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di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Renzi e Mulé, due facce della stessa "Italia"

Si respira davvero un'aria nuova al Consiglio superiore della magistratura. Nelle ultime 48 ore i membri togati si stanno muovendo per chiedere al Comitato di presidenza l'apertura di pratiche a tutela di magistrati e giudici finiti nel mirino della politica: il primo intervento è quello proposto dal magistrato Di Matteo nei confronti del Gup nisseno Graziella Luparello. Il secondo quello che viene promosso dai togati di Area nei confronti dei pm di Firenze. Lo strumento è predisposto per legge ed ha come presupposto l'esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell'indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria.
Provvedimenti rari se si guarda alla storia del Consiglio superiore della magistratura.
I due "casi" in oggetto hanno nature diverse.
Il primo trae origine dalle parole dell'ex premier Matteo Renzi che a seguito delle perquisizioni della Guardia di Finanza scattate in tutta Italia sulla Fondazione Open, che ha finanziato la sua attività dal 2012 al 2018, compresa la Leopolda, la kermesse che si svolge tutti gli anni a Firenze, aveva detto di sentirsi "oggetto di attenzioni speciali" di certi magistrati e si era scagliato contro la procura di Firenze, parlando di "invasione del campo della politica". Il secondo caso è quello dell'ex direttore di Panorama, ed oggi deputato di Forza Italia, che ha accusato duramente il Gup di Caltanissetta Graziella Luparello, che nelle motivazioni della sentenza di condanna a 14 anni, al processo di primo grado in abbreviato, nei confronti dell'ex leader di Confindustria SiciliaAntonello Montante, ha ricostruito una serie di episodi che avrebbero riguardato anche lo stesso politico, definendo il giudice come un "cecchino della verità e del diritto", che ha "consapevolmente deciso di colpire un cittadino" e definendo la sentenza "falsa, infamante e diffamatoria, una porcheria". Il fatto è avvenuto durante la sua deposizione in Commissione Parlamentare antimafia, dove lui stesso ha chiesto di essere sentito lo scorso 14 novembre dopo la precedente audizione del giornalista Gianpiero Casagni, proprio sulle vicende che riguardano il Caso Montante.
In entrambi gli interventi non ci si limita ad una critica, sempre legittima, del merito dei rispettivi provvedimenti, ma si sviluppano commenti e considerazioni che vanno ben oltre alla contestazione dei fatti.

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L'onorevole Giorgio Mulé

La vicenda Montante è sicuramente uno dei casi più spinosi ed intricati degli ultimi anni. Una storia dove il confine di demarcazione tra lecito e illecito, etico e non etico, legittimo e illegittimo è particolarmente labile. Un caso che, per riprendere le parole del giudice Luparello in sentenza, evidenzia l'esistenza di una "mafia trasparente" laddove Montante è stato "il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un'antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali”.
Fermo restando che Mulé non è mai stato indagato, né è stato sentito dall'autorità giudiziaria come persona informata sui fatti, come ricordato da Di Matteo il giudice Luparello ha analizzato fatti "sulla base del materiale probatorio in atti" affrontando una vicenda "peraltro introdotta nel processo dalla difesa dell'imputato, della mancata pubblicazione sul settimanale 'Panorama' di documentazione offerta a quella testata giornalistica da altro giornalista siciliano, afferente i rapporti tra il Montante e soggetti appartenenti alle famiglie mafiose del Nisseno".
In maniera assolutamente legittima l'ex direttore di Panorama si è difeso in Commissione antimafia. Ma non si è limitato a offrire la propria ricostruzione dei fatti per allontanare eventuali sospetti sul suo operato, ma ha annunciato di voler chiedere allo stesso Csm di intervenire con un provvedimento disciplinare nei confronti del Gup ed anche contro i giornalisti che, a suo parere, si sono poggiati "consapevolmente" su una ricostruzione totalmente falsa dei fatti.
E ancora una volta, durante la sua audizione, non ha perso l'occasione di lanciare frecciate, senza fare nomi, contro magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d'Amelio ricordando l'ingiusta condanna in via definitiva in Cassazione all'ergastolo di nove innocenti, salvo poi dichiarare la propria "amicizia", tra gli altri, di figure come Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), ovvero colui che la sentenza del Borsellino quater identifica come il principale protagonista che ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia". Quindi, con una nota, ieri si è nuovamente espresso contro il consigliere Antonino Di Matteo, "reo" di aver proposto la tutela al giudice: "Le frasi attribuite al consigliere del Csm Antonino Di Matteo, ove corrispondano al vero, sono la miglior prova di un malinteso senso di appartenenza e della pretesa, che certo sarà respinta al mittente, di fare dell'organo di autodisciplina un sinedrio a difesa di una corporazione".
Del resto Mulé, ogni volta che Di Matteo è intervenuto pubblicamente ha sempre inveito contro lo stesso specie le volte in cui venivano ricordate le motivazioni della sentenza di condanna per concorso esterno nei confronti di Marcello Dell’Utri (a lungo braccio destro di Berlusconi e fondatore di Forza Italia) laddove viene messo nero su bianco che per diciotto anni dal '74 al '92, l'ex senatore è stato il garante dell’accordo tra l’allora imprenditore Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari. Anche Renzi, lo scorso settembre era intervenuto a difesa della lesa maestà del "povero Silvio".

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Il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo


Così come allora davano fastidio quelle parole evidentemente a dare fastidio oggi è proprio quel vento nuovo che si respira all'interno dell'organo di autogoverno della magistratura. Lo stesso Di Matteo, durante la campagna che aveva preceduto la sua elezione al Csm, aveva evidenziato proprio l'importanza delle "pratiche a tutela". Un primo segnale vi era stato già la scorsa estate quando la Prima Commissione del Csm aveva aperto la pratica a tutela del gip di Agrigento Alessandra Vella, oggetto di critiche da parte dell'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini dopo la sua decisione di scarcerare la capitana della Sea WatchCarola Rackete, ma in passato si è spesso assistito ad una certa inerzia di fronte ai ripetuti attacchi, alle aggressioni che la politica, ed altri poteri, hanno sempre diretto contro la magistratura ogni qual volta vi siano state inchieste, processi e sentenze poco gradite. Delle vere e proprie campagne di delegittimazione che nel corso della storia si sono ripetute già ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (se non prima) che furono osteggiati anche dagli stessi organi della magistratura con clamorose bocciature (ad esempio l bocciatura di Falcone e la nomina di Antonino Meli a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo), l'apertura di provvedimenti disciplinari (come accadde a Borsellino quando intervenne con forza quando vi fu la distruzione del pool antimafia) ed affini. Il Csm rimase immobile quando politici, intellettuali ed opinionisti si scagliarono contro la Procura di Palermo e quei magistrati che indagavano sulla trattativa Stato-mafia nella vicenda che portò al conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato (Giorgio Napolitano) e la distruzione delle telefonate avute con l'ex ministro, al tempo indagato, Nicola Mancino, quando già gli stessi magistrati avevano definito quei dialoghi privi di rilevanza penale. Prima ancora l'immobilismo si era manifestato di fronte agli attacchi subiti da Clementina Forleo, Luigi De Magistris, per citare i casi più clamorosi.
Ma la storia si ripete ancora oggi e "politicamente parlando" non stupisce la dialettica simile approntata dai due membri di partiti come "Italia Viva" e "Forza Italia". Non è un segreto che Renzi, forse memore del "Patto del Nazareno", strizzi l'occhio a Silvio Berlusconi in vista del futuro. Ieri il "povero Silvio". Oggi i Renzi, i Salvini, i Mulé, vanno oltre il diritto di critica e di opinione. Tante facce della stessa "Italia" che, seppur in forma diversa, vorrebbe imporre limiti a quella magistratura coraggiosa che non ha timore di contrastare le degenerazioni del potere.

P.S. All'onorevole Mulé un consiglio tra i denti le vorremmo comunque dare. Prima di intervnire su temi di giustizia e di diritti, anche a sua difesa, farebbe meglio a dimttersi dal partito Forza Italia, di cui è portavoce unico dei gruppi di Camera e Senato, riconoscere che lo stesso è stato fondato da un uomo condannato per mafia, dissociarsi, aderire al gruppo Misto e solo a quel punto commentare in piena facoltà. Altrimenti è molto meglio scegliere un'altra via, quella del silenzio.

Foto © Imagoeconomica

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