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di Giorgio Bongiovanni
Non è generoso affermare che non è stato fatto nulla

Magistrati ancora a rischio della vita

Ventisette anni sono passati da quel 1992 di sangue e bombe. Come ogni anno, da allora, si avvicinano i giorni delle commemorazioni che inizieranno il 23 maggio, nel ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e che si concluderanno 57 giorni dopo, il 19 luglio, quando verrà il tempo della memoria di Paolo Borsellino, e gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ventisette anni di misteri, interrogativi ed inquietanti verità taciute e nascoste.
Vicende che vanno ricordate se non si vuole assistere all'ennesimo trionfo dell’ipocrisia, della sterile retorica e dei molti che fingono di commemorare i morti dopo averli mortificati da vivi. Da quando è uscito il primo numero di ANTIMAFIADuemila abbiamo sempre cercato di trovare una risposta a queste domande cercando di dare il nostro piccolo contributo nella ricerca della verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992-1993 perché, ne siamo fermamente convinti, è in quel biennio che il potere ha costruito la sua nuova immagine.
In questi ventisette anni, diversamente da quanto sostenuto anche di recente, in un articolo scritto su MicroMega, da Fiammetta Borsellino, non è vero che non si è fatto molto o che "dopo tutti questi anni, si può parlare solo di depistaggi ed errori giudiziari".
Dal 1992 ad oggi, grazie ad uno sforzo importante ed impegnativo di molti magistrati ed investigatori, con i processi che si sono celebrati sulle stragi del ’92 e ‘93, sono stati raggiunti dei risultati importanti, non affatto scontati e che sarebbe profondamente ingiusto sottovalutare. In un Paese come quello italiano, dove non mancano le stragi impunite, non è certo poca cosa la condanna definitiva di quei mandanti ed esecutori mafiosi che hanno partecipato a vario titolo a quei delitti. Ma non ci si ferma qui perché processi come quelli sulla strage di Capaci, il Borsellino ter, quelli sulle bombe in "Continente", le inchieste successive che poi hanno portato anche al processo trattativa Stato-mafia ed anche al Borsellino quater, hanno fatto emergere, nelle stragi, sempre più evidenti responsabilità di ambienti e uomini estranei a Cosa Nostra.
Sono veramente numerosi e concreti gli spunti, gli indizi ed i fatti che, messi in fila, permettono di comprendere il reale motivo per cui quelle stragi possono considerarsi a tutti gli effetti come stragi di Stato. Elementi che oggi, anche grazie al contributo della Procura nazionale antimafia che ha ufficialmente predisposto un pool di magistrati che potrà occuparsi di stragi e mandanti esterni offrendo impulsi investigativi anche alle procure competenti, potranno avere ulteriori approfondimenti per completare in maniera definitiva il percorso di ricerca della verità.


montalto sentenza trattativa aprile 2018

Il giudice Alfredo Montalto legge la sentenza del processo trattativa Stato-mafia


Ripartire dalla "trattativa" Stato-mafia
Appena due settimane fa è iniziato il processo d'Appello sulla trattativa Stato-mafia che ha visto nel primo grado le pesantissime condanne per i boss di Cosa nostra Bagarella e Cinà (non i capi Riina e Provenzano, perché deceduti) insieme ad alti funzionari di Stato, gli ufficiali del Ros (Mori, Subranni, De Donno) e i politici (Dell’Utri).
Nelle motivazioni della sentenza della Corte d'Assise, presieduta da Alfredo Montalto, si scrive nero su bianco che proprio la trattativa Stato-mafia fu il motivo che portò all'accelerazione della strage di via d'Amelio. Questo non significa che dietro la morte del giudice non vi fossero molteplici interessi ma si cristallizza un fatto scatenante che riporta a quelle dichiarazioni che diversi collaboratori di giustizia, a loro volta, hanno fatto in questi anni e che ci fanno allargare l'orizzonte.
Totò Cancemi, ex boss di Porta Nuova nonché fedelissimo di Riina, oggi deceduto, mi disse in un'intervista che “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi” e che al processo Borsellino ter (pubblica accusa Nino Di Matteo e Anna Maria Palma) accusò Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri di avere avuto contatti diretti con i vertici di Cosa Nostra.
Anche i collaboratori Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza hanno riferito dei contatti di Cosa nostra avuti con Dell'Utri. Parlando di “mandanti esterni” sempre Spatuzza ha riferito della presenza di un soggetto “non appartenente a Cosa nostra” all’interno dei locali di Villasevaglios nel giorno in cui la Fiat 126 da lui stesso rubata veniva imbottita di esplosivo.
Tra gli spunti investigativi emersi durante il processo Stato-mafia vi sono le intercettazioni in carcere del boss Giuseppe Graviano che riferisce al compagno di ora d’aria Adinolfi di come “Berlusca mi ha chiesto una cortesia”. E come dimenticare le intercettazioni tra Riina e il boss pugliese Alberto Lorusso in cui il Capo dei capi manifesta il proprio odio per i magistrati di ieri (Falcone, Borsellino, dalla Chiesa, Chinnici) e quelli di oggi (Di Matteo, “ti farei fare la fine del primo tonno”) tanto da ordinarne l’eliminazione (“Ed allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più”. In quelle conversazioni il capomafia corleonese, anche se in maniera enigmatica, parlava di "trattativa" e raccontava di aver detto ai suoi sodali che se fosse circolata all’interno di Cosa Nostra la piena verità sulla strage sarebbe stata la fine dell’organizzazione mafiosa. Chi si doveva coprire? Forse gli stessi che hanno "suggerito" di uccidere Falcone con quelle clamorose modalità lungo l'autostrada rinunciando al progetto di omicidio a Roma, con i killer che vennero fermati e richiamati a Palermo dallo stesso Riina?


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Capaci, 23 maggio 1992. Il cratere sull'autostrada provocato dall'esplosione


Quesiti che tornano
Gli interrogativi che si susseguono alla luce delle prove raccolte in questi anni sono molteplici.
Perché il telecomando che venne utilizzato per la strage di Capaci venne consegnato da Pietro Rampulla, esponente storico della destra estrema, a Giovanni Brusca che lo azionò come dice la sentenza?
Perché Pietro Rampulla che doveva partecipare materialmente all’attentato quel 23 maggio, adducendo una scusa, alla fine non fu presente?
Qual è la vera origine e il vero significato del foglietto repertato dalla scientifica sul cratere di Capaci poche ore dopo la strage, contenente annotazioni di numeri telefonici riconducibili al Sisde di Roma e al capocentro del Sisde di Palermo?
Chi sono e che ruolo hanno avuto nelle stragi le menti raffinatissime già individuate da Falcone come i veri ispiratori ed autori dell’attentato subito nel giugno dell’89 all’Addaura? Queste stesse menti hanno poi avuto un ruolo anche nel 1992? Chi ha manomesso i supporti informatici di Falcone presso il suo ufficio del Ministro di Grazia e Giustizia?
Non è un caso, forse, che tra i documenti “rieditati” vi fossero anche le sintesi delle schede di Gladio, la struttura paramilitare segreta del tipo stay behind (che vuol dire "stare dietro le linee", operare in maniera occulta), di cui oggi sappiamo che Falcone aveva appreso l'esistenza già nel 1990.
Nelle sentenze sull'attentato del 23 maggio, come anche nelle motivazioni del più recente processo Capaci bis, si parla di “ambienti esterni a Cosa nostra” che “si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti ed incoraggiandone le azioni”.
Sono quelle “tastate di polso”, raccontate dal collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, di Cosa nostra verso ambienti imprenditoriali e massonici.
Anche per Borsellino vi fu una clamorosa sottrazione di "documenti chiave" come l'agenda rossa in cui, probabilmente, erano riportati i suoi appunti sulle indagini che stava conducendo e magari anche le sue intuizioni sulla morte del giudice Giovanni Falcone (aveva dichiarato pubblicamente di essere un testimone che aveva raccolto i pensieri di Falcone) e su quel “dialogo” tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, di cui aveva accennato a sua moglie Agnese prima di essere assassinato assieme ai cinque agenti della sua scorta.
Anche in questo caso è un fatto incontestabile che non furono uomini di Cosa nostra a sottrarre l'agenda dalla borsa del giudice. Il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, sentito dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, individuò proprio in quel momento (ben due anni prima dal momento in cui lo stesso magistrato si era occupato delle indagini) l'inizio del depistaggio sulla strage.


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L'ex magistrato Giovanni Tinebra © Imagoeconomica


Oltre il depistaggio, il rischio di allontanarsi dalla verità
Negli ultimi mesi più volte il tema del depistaggio che è avvenuto nell'ambito delle indagini sulla strage di via d'Amelio è stato al centro del dibattito. Senza nulla togliere alla legittima pretesa di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime di mafia anche su questa vicenda, come abbiamo scritto in più occasioni, si rischia di commettere l'errore di mescolare le carte ed i fatti, senza adoperare i dovuti distinguo.
Che attorno alle prime indagini sulla strage di via d'Amelio e sulla gestione del falso pentito Scarantino vi siano state delle clamorose anomalie emerge sia dalle motivazioni della sentenza Borsellino quater che ascoltando le deposizioni delle udienze del processo ai poliziotti, Bo, Mattei e Ribaudo (imputati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra) e sicuramente va fatta chiarezza.
E' assolutamente macroscopica, ad esempio, quell'anomalia del coinvolgimento nelle indagini, già il giorno dopo la strage, dei Servizi di sicurezza. Un'iniziativa, proibita dalla legge, condotta dal Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra che chiese direttamente aiuto all'ex numero tre del SisdeBruno Contrada. Ed è incredibile che vi siano due note che lo stesso Servizio segreto civile diffuse proprio nelle prime fasi delle indagini, una delle quali offre proprio degli elementi su Scarantino e le sue parentele mafiose.
Tuttavia torniamo a riscontrare la diffusione di insinuazioni e rappresentazioni fallaci per quanto concerne alcuni punti della vicenda.
Sempre nell'articolo di MicroMegaFiammetta Borsellino torna ad insistere, sbagliando, su vicende come quella dei mancati depositi dei confronti fatti tra il falso pentito Scarantino ed i pentiti Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Nello specifico è tornata a sostenere che "se quel confronto fosse stato depositato già al Borsellino uno, avrebbe fatto crollare tutta l'impalcatura accusatoria".
A tutti gli effetti si tratta di affermazioni con dati falsi, che possono confondere i giovani che sono nati negli anni delle stragi e che hanno il diritto oggi di conoscere la verità.
Di fatto anche con quei confronti vi furono diverse valutazioni da parte dei giudici.
Lo ha ben spiegato il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, durante un dibattito sul depistaggio alla Feltrinelli ma anche di recente al palazzo di giustizia, evidenziando come quei verbali, alla fine, furono depositati in tutti i processi e valutati da più giudici e che questo non evitò le condanne di quei soggetti che oggi risultano essere innocenti.
Non solo. Parlando dei confronti aveva anche ricordato come al tempo non fosse possibile avere la completa certezza che solo la versione di Scarantino fosse quella falsa in quanto anche Cancemi e Mario Santo Di Matteo al tempo non dicevano totalmente la verità e lo stesso picciotto della Guadagna chiamava in causa nell'attentato persone che saranno poi indicate anche da Spatuzza.
E' doveroso ricordare, inoltre, che sul deposito posticipato dei verbali dei confronti al Borsellino bis intervenne il Gip di Catania che archiviò l'inchiesta aperta nei confronti dei sostituti procuratori di Caltanissetta, Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo, denunciati dagli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola per "comportamento omissivo". I giudici scrissero che quella condotta dei pm, che depositarono i verbali comunque entro la fine del processo "Borsellino bis", era priva di alcun "comportamento omissivo".
Di questi episodi lo stesso pm Di Matteo aveva già riferito, offrendo ogni spiegazione, sia di fronte alla Commissione parlamentare antimafia che al processo Borsellino quater.
C'è poi un altro aspetto che si deve considerare nell'analisi di quanto detto dai collaboratori di giustizia. Cancemi, che appunto viene sempre ricordato come uno di quelli che ha sbugiardato il picciotto della Guadagna, Vincenzo Scarantino, sempre durante il processo Borsellino ter, disse che mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Rosalba Di Gregorio (che è stata anche suo legale di fiducia) gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. E il pentito non aveva avuto dubbi nell’identificarlo con Provenzano. Un fatto che qualora fosse vero dimostrerebbe come l'avvocato, al tempo, sarebbe stata vicina, o quantomeno informata, su quei collegamenti tra mafia e servizi. Pur dando atto che la stessa Di Gregorio ha sempre smentito l'accaduto ci resta un dubbio: se si ritiene che Cancemi abbia detto il vero su Scarantino perché dovrebbe aver mentito sul legale?
Altrettanto importante nel percorso di ricerca della verità sulla morte di Borsellino è non lasciarsi confondere da piste devianti come il rapporto mafia-appalti. Una vicenda che è stata sviscerata dai giudici di Palermo con una lunga attività istruttoria. E a chi punta il dito contro l'archiviazione di una parte dell'indagine da parte della Procura di Palermo, giusto il 20 luglio 1992, va ricordato che è un fatto noto che quell'inchiesta si basava su un'informativa dei carabinieri "incompleta" e privata dei nomi di politici di rilievo che invece comparivano in un'altra informativa depositata in un'altra Procura.


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Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri in uno scatto del 2003 © Imagoeconomica


Ad un passo dalla verità
Oggi, grazie ai processi di Firenze, nelle inchieste sul fallito attentato all'Addaura, quella sui Sistemi Criminali, che poi è in parte confluita nel processo trattativa Stato-mafia, quelle sulla stragi di Capaci e via d'Amelio, su Pizzolungo, sulla morte del giudice Scopelliti, sul ruolo della 'Ndrangheta nelle stragi e sui rapporti tra le mafie, la politica, l'imprenditoria, la massoneria, sono sempre più evidenti quegli "ibridi connubi" fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori deviati dello Stato, di cui Giovanni Falcone parlava già nell'aprile 1986.
Dopo tanti "silenzi" ed "omertà" per questo Paese sarebbe il momento di far piena luce su certi fatti, aprendo gli archivi di Stato e svelando ogni segreto, senza dover aspettare un "pentito istituzionale" che rompa il silenzio e spieghi come e perché ci si è piegati alla trattativa con la mafia. Guardando a questa direzione, le sentenze recenti non sono il punto di arrivo ma un punto di partenza per rilanciare la ricerca delle sempre più evidenti responsabilità di ambienti e uomini estranei alle mafie. Un ultimo passo verso la verità per svelare, finalmente, quel "gioco grande" che è costato la vita a giudici come Falcone, Borsellino, gli agenti delle loro scorte e tanti cittadini inermi.
Per compierlo, occorre discernimento, senza cadere nelle trappole delle delegittimazioni, delle persecuzioni e degli isolamenti dei magistrati impegnati proprio nella ricerca della verità sulle stragi ed i mandanti esterni. Per questo motivo non è possibile mettere sullo stesso piano le eventuali responsabilità dei magistrati della Procura nissena che si occuparono della strage di via d'Amelio. Per questo motivo va ricordato che Antonino Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato. Diversamente istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter” che, abbiamo ricordato in precedenza, ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale e che non è stato minimamente scalfito dai processi di revisione. E non va dimenticato l'impegno profuso nella ricerca dei mandanti esterni per le stragi del 1992, anche assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi con le indagini su "Alfa e Beta" (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri) oppure sulla presenza in via d'Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato).
Proprio alla luce di questo impegno, dei risultati ottenuti con il processo di Capaci e il Borsellino ter, non è solo ingiusto, ma anche erroneo sostenere, così come fa Fiammetta Borsellino, che la Procura che ha lavorato dal 1994 in poi non ha dato prova di capacità investigativa, almeno per quanto concerne il lavoro dei due magistrati che, indubbiamente, hanno iniziato il percorso di ricerca della verità indicando la strada per raggiungere i mandanti esterni.


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Antonino Di Matteo © Imagoeconomica


L'attentato!
Ugualmente scorretto è sminuire la veridicità dell'attentato ordito dai vertici di Cosa nostra (e non solo) nei riguardi del sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo. Un attentato che, così come ha scritto il gip che ha archiviato il fascicolo, “resta operativo”. Minacce, incursioni, pedinamenti, lettere anonime, una condanna a morte emessa dal carcere da Totò Riina e la rivelazione di un vero e proprio piano esecutivo per ucciderlo hanno contraddistinto gli ultimi anni di vita del magistrato. Le trame del progetto di attentato, con tanto di esplosivo fatto giungere dalla Calabria, sono state poi rivelate dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo che ha raccontato della lettera ricevuta dai boss palermitani con le direttive del superlatitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro. La primula rossa, nella missiva datata 2012, spiegava anche i motivi per cui si doveva compiere l'attentato (“Mi hanno detto che si è spinto troppo oltre”) in un tempo in cui Di Matteo, assieme ai colleghi della Procura di Palermo, era impegnato soprattutto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Ugualmente Galatolo ha ribadito che all’eliminazione del magistrato erano interessate entità esterne. Non “mandanti qualunque”, ma “gli stessi di Borsellino”.
Anche per questo strumentalizzare una parente di sangue di Paolo Borsellino, con l'intento di delegittimare il magistrato che più di tutti si è avvicinato alla verità sulle stragi (in particolare quella di via d'Amelio), è un atto immorale e grave che non può essere ignorato. Un'azione che rafforza proprio quei poteri esterni a Cosa nostra che vogliono impedire sia fatta luce su stragi, trattative e sistemi-criminali.

In foto di copertina: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone © Shobha

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