loro ruolo in Cosa Nostra.
Nel caso specifico a partire da quello che è stato definitivamente consacrato, mi pare sulla base di prove inoppugnabili: e cioè il fatto che Giuseppe Graviano è stato, tra i mafiosi, uno dei protagonisti principali dell’intera campagna stragista del ‘92 e del ‘93.
Graviano, non è soltanto il mio pensiero ma emerge da tanti processi, è a conoscenza anche dei retroscena che riguardano non soltanto Cosa Nostra ma chi con Cosa Nostra ha ideato, organizzato ed eseguito le stragi.
Dunque penso che noi dobbiamo sempre, nel tendere alla verità, auspicare che chi conosce collabori nel senso pieno e non parziale - o, peggio ancora, faccia finta di collaborare - e che quella collaborazione sia genuina, sincera, completa.

Lei, in un primo momento, commentando le parole di Graviano, aveva ricordato di essere stato "additato come un fanatico visionario". Che cosa voleva dire?

Ripeto, sulle parole di Graviano non faccio alcuna valutazione. Ma ho voluto semplicemente dire che, rispetto a certe cose, mi stupisce lo stupore. Nel senso che questo è un Paese, ma non accade soltanto nel caso dei rapporti tra Cosa Nostra e gruppo Dell’Utri-Berlusconi, che certe volte ignora anche quello che è consacrato in sentenze definitive.
Quel che è peggio è che quando qualcuno, e non dovrebbe essere necessariamente il magistrato, quelle conclusioni delle sentenze le ricorda viene additato come una sorta di fanatico che vuole perseguire chissà quale scopo.
Per il resto io credo che sono stati fatti tanti passi avanti negli ultimi anni e sono stati anche raggiunti dei risultati notevoli.
Non ci si deve fermare, ma per andare avanti bisogna avere piena conoscenza di quello che è stato fatto prima. Inoltre bisogna, nei limiti in cui ciò è consentito, divulgare quanto è stato fatto e quanto è stato acquisito nei processi.

Tra i latitanti più pericolosi, se non il più pericoloso, vi è il "boss dei boss", Matteo Messina Denaro. Processi e sentenze ci raccontano che Graviano e Matteo Messina Denaro, oltre ad essere parigrado della commissione di Cosa Nostra, erano in strettissimi rapporti. Facevano le vacanze con le mogli, le fidanzate. Può esserci una condivisione di strategie ancora oggi tra i due capimafia?

Io so soltanto una cosa, che è emersa da tanti processi. Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati i principali protagonisti della campagna degli attentati del ‘93 a Roma, Firenze, Milano, che si sarebbe dovuta concludere poi con la madre di tutti gli attentati: la strage allo Stadio Olimpico di Roma.
In quel periodo erano particolarmente coesi e agivano insieme. Quindi sono sicuramente conoscitori di tutti gli aspetti, anche quelli più reconditi, di quella anomalia delle stragi portate in Continente.
Un’altra cosa che mi sento di poter dire è che una latitanza che si protrae ormai da quasi 27 anni, come quella di Matteo Messina Denaro, non può essere soltanto frutto dell’abilità di chi si sottrae alla cattura ma certamente di coperture, anche istituzionali, che quella latitanza hanno favorito almeno in certi momenti.
Provenzano è stato latitante 43 anni e poi abbiamo scoperto quanto variegato fosse il mondo di estranei a Cosa Nostra che, comunque, aveva favorito quel protrarsi della latitanza. Matteo Messina Denaro è latitante da troppo tempo ed è il principale conoscitore dei segreti delle stragi, in particolare di quelle del 1993.
Credo non si possa correre il rischio di dare adito al pensiero che questa latitanza si protragga anche sulla scia del potere di ricatto che, eventualmente, Matteo Messina Denaro può avere nei confronti di pezzi deviati dello Stato e delle Istituzioni. E' qualcosa che non possiamo permetterci.
Ecco perché nella ricerca della verità, ma anche nell'affrancarsi dal sospetto per le istituzioni di possibili connivenze o possibili soggezioni ai ricatti, sarebbe un grandissimo segnale se Matteo Messina Denaro venisse finalmente catturato.

Tornando a parlare dei segreti di cui Messina Denaro sarebbe a conoscenza, il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, già membro della commissione provinciale di Cosa Nostra, disse che al boss di Castelvetrano fu consegnato l’archivio segreto di Totò Riina... Uno straordinario elemento di ricatto?
A prescindere da questo aspetto che, per quello che ricordo, Giuffrè ricostruì più come una sua valutazione che come conoscenza, noi non possiamo non pensare a una cosa: Matteo Messina Denaro è colui il quale, in una villetta di Santa Flavia, parlando con Gaspare Spatuzza ed altri esecutori materiali negli attentati del ‘93, indica loro gli obbiettivi monumentali da colpire.
Bene, io credo che quella determinazione è difficile che Matteo Messina Denaro l’abbia fatta da solo, senza "suggeritori". Ecco perché quei "suggeritori" non potevano essere intranei a Cosa Nostra. Ecco perché dico che lui è a conoscenza dei segreti delicati ed inconfessabili che rimangono tali sulle stragi, soprattutto del 1993. Ed ecco perché dico che almeno per questo motivo potrebbe essere ancora in grado di esercitare un potere di ricatto nei confronti di parti infedeli dello Stato.

Spesso oggi si ritiene che la mafia non faccia più stragi. Mi scusi se entro nel merito anche di una sua vicenda personale, ma è un dato anche giudiziario. Matteo Messina Denaro è colui che ha chiesto di eseguire, nel recente passato, un attentato a un magistrato di Palermo. Questo magistrato è lei. E ciò è avvenuto mentre, assieme ad altri suoi colleghi, lei stava conducendo l'inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia. Al di là della vicenda personale, secondo lei Cosa Nostra è in grado di riprendere la strategia stragista o ha abbandonato l’idea?

Direttore stavolta la devo contraddire, questa non è una vicenda personale perché come uomo di Stato, come magistrato e come ogni studioso del fenomeno io penso che tutti abbiano il diritto-dovere di capire se è vero quello che sostiene una parte dell’apparato antimafia, cioè che in Cosa Nostra la strategia stragista è stata definitivamente abbandonata, o se invece è vero quello che un collaboratore di giustizia, ritenuto attendibile in varie sentenze e le cui dichiarazioni sono state utilizzate per condannare decine e decine di altri mafiosi, ha riferito; cioè che nel 2012-2013 avevano già comprato l’esplosivo per uccidere un magistrato a Palermo.

Il collaboratore racconta di una spesa per l'esplosivo di centinaia di migliaia di euro.
Nella ricostruzione di quei flussi finanziari sono stati condannati anche dei soggetti, dei commercialisti che, secondo il collaboratore Vito Galatolo avrebbero diciamo contributo a reperire la somma necessaria per comprare l’esplosivo. Allora, io non voglio esprimermi nel merito, ma è una contraddizione logica che non si può superare il dato di chi, da una parte, crede che quell’attentato era in avanzata fase di organizzazione e, dall’altra parte, dice “no, ma tanto ormai la mafia non fa più stragi”. E vorrei che su questo si andasse veramente a fondo.
Parlando più in generale io dico sempre che nel dna della mafia - e della mafia più evoluta e strategicamente più intelligente nella storia di tutte le organizzazioni criminali, che è Cosa Nostra - c’è sempre stata la logica dell’adeguarsi ai tempi e alle esigenze.
I momenti di apparente "basso profilo", e quindi di mancanza di attacco frontale allo Stato, si sono alternati a momenti in cui, invece, Cosa Nostra ha alzato il tiro ed ha ucciso politici, magistrati, ufficiali dei carabinieri, poliziotti ed ha compiuto omicidi eccellenti.
Io non sono convinto, proprio perché penso di conoscere la storia di Cosa Nostra, che la parentesi corleonese sia stata una parentesi unica e irripetibile. Alla luce di questo e dell'esperienza dico che certamente, oggi, i colpi che sono stati assestati con decine e decine di indagini e processi all’ala militare di Cosa Nostra probabilmente rende più difficile, in questo momento, che la mafia rialzi la testa attaccando frontalmente lo Stato. Ma questa è un'eventualità che noi dobbiamo considerare sempre come possibile. Noi dobbiamo sempre ragionare ritenendo che questa eventualità si possa concretizzare da un momento all’altro.

Consigliere, una domanda sulle stragi di Capaci e via d'Amelio. Lei ha ottenuto, proprio per la strage di via d'Amelio nel Borsellino ter, l'ergastolo per tutta la commissione di Cosa Nostra ed ha aperto piste importanti sui cosiddetti mandanti esterni.
Un suo ex collega, Antonio Ingroia, in passato aveva parlato di una porta semichiusa della stanza della verità. Poi aveva affermato che, pur riuscendo ad entrare nella stanza, all'interno la luce era spenta. Una stanza in cui qualcuno aveva sbarrato le finestre e le luci artificiali erano non funzionanti. Una stanza in cui vi trovavate con le candele.
Un po' di luce è stata fatta grazie al vostro lavoro, a quello suo e dei suoi colleghi, perché si sono riaperte nuove piste, con indagini che sono in corso.
Penso, ad esempio, alle inchieste di Firenze, aperte proprio dopo le intercettazioni di Graviano, disposte da voi pm che lavoravate alla Procura di Palermo.
C'è stato un processo, il quarto su via d'Amelio, che ha posto in evidenza che sulla strage fu compiuto un depistaggio ed oggi, a Caltanissetta, è in corso un processo contro alcuni poliziotti. Il depistaggio può esaurire il problema dei mandanti o dei concorrenti esterni ai mafiosi che hanno commesso quell’efferata strage?
Dall'esterno, colgo dei segnali che non reputo tutti positivi. Spero di sbagliarmi, ma ho l'impressione che l’attenzione si sia concentrata su un segmento iniziale, sicuramente importante, quale è stato quello della collaborazione di Scarantino poi rivelatasi fasulla.
Così si è ottenuto un effetto, almeno a livello mediatico: è come se tutti i misteri di via d’Amelio fossero legati a quel segmento iniziale delle indagini.
Di aspetti da approfondire ce ne sono anche altri e quantomeno di pari importanza.
Credo anche che determinati aspetti importanti, acquisizioni anche recenti, andrebbero coltivate in maniera molto intensa a livello investigativo; possibilmente anche prima della loro rappresentazione pubblica nei processi, attraverso il deposito delle dichiarazioni anche a disposizione dei difensori, e quindi attraverso la conoscibilità a tutti. Ma questa è una mia opinione dall’esterno.
Personalmente, a maggior ragione nella mia veste di Consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, io innanzitutto conservo, e conserverò sempre, attenzione massima nei confronti del lavoro dei colleghi che si occupano del fenomeno mafioso e delle stragi.
In particolare vorrei che tutte le istituzioni - almeno noi nel Csm ci impegniamo a farlo - fossero effettivamente a sostegno di chi quella verità la vuole cercare veramente.
Non voglio dire altro. Ho già detto quello che penso. Non tutti i segnali che ho colto in questi ultimi anni mi lasciano sperare che quella porta di cui lei parlava si spalanchi in maniera definitiva e che la luce sia accesa.

L’ultima domanda, collegata a questa. Ovviamente in forma astratta. Secondo lei i mandanti esterni che hanno voluto le stragi, chiunque essi siano, comandano ancora in Italia? Hanno peso e potere quelli che hanno chiesto, ordinato, accompagnato, concorso con le stragi dei martiri Falcone e Borsellino e altri? Sono ancora lì oppure ci sono altre figure al vertice del comando?
Non lo so. Ma il potere, soprattutto quando è marcio, è una bestia difficile da estirpare e che si alimenta e trasmette di generazione in generazione. Sono convinto, sulla base dell’esperienza maturata dalla magistratura nel suo complesso, soprattutto in tema di stragi di mafia e di terrorismo, che determinati ambienti, se non le stesse persone che hanno condizionato pagine oscure della nostra storia repubblicana, non siano stati definitivamente spazzati via dalle nostre inchieste, dai processi e da quella residua, e purtroppo sempre marginale, attenzione che la grande stampa ed opinione pubblica dedica a quelle vicende.

Foto © Imagoeconomica

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