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Lodato: "In via d'Amelio non fu solo mafia. La prova nella scomparsa dell'agenda rossa"

di Giorgio Bongiovanni

Cinquantasette giorni. Tanti sono quelli che separano la strage di Capaci da quella di via d'Amelio. Eccidi in cui a perdere la vita sono i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e gli agenti delle due scorte, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ieri sera Andrea Purgatori, conduttore del programma "Atlantide", con uno speciale in prima serata su La7 è tornato a rioccuparsi, dopo la puntata dedicata alla commemorazione del 23 maggio “Capaci: le verità nascoste", di quella tragica stagione stragista. Ancora una volta il focus della trasmissione si è centrato sui grandi buchi neri, analizzando quegli elementi di prova emersi nel corso di indagini e processi, ma concentrandosi soprattutto sui fatti che hanno riguardato Paolo Borsellino ed il depistaggio che è stato messo in atto sin dal primo momento delle indagini.
Nella sua video-inchiesta, "Paolo Borsellino, depistaggio di Stato", per riannodare i fili del tempo e cercare di comprendere cosa si nasconde dietro ai fatti che si sono verificati tra il 1992 ed il 1994, Purgatori si è avvalso dei contributi inediti del Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, dei giornalisti Saverio Lodato e Attilio Bolzoni, del Questore di Palermo Renato Cortese e della figlia del giudice, Fiammetta Borsellino. Purtroppo nell'ottimo programma, ricco di ricostruzioni ed analisi, le uniche note stonate sono state rappresentate dagli interventi di Fiammetta Borsellino laddove, fermo restando il legittimo diritto ad esprimere il proprio dolore e la propria rabbia per i buchi neri ed i pezzi mancanti di verità sulla strage di via d'Amelio, continua a riversare rabbia e dolore accusando erroneamente una persona: il magistrato Nino Di Matteo. Più volte abbiamo spiegato come il pm non ha nulla a che vedere con il depistaggio e torneremo a parlarne più avanti in questo stesso articolo.
Ad arricchire ulteriormente il programma anche tante immagini di repertorio, anche audio originali con le dichiarazioni dello stesso Paolo Borsellino e segmenti di interviste a Nino Di Matteo, Salvatore Borsellino, Antonino Vullo, Antonio Ingroia, Gaspare Mutolo e Massimo Ciancimino.

La scorta ad Ultimo
L'anteprima è stata dedicata alla notizia della scorta tolta al colonnello Sergio De Caprio, anche noto come Capitano Ultimo. Può ritenersi un fatto grave la motivazione con cui è stata presa una tale decisione laddove si nega la pericolosità di Cosa nostra affermando che oggi, tutto sommato, i corleonesi non sono più un'organizzazione violenta.
Eppure noi non dimentichiamo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia sulla condanna a morte emessa nei suoi confronti da Cosa nostra. Così come non dimentichiamo anche le tante domande inevase sull'operato dello stesso Ultimo in vicende delicate come la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Va subito detto che per questa vicenda dai contorni oscuri sia De Caprio che il generale Mario Mori sono stati assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato Cosa nostra perché il fatto non costituisce reato ma certi aspetti non possono passare in secondo piano e ne abbiamo ampiamente discusso in più occasioni.
Chiusa l'anteprima la puntata è entrata subito nel vivo. Perché Paolo Borsellino muore appena 57 giorni dopo Giovanni Falcone? Perché Cosa nostra agisce con quella fretta? Perché viene ucciso Paolo Borsellino?
Sono queste le prime domande poste da Purgatori.
"La strage di Capaci il segnale che si era rotto un equilibrio. E nessuno poteva immaginare che 57 giorni dopo ci sarebbe stata la strage di via d'Amelio - ha ricordato immediatamente il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato - C'è una grandissima anomalia nell'esecuzione di questa strage. Che è l'improvvisa accelerazione, assolutamente irrazionale se si guarda gli interessi di Cosa nostra. Riina, quando lo comunica ad alcuni capi di Cosa nostra come Raffaele Ganci, Cangemi ed altri, questi restano assolutamente sorpresi e non riescono a capirlo. E Riina si rifiuta di spiegare quali sono le ragioni. Taglia corto e dice: 'mi assumo la responsabilità'. Raffaele Ganci quando esce dalla riunione dice, 'questo è pazzo ci vuole rovinare tutti'. E Cancemi dirà di aver capito a quel punto che 'Riina doveva rispondere a qualche altro. E quella strage doveva essere eseguita per motivi che andavano al di là di Cosa nostra". Non solo. Il magistrato ha anche evidenziato il fatto che lo stesso "Capo dei capi" corleonese, intercettato all'interno del carcere Opera di Milano mentre parlava con il suo interlocutore, Alberto Lorusso, "conferma che, mentre la strage di Capaci era stata studiata per mesi, quella di via d'Amelio era stata fatta all'improvviso e studiata alla giornata. Afferma Riina: 'venne quello. Dice subito, subito. Dico dammi tempo' e quindi è stata eseguita immediatamente. Evidentemente c'era qualcosa che Paolo Borsellino poteva fare in quella manciata di giorni che certamente non poteva colpire Cosa nostra ma altri che avevano chiesto a Riina di anticipare quella strage".
La testimonianza audio-visiva del 19 luglio 1992 è stata particolarmente impattante, con immagini, suoni e voci, tra palazzi sventrati, fumo, sirene e gli interventi radio delle forze di polizia intervenute sul luogo.
La fitta rete di flash back, in avanti ed indietro nel tempo, hanno portato i vari relatori anche a raccontare il loro 19 luglio. "La cosa che mi colpì è che ebbi la sensazione che fosse quasi un set cinematografico, dove improvvisamente le comparse avevano invaso il set - ha detto il nostro editorialista Saverio Lodato - E in mezzo al luogo della strage, dal punto di vista del campionario umano, c'era di tutto. C'era gente con i pantaloncini corti, poliziotti, carabinieri vigili urbani, passanti, gente con i sacchi della spesa. Era una situazione, potremmo dire all'opposto di quella che dovrebbe essere.
Era la scena del crimine più surreale che abbia mai visto. Ed è lì, in quel circo, che maturerà poi la scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino".
In quell'atto, con quella sparizione a pochi minuti dalla strage, viene compiuto uno dei primi atti, se non il primo, di quello che la sentenza del Borsellino quater definisce come il "più grande depistaggio della storia".
Saverio Lodato ha dialogato con Purgatori nell'atrio di Casa Professa, il luogo dove Paolo Borsellino tenne il suo ultimo discorso pubblico il 25 giugno 1992. Il ricordo di Lodato, rispetto a quella sera, è particolarmente nitido: "Quella fu una serata drammatica. Paolo Borsellino era lì e di fronte a tremila persone che gremivano il cortile. Tra le prime cose che disse fu: 'Io sono un magistrato ma sono un testimone, io so'. Era un Paolo Borsellino, potremmo dire, con la consapevolezza che ormai il tempo gli sfuggiva sotto i piedi. Lui aveva capito alcune cose. In quell'intervento, in più di un'occasione dice: 'potrei dire delle cose ma non voglio dirle perché, come Giovanni Falcone, io sono un magistrato e ritengo che per prima cosa bisogna parlare alla magistratura". Sia Lodato che Scarpinato, che la figlia del giudice Borsellino hanno ricordato che, diversamente da quella che sarebbe dovuta essere la logica, non fu mai chiamato a testimoniare dalla competente procura di Caltanissetta, che indagava al tempo sulla strage di Capaci.

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Ma il "discorso" di Casa Professa è passato alla storia anche per l'accusa che Borsellino fece contro i Giuda al Csm che, di fatto, tradiranno Falcone, isolandolo e condannandolo a morte già nel 1988. "Bisogna riascoltare quelle parole che dice quella sera qui a casa Professa - ha proseguito Lodato - Paolo Borsellino sul Csm disse cose durissime. Fecero la scelta risibile di mettere Antonino Meli al posto di Giovanni Falcone quando sapevano benissimo che Meli non aveva nessuna competenza in materia di lotta alla mafia. In quella sera io ebbi la sensazione che lui fosse particolarmente colpito dal grado di conoscenze che aveva raggiunto in quei pochi giorni. E curiosamente in questi 57 giorni nessuna autorità giudiziaria ascoltò mai Paolo Borsellino".

Le indagini di Borsellino
Ma su cosa stava lavorando Borsellino al tempo?
"Borsellino dopo la strage di Capaci non ha mai smesso di indagare sulle causali di quella strage - ha ricordato il Procuratore generale Scarpinato - Nel corso di quei 57 giorni raccolse una serie di informazioni importantissime che annotava nella sua agenda rossa. Che gli derivavano dalle confidenze e dalle informazioni che alcuni collaboratori di giustizia gli davano. Per Esempio Gaspare Mutolo, il quale non si sentiva ancora di mettere a verbale e dichiarare quel che sapeva sui rapporti tra la mafia ed i servizi segreti. O Leonardo Messina, il quale fu sentito da Paolo Borsellino e che era a conoscenza del fatto che nel 1991, nelle campagne di Enna, tutti i capi regionali di Cosa nostra si erano riuniti e nel corso di una lunga discussione avevano dibattuto di un piano di destabilizzazione politica che era stato suggerito da menti esterne. E ancora Paolo Borsellino era venuto a conoscenza che altissimi vertici delle forze di polizia erano collusi con la mafia. E aveva saputo che un amico lo aveva tradito, come rivelò ad alcuni colleghi senza fare il nome di questa persona. Insomma Paolo Borsellino nel corso di quei 57 giorni capisce che dietro la strage di Capaci c'è qualcosa che va al di là della mafia e che vede come un pericolo".
Pian piano i fili sono stati riannodati attraversando i ricordi del tempo ma anche i misteri del passato. Perché su tanti fatti di mafia, e non solo, drammaticamente non vi è ancora una verità completa. E' il caso, ad esempio, della morte del Presidente della Regione Piersanti Mattarella. Attilio Bolzoni, giornalista di "La Repubblica", in uno degli spazi a lui dedicati ha ricordato proprio il delitto del 6 gennaio 1980. "Quella mattina io ho visto l'attuale Capo dello Stato che teneva in mano sospeso il corpo di suo fratello, che non era ancora morto e respirava ancora. E' arrivata Letizia Battaglia, la fotografa, con Franco Zecchin che l'hanno fotografato. Io non avevo ancora 25 anni. Da quell'Epifania non sappiamo ancora chi sono i killer. Falcone aveva un'idea. Si era convinto che il killer non fosse di mafia ma un nero romano. Giusva Fioravanti. Questa convinzione l'ha sempre avuta anche se non è riuscita a dimostrarla. Questa convinzione gli tornò ancora nei giorni dell'Addaura. Non so perché, ma so che è andata così".
Il riferimento è al fallito attentato del giugno 1989. E' in quell'occasione che il giudice Falcone, in una celebre intervista a Lodato, parlerà delle 'menti raffinatissime' dietro l'attentato. E, probabilmente, anche Paolo Borsellino aveva compreso l'esistenza di certi soggetti. "Lui aveva capito qualcosa che prima della morte di Falcone non aveva capito - ha detto nuovamente Lodato, rispondendo a Purgatori - Quelle famose entità esterne di cui per esempio già Giovanni Falcone, nel 1989, mi aveva parlato all'indomani dell'attentato all'Addaura. Menti raffinatissime che, a suo giudizio, tiravano le fila della mafia. Paolo Borsellino si trova solo. Così come si era trovato solo Giovanni Falcone prima di Capaci".
Lodato ha quindi ricordato la campagna di isolamento che inizio negli anni successivi al Maxi processo: "Dal'1987 in avanti, dopo l'articolo di Leonardo Sciascia contro i professionisti dell'antimafia sul Corriere della Sera, che tira in ballo Paolo Borsellino come magistrato e Leoluca Orlando come uomo politico e sindaco di Palermo, da quel momento in avanti noi avremo un isolamento che crescerà a dismisura. Lo chiamai il primo o il due luglio sul cellulare e lo trovai furibondo perché durante la presentazione di un libro a Roma il ministro Scotti aveva annunciato pubblicamente la decisione di mettere Paolo borsellino a capo della Super Procura Antimafia. L'idea della Super Procura era venuta a Giovanni Falcone nell'anno e mezzo in cui si trasferisce a Roma a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia. Paolo mi disse: 'Io non ho fatto domanda per la Super Procura perché sono contrario e poi non l'ho fatta per rispetto di Giovanni Falcone perché so che Giovanni Falcone a quel posto ci teneva. Ma mai mi sarei sognato che un ministro, che sapeva che io ero contrario alla Super Procura, spiattellasse pubblicamente il mio nome quando già il Csm ha deciso che a dirigere la Super procura ci vada il magistrato Agostino Cordova. Questo cosa significa nella testa di Borsellino? Che la sezione dello Stato nella migliore delle ipotesi era impronta alla 'vanbenaggine'. Borsellino non accettava e non digeriva questo pressappochismo". "Poi lo chiamai il 16 luglio l'ultima volta - ha ancora ricordato Lodato -Tre giorni prima della strage. E lo ritrovai non solo cupo, ma sbrigativo e direi anche quasi un attimo freddo. E mi disse 'mi lasci stare. Risentiamoci a settembre'. Poi scoprii che in quei giorni lui aveva saputo che a Palermo era arrivato l'esplosivo per lui. Cosa che ovviamente per telefono non mi disse". Ed è proprio così che andranno le cose. Borsellino non aveva saputo solo dell'arrivo dell'esplosivo ma anche che il proprio Procuratore Capo, Pietro Giammanco, gli aveva tenuta nascosta l'informativa in cui si faceva riferimento a quel dato. Contro Giammanco punta oggi il dito Fiammetta Borsellino, che lamenta anche il fatto che nessuno chiamò l'allora procuratore capo a testimoniare. E contro Giammanco puntarono il dito nove magistrati di Palermo dopo la strage del 19 luglio 1992 minacciando le dimissioni se non fosse stato rimosso. "Quando mi recai sul luogo della strage - ha raccontato Scarpinato - mi avvicinai al tronco del cadavere di Paolo Borsellino. E mi fecero vedere il viso che stranamente aveva un sorriso. E in quel preciso momento mi tornò quella frase che disse indicando i feretri di Falcone ("Questo è il futuro che ci attende. Io devo restare voi siete ragazzi avete il diritto di andar via"). Subito dopo venni nell'ufficio della Procura della Repubblica e scrissi un documento che poi fu sottoscritto da altri otto sostituti procuratori. E con quel documento dicevamo che i componenti del pool antimafia avrebbero dato le dimissioni se non fosse stato rimosso il capo della Procura della Repubblica che era stato colui che, sostanzialmente, aveva costretto Falcone ad andar via da Palermo e che poi aveva ostacolato Paolo Borsellino nel fare delle indagini".

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Il depistante depistaggio
Il depistaggio è il tema centrale della puntata e per sapere la verità su quell'eccidio bisogna anche comprendere come sia stato possibile che un balordo come Vincenzo Scarantino sia stato indotto a mentire fornendo sì elementi falsi ma anche elementi veri che verranno ugualmente riferiti dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Un ruolo, come è stato ricordato a più riprese nel corso della trasmissione anche da Fiammetta Borsellino, lo hanno sicuramente recitato i cosiddetti Servizi di sicurezza che furono coinvolti in maniera anomala e al di fuori da quelli che erano i dettami di legge. Ma come abbiamo scritto altre volte, senza nulla togliere alla legittima pretesa di verità dei familiari delle vittime di mafia, non si deve commettere l'errore di mescolare carte, fatti ed episodi avvenuti, senza adoperare i dovuti ed opportuni distinguo. Ed è in questo errore che ogni volta inciampa Fiammetta Borsellino nel momento che inserisce, più o meno, il magistrato Nino Di Matteo all'interno del depistaggio.
Mentre altri magistrati vengono “salvati” da lettere inviate alla Procura e nascoste nel cassetto dal Procuratore capo Tinebra, mentre nel luglio 1994, a due anni dal delitto, "celebravano" in una conferenza stampa proprio il pentimento di Scarantino ed il contributo dato all'autorità giudiziaria.
Un gioco di "pesi e misure", di insinuazioni e rappresentazioni fallaci che rischiano di confondere pesantemente laddove vi sono sentenze che in questi anni hanno avvicinato sempre di più il disvelamento delle verità.
Laddove si insiste sul tema dell'indagine mafia-appalti come il motivo per cui vi sarebbe stata l'accelerazione della strage ha risposto il Procuratore generale Scarpinato: "Non c'entra assolutamente il dossier mafia-appalti perché quello che è accaduto va molto al di là della storia di appalti regionali. Perché Paolo Borsellino era perfettamente al corrente del fatto che l'inchiesta mafia-appalti era stata temporaneamente archiviata e si aspettava, per riaprirla, l'intervento di altri collaboratori di giustizia. Come poi è avvenuto. E anche perché in quella manciata di giorni Paolo Borsellino non poteva fare niente che riguardava mafia-appalti. Invece, quello che poteva fare era altro. Era programmato che al ritorno da una trasferta in Germania sarebbe andato a Caltanissetta dove, finalmente, avrebbe potuto dire tutto quello che aveva appuntato nella sua agenda rossa. Non solo. Doveva tornare a sentire Mutolo e Messina, che solo di lui si fidavano e che avevano anticipato che, finalmente, avrebbero messo a verbale quelle dichiarazioni esclusive sui rapporti mafia-servizi segreti. Dichiarazioni che prima non si erano sentiti di dire".
Nella puntata si è tornati alla ricostruzione di quei 57 giorni che separano le due grandi stragi del 1992. Sono anche stati ricordati i contatti di ufficiali dell'arma con don Vito Ciancimino, il sindaco mafioso di Palermo. Di quei contatti informali Liliana Ferraro, nel mese di giugno, aveva parlato proprio con Borsellino che disse "Ci penso io". E' questo uno dei passaggi ricostruiti con il processo trattativa Stato-mafia, andato a sentenza nell'aprile 2018 che oggi vede in corso il processo di secondo grado. Secondo le motivazioni della sentenza di primo grado proprio la trattativa avrebbe portato all'accelerazione della strage di Borsellino.
"Che c'è un dialogo aperto, la Trattativa è la ragione per cui diventa importante l'agenda rossa e la sua scomparsa - ha ancor detto Lodato - Perché se la strage di via d'Amelio fosse una strage squisitamente ed esclusivamente di mafia l'agenda rossa, con ogni probabilità, sarebbe stata ritrovata. Perché c'è un depistaggio sulle indagini? Perché bisogna depistare sulla strage. Perché la strage non è pulita. Cioè non è una strage esclusivamente di mafia. Mentre la si venderà come strage di mafia". Ed è in questo che si arriva alla seconda parte del depistaggio, con l'arresto di Scarantino. "Il Paese è in ginocchio - ha continuato il nostro editorialista - Nel mondo intero si stanno chiedendo cosa succede. Non in Sicilia, ma in Italia. Scarantino viene arrestato nel settembre del 1992 perché bisogna dare in pasto all'opinione pubblica un colpevole e la dimostrazione che le indagini non stanno ciurlando nel manico. Abbiamo l'esecutore della strage di via d'Amelio e lì si spende il suo buon nome Arnaldo La Barbera. Saranno i processi anni ed anni dopo, che cominceranno a svelare che in realtà Scarantino era stato inventato a tavolino e che non aveva avuto alcun ruolo nel furto della macchina. Tanto è vero che li sette mafiosi che erano stati condannati per le stragi vengono poi prosciolti e liberati con tanto scuse perché a quella strage non avevano partecipato".
Durante la puntata la ricostruzione storica di quegli anni è passata anche per i ricordi del Questore di Palermo Renato Cortese, che ha raccontato gli arresti di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca, ma anche dalle parole di Antonio Ingroia, Gaspare Mutolo e ancora Massimo Ciancimino.

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Tra i pezzi del puzzle, purtroppo anche qualcuno mancante. Perché non è stata solo l'agenda rossa, divenuta simbolo di una verità negata, a sparire. "Un altro fatto importante è stata anche la sparizione dei documenti dall'abitazione di Riina - ha affermato Scarpinato ricordando i fatti - La Procura di Palermo stava per fare la perquisizione quando questa fu impedita. Sparirono tutti i documenti in quella casa che fu abitata da Riina: fotografie, appunti. Basti pensare che addosso a Riina furono trovati dei bigliettini che poi portarono ad importantissime indagini". Altre fonti di prova, secondo il Pg, vennero a mancare con la morte di Luigi Ilardo. "Era un capo mafia di Caltanissetta - ha ricordato Scarpinato - che operava da infiltrato delle forze di polizia facendo arrestare importanti capomafia. E che portò anche i carabinieri ad un incontro con Provenzano. Ilardo aveva deciso di collaborare con i magistrati ed aveva anticipato che avrebbe rivelato anche le causali politiche che c'erano dietro le stragi di Capaci e via d'Amelio. Pochi giorni prima che iniziasse a collaborare fu ucciso. Quindi queste indagini sono state depositate. Probabilmente avrebbe potuto dare un nome anche a queste entità che c'erano dietro le stragi".
Ma chi conserva ancora oggi segreti ed indicibili verità? Di Matteo, nel suo intervento nella puntata di maggio, disse chiaramente che "Messina Denaro è a conoscenza di segreti legati a quelle stragi. E quelle sono stragi assolutamente anomale in cui Cosa nostra sembra in qualche modo eterodiretta. Un boss di quella caratura, in possesso ancora delle sue piene facoltà mentali, che conosce quei segreti è potenzialmente in grado di ricattare parte dello Stato". E di quello stesso avviso è oggi Roberto Scarpinato, secondo cui non è possibile scindere la latitanza proprio dalla conoscenza di certi segreti: "I Graviano, assieme a Matteo Messina Denaro, facevano parte di quello che Riina chiamava la 'Super cosa'. Altri la chiamavano 'la camera di carità'. Cioè un gruppo ristrettissimo che era composto da personaggi che venivano messi a conoscenza di segreti che invece erano ignorati da altri capi di Cosa nostra. I Graviano e Messina Denaro, assieme a pochissimi altri, sono a conoscenza delle causali complesse che stanno dietro lo stragismo del 1992-1993. Causali che invece sono ignote ad altri capi di cosa nostra, ai quali furono comunicate solo le casuali interne di cosa nostra: il desiderio di vendicarsi di Falcone e Borsellino e punire i politici che non hanno mantenuto le promesse di far annullare il maxi processo". Infatti, nella famosa riunione degli 'auguri', del dicembre 1991, "quando Riina comunicò agli altri che sarebbe iniziata la stagione della vendetta si limitò a dire che era motivata dall'esigenza di punire Falcone e Borsellino e di punire i traditori. Ma non parlò affatto delle riunioni che c'erano state nelle campagne di Enna, dove si era discusso del progetto di destabilizzazione politica. E non spiegò neanche perché aveva cambiato programma". "Falcone - ha ricordato il magistrato Scarpinato - doveva essere ucciso a Roma da un gruppo di killer capeggiato da Matteo Messina Denaro; e Falcone a Roma camminava spesso senza scorta. Sarebbe stato un gioco da ragazzi invece che farlo in modo eclatante, con una tecnica estremamente complessa e con un elevato rischio di insuccesso. E ancora non spiega perché decide di anticipare l'esecuzione della strage di Borsellino. E ci sono molte cose che collaboratori di giustizia non sanno. E che sanno personaggi come Graviano e fa riflettere che costoro tacciono. Evidentemente, se tacciono, l'ipotesi è che i segreti di cui loro sono depositari sono segreti che loro ritengono di non potere ancora rivelare. Perché ci sono centri di potere e soggettività tali di fronte alle quali loro ritengono di essere indifesi anche di fronte allo Stato".

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Ed il problema, forse, è proprio in questo aspetto. Perché, come ha concluso Scarpinato, "in questo Paese, dall'inizio della Repubblica, c'è stata una componente della classe dirigente che ha condotto la lotta politica, che sostanzialmente è la lotta per la distribuzione delle risorse, non soltanto con metodi legali ma anche con metodi illegali. Facendo ricorso alle stragi, alla violenza e truccando le carte. In questo, che Giovanni Falcone chiamava 'gioco grande del potere', vi sono state organizzazioni come Cosa nostra, 'Ndrangheta e Banda della Magliana ed altri, che sono stati strumenti di potere. Come diceva Honoré de Balzac ci sono due storie: quella ufficiale, menzognera, e quella segreta che invece è vergognosa. E credo che questa parte segreta della storia i magistrati hanno cercato di farla venire fuori ma, a causa dei depistaggi che hanno contrassegnato tutta la storia italiana, questa verità non è emersa. E chi sa oggi la verità continua ad avere paura di qualcosa che va al di là di quello che noi possiamo comprendere".



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Menti Raffinatissime


Ecco la trasmissione dell'ingiusta accusa
a Di Matteo


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