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di Giorgio Bongiovanni
Desecretati i verbali del pentito Contorno in Commissione Antimafia

Da ieri, sul sito del Parlamento, grazie alla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra, che si è avvalso della preziosa collaborazione di Roberto Tartaglia in qualità di consulente, sono stati resi pubblici gli atti relativi al cosiddetto "Caso Contorno". Tra i documenti inediti vi è l'audizione del pentito, svolta dalla commissione Antimafia della X legislatura (presidente Gerardo Chiaramonte), il 9 agosto 1989. L'ex affiliato mafioso della famiglia palermitana di Brancaccio, che nel 1984 decise di seguire l'esempio di Tommaso Buscetta e iniziò quella che la commissione definisce "una fondamentale collaborazione con l'Autorità giudiziaria", fu convocato perché si volevano approfondire i motivi del suo ritorno in Sicilia dagli Stati Uniti, in un tempo in cui a Palermo si verificarono molteplici omicidi.
Ma leggendo quei documenti, opportunamente riportati alla luce, ad emergere chiaramente è il tentativo dei membri della Commissione dell'epoca, di colpire, scovando eventuali incertezze e passi falsi di Contorno, Giovanni Falcone ed i suoi più stretti collaboratori. Un clima di sospetti, ombre e diffidenza che in quell'estate si era già manifestata in tutta la sua gravità e che aveva portato ad un ulteriore isolamento dello stesso magistrato palermitano.
Dal fallito attentato all'Addaura (dove vi fu anche chi insinuò che Falcone si era messo "da solo" cinquantotto candelotti di dinamite sulla scogliera ai piedi della villa in cui abitava) alle infamanti lettere del "Corvo" (in cui si parlava di Contorno come un killer di Stato "inviato" in Sicilia proprio da Falcone e De Gennaro per stanare i corleonesi), l'opera di delegittimazione era divenuta una costante che si affiancava ai tradimenti subiti sul fronte della magistratura (con la bocciatura di Falcone e la nomina di Antonino Meli a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo).
Alla luce di quel che sappiamo oggi, a trent'anni di distanza, appare ancor più grave quel che avvenne al tempo.
Falcone, parlando dell'attentato subito all'Addaura con il giornalista Saverio Lodato, in una nota intervista pubblicata su l'Unità, aveva commentato: "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. Eppure quella Commissione antimafia non indagò su questi aspetti preferendo "puntare il dito", in maniera subdola e meschina, contro il giudice che verrà poi ucciso il 23 maggio 1992.
Le striscianti insinuazioni sono lì, nero su bianco, nelle trascrizioni delle udienze.
Possiamo leggere le "curiosità" dell'allora deputato del Pci Luciano Violante, insoddisfatto delle risposte che dava Contorno, o quella di Gianni Lanzinger e Franco Corleone. Tutti, con insistenza, chiedono al pentito se si fosse incontrato con Falcone nei giorni in cui si trovava in Italia o se fosse stato interrogato dallo stesso.
Domande che vengono rivolte anche a Gianni De Gennaro, al tempo Vicequestore e Capo del nucleo anticrimine della Criminalpol. "Lei aveva parlato col giudice del ritorno di Contorno?", chiedeva allora il deputato socialista Salvo Andò. E il poliziotto chiariva che non vi erano misteri su quel ritorno dagli Stati Uniti ("Falcone lo ha anche interrogato il pentito, nel mio ufficio"). E successivamente era sempre Violante ad insistere: "Bisogna capire se Contorno è stato in quel periodo fonte informativa consapevole, se è stato lì per acquisire notizie e passarle a qualcuno. È accaduto questo?". E De Gennaro rispondeva a sua volta con fermezza: "Ho già risposto di no per quanto riguarda il mio ufficio. Anche teoricamente ne ho spiegato la ragione. Posso dire che per quanto mi riguarda non ho avuto informazioni, tranne quelle di ordine generico".
All'interno di questo quadro si inseriscono anche altri elementi.
Perché, proprio alla luce dei fatti emersi nel corso del tempo, vi è un altro aspetto inquietante, ovvero che molti di quei collaboratori, apparentemente "eroici", vicini a Falcone, col tempo si dimostreranno quantomeno ambigui.
Il riferimento è ad Arnaldo La Barbera, allora Capo della Squadra Mobile che arrestò Gaetano Grado e Contorno, che proprio in quegli anni risulterà essere anche al soldo dei Servizi segreti con il nome di copertura “Rutilius”. Un personaggio che, secondo quanto emerso finora da indagini e processi, ha avuto anche un ruolo da protagonista nel depistaggio sulla strage di via d'Amelio. Poi ancora c'è stato Domenico Sica, che nell’agosto del 1988 era stato nominato Alto Commissario per la Lotta al Crimine Organizzato scavalcando proprio la candidatura di Giovanni Falcone.
Fu uno dei protagonisti della vicenda del "Corvo" di Palermo: il giudice Alberto Di Pisa, oggi procuratore a Marsala, fu condannato nel 1992 in primo grado perché l'impronta digitale lasciata su uno dei messaggi di accuse anonimi inviati a Falcone, Ayala, al procuratore Giammanco, al capo della polizia Vincenzo Parisi e al questore De Gennaro fu riscontrata con un'impronta raccolta proprio da Sica. Nel processo di appello l'impronta fu dichiarata inutilizzabile e Di Pisa venne assolto.
Nel 1989 si paventò la possibilità che il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti volesse collaborare con la giustizia. Anziché Falcone a partire per gli States, fu proprio Sica. La successiva e clamorosa fuga di notizie sul possibile pentimento, bruciò sul nascere qualunque possibilità e don Tano tornò a trincerarsi nel silenzio.
Ma la "caduta" di certe figure riguarda anche lo stesso De Gennaro che è divenuto ambiguo e smemorato quando si è trattato di ricordare certi fatti avvenuti tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta. Basta rileggere atti e testimonianze nei processi dell'amico Pino Arlacchi, consulente della Dia all'epoca delle stragi del '92 e 93.
Quest'ultimo aveva raccontato ai magistrati che dopo le stragi 1993 "si consolidò presso i vertici della Dia l'idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto - e cioè il gruppo Contrada - fosse uno dei terminali della trattativa”. Ma anche che “il dottor De Gennaro, già all'epoca, mi parlava di contatti 'ambigui' tra appartenenti a Cosa nostra e Marcello Dell'Utri, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia ed il mondo dell'economia e della politica”, cioè quel nuovo assetto di potere che, con Silvio Berlusconi e il suo braccio destro, ha governato l'Italia per un ventennio.
De Gennaro ha sempre smentito le circostanze in cui veniva coinvolto dal sociologo e proprio per questo motivo più volte ci siamo chiesti chi, tra Arlacchi e De Gennaro, sia il bugiardo.
Certo è che De Gennaro, nel corso del tempo, ha avuto una folgorante carriera che ha attraversato proprio quei governi che avevano come protagonisti Silvio Berlusconi (oggi ancora indagato come mandante esterno delle stragi del 1993) e Marcello Dell'Utri, (anch'egli indagato a Firenze e già condannato a 7 anni in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa).
La domanda, dunque, che ci resta è semplice: che ruolo hanno giocato già nel lontano 1989, questi personaggi?
Nel suo ultimo discorso pubblico Paolo Borsellino aveva ricordato isolamenti, delegittimazioni e tradimenti subiti dall'amico fraterno. E il sospetto che vi furono più "Giuda", a ventisette anni di distanza dalle stragi, è sempre più forte.

Foto originale © Shobha