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Trentasette anni dopo ricordiamo un vero Padre della Patria
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari - Video

“Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio… L’indomani gli ho detto: 'Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto "Scarpuzzedda", uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi'. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noi altri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa… ta… ta..., ta… ed è morto”. E' il 4 settembre 2013 quando la Dia, nel carcere Opera di Milano, registra le parole del Capo dei Capi, Salvatore Riina, mentre parla con il suo compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso. La sua è una descrizione macabra e violenta dell'attentato del 3 settembre 1982 quando, in via Carini a Palermo, vennero uccisi a colpi di kalashnikov, da un commando di Cosa Nostra, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Un omicidio di mafia, come accertato nelle sentenze che hanno condannato in via definitiva i killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e i mandanti interni a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci) ma che presentano anche quei contorni, tra pezzi mancanti e misteri, propri delle grandi stragi di Stato.
Dalla Chiesa, alto ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, fu prefetto a Palermo per appena 100 giorni. Al più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, poco prima di partire per la Sicilia, disse: "Non avrò riguardo per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori". Lo ha raccontato chiaramente il figlio, Nando dalla Chiesa, nel libro "Delitto Imperfetto". "Mio padre disse a noi dopo quel colloquio: 'Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia'". Parole che furono testimoniate anche nel processo. Nando dalla Chiesa accusava quantomeno di complicità morali gli appartenenti alla corrente andreottiana della Democrazia cristiana.
Del resto il prefetto dalla Chiesa aveva chiesto poteri speciali per combattere la mafia così come aveva combattuto il terrorismo. Gli furono promessi dal ministro Rognoni ma concretamente non gli furono mai dati.
Anche le altre figlie del generale dalla Chiesa, Rita e Simona, sono più volte intervenute negli anni per chiedere verità giustizia. Qualche anno fa Simona ha ricordato un fatto semplice: "La mafia in quel momento non aveva convenienza nell’uccidere mio padre. Non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente. E non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche proprio perché non è quello il compito del Prefetto. E la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica. Dunque perché si doveva uccidere?”.
E' proprio questa una delle domande rimaste fin qui inevase. Del resto sono diversi i punti oscuri da chiarire come ad esempio la scomparsa dei documenti dalla cassaforte e dalla valigetta del generale. E' sempre Totò Riina ad aver confermato di recente: “Gli hanno portato via tutto”.



Chi ha voluto, dunque, la morte del Generale dalla Chiesa, vero padre della Patria?
Quel che appare evidente a 37 anni di distanza è che a volere ed a beneficiare della sua morte non è stata solo Cosa nostra così come, certamente, non furono uomini di Cosa nostra ad entrare nell'abitazione del Prefetto a Villa Pajno nel corso della notte fra il 3 e il 4 settembre 1982, per svuotare la cassaforte che lì era presente.
Del resto che dietro a quel delitto non vi sia la sola mano di Cosa nostra è "testimoniato" anche dalla voce di mafiosi e collaboratori di giustizia. Sul punto vale la pena ricordare l'intercettazione ambientale dove il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia del superlatitante Bernardo Provenzano e in quel momento reggente del mandamento di Brancaccio, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiarava: "Salvatore… ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…”. “E  perché glielo dovevamo fare qua questo favore…”. Ad intercettare le parole del boss, nel 2001, erano i magistrati di Palermo coordinati dal pm Nino Di Matteo, che indagavano sull’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato alla mafia.
Anche il collaboratore di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, nel processo, aveva dichiarato che quell'eccidio non era stato determinato dalla guerra di mafia, ma era “una cosa che era restata fuori” e successivamente anche i pentiti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino fornirono ulteriori spunti. Il primo, vicino a Pino Greco Scarpuzzedda, aveva raccontato la lamentela con quest'ultimo per avere dovuto organizzare il delitto (“Stu omicidio dalla Chiesa non ci voleva... Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca”); mentre il secondo aveva parlato di convergenza di interessi esterni a Cosa Nostra. Una pista seguita a suo tempo anche dai giudici del primo maxiprocesso. Tanto che gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in merito al delitto parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Ed anche i giudici, nella sentenza di condanna dei boss mettono nero su bianco che “si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.



Siamo certi che se dalla Chiesa avesse avuto quel "Potere" di coordinamento delle indagini che gli fu promesso dai più alti vertici della politica avrebbe fatto di tutto contro la mafia ed anche contro quei pezzi di potere che con essa stringevano patti ed accordi.
Per questo motivo è stato fermato e sui mandanti esterni di quel delitto si deve tornare ad investigare.
La Procura di Palermo aveva aperto un fascicolo sui pezzi mancanti e sui documenti scomparsi dalla valigetta del generale, ritrovata nel 2013 nei sotterranei del tribunale di Palermo. Al suo interno non vi erano documenti anche se nel verbale di sopralluogo della polizia scientifica, conservato nel fascicolo giudiziario sulla strage di via Carini, viene certificato che poco dopo le 21.30 del 3 settembre 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa (già morto da una quindicina di minuti dentro la sua auto) teneva tra le gambe una borsa piena di carte.
Delle carte trafugate si parlava in una lettera anonima recapitata all'allora sostituto procuratore Antonino Di Matteo, definito protocollo fantasma (lo stesso in cui si facevano riferimenti anche sull'inchiesta Stato-mafia e sulle falle del sistema di sicurezza del giudice, ndr) in cui si leggeva: "Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo”. Inoltre si parlava di un ufficio riservato che il generale dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: “Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono e lì vi erano faldoni, appunti e messaggi”.
Quell'indagine non portò, a quanto è dato sapere, ad ulteriori sbocchi. La speranza è che prima o poi la verità su questa strage, così come su quelle del 1992 e del 1993, si torni ad accendere i riflettori senza accontentarsi di mezze verità.

LIBRI
Carlo Alberto dalla Chiesa. Un papà con gli alamari

Dalla Chiesa. Storia del generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia

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