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Quel potere parallelo allo Stato
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari - Video

Sono aspetti inquietanti e drammatici quelli che si intravedono dietro al caso dall’ex leader di Sicindustria e a lungo simbolo dell’Antimafia siciliana Antonello Montante. Nei confronti di quest'ultimo, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione nell'ambito del processo che si celebra con il rito abbreviato davanti al Gup Graziella Luparello (assieme a lui, tra gli altri, sono imputati sono anche l'ex ispettore di polizia Diego Di Simone, il funzionario della Questura di Palermo Marco De Angelis, l'ex funzionario del Servizio centrale operativo della polizia, oggi questore di Vibo Valentia, Andrea Grassi, e l'ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta, il colonnello Gianfranco Ardizzone), i pm di Caltanissetta (il Procuratore capo Amedeo Bertone ed i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso) hanno chiesto un condanna a 10 anni e 6 mesi. Un processo in cui sono emersi una lunga serie di attività che vanno ben oltre la semplice opacità. Azioni come le attività di dossieraggi nei confronti di giornalisti, magistrati, imprenditori e politici avversi, ma anche lo sviluppo di un vero e proprio "sistema" di potere capace anche di annidarsi anche all'interno dell'universo antimafia.
Ancora una volta è la trasmissione Report, condotta da Sigfrido Ranucci e andata in onda su Rai 3, a dedicare un ampio spazio all'inchiesta del giornalista Paolo Mondani (realizzata in collaborazione con Norma Ferrara), sulla fitta rete dell'ex vice presidente di Confindustria. Un'indagine a 360° che ancora una volta dimostra quanto Report sia uno dei pochi programmi, se non l'unico, a svolgere un vero servizio pubblico in Rai, con trasparenza ricercando la verità dei fatti, senza se e senza ma.
Un'inchiesta che scava sull'intreccio misterioso tra Banca Nuova, l’istituto di credito creato e controllato dalla Banca popolare di Vicenza di Zonin, ed i servizi di sicurezza fino a giungere anche alla vicenda delle intercettazioni tra l'ex ministro Mancino e l'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, oggi ufficialmente distrutte, in cui si imbatterono i magistrati di Palermo nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
Partendo da un memoriale dell'ex dg di Banca Nuova, Adriano Caduro, Report ha parlato dei legami che l'Istituto di Banca Nuova aveva con figure di spicco come l'ex capo del Sismi Nicolò Pollari ma anche i legami che Zonin avrebbe avuto con soggetti protagonisti della politica siciliana: da Totò Cuffaro a Raffaele Lombardo, passando per Angelino Alfano, la moglie di quest'ultimo, Renato Schifani, Calogero Mannino, i fratelli Micciché e anche con Beppe Lumia (che comunque smentisce ogni forma di coinvolgimento sulla vicenda Montante aggiungendo: "sono un condannato a morte da parte della mafia. Nell’ultima sentenza del processo 'Trattativa' emerge ancora una scelta di Cosa nostra di colpirmi. Quindi questa mia scelta e questa coerenza la rivendico, la porto avanti con umiltà e la difendo nei confronti di chiunque la voglia mascariare").
Non solo. Nell'indagine è stata anche ricordata la fusione con la chiacchieratissima Banca del Popolo di Trapani, che nel maggio 2000 venne comprata da Zonin ad una cifra di circa 280 miliardi di lire. Banca del Popolo di Trapani che al suo interno vedeva gli investimenti di Vincenzo Piazza, uno tra gli imprenditori di mafia più importanti, che venne fermato ed arrestato nel 1996.
Mondani ha avuto anche un colloquio, nel corso dell'inchiesta, il boss nisseno Vincenzo Arnone, testimone di nozze dell’ex leader confindustriale, da poco uscito dagli arresti domiciliari. Contributi sono stati offerti da Carlo Taormina, avvocato di Montante, Vincenzo Conticello (ex proprietario de "L'Antica Focaccia San Francesco), Pietro Di Vincenzo* (costruttore edile, ex presidente di Confindustria che ha scontato 10 anni per estorsione contrattuale nei confronti di tre suoi dipendenti, ma è stato assolto per il reato di concorso esterno alla mafia), il presidente della Commissione regionale antimafia Claudio Fava (che si è occupata di Montante pubblicando una copiosa relazione), l'ex presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello, l'imprenditore di Sesto San Giovanni Luca Pasini, lo stesso ex ministro Calogero Mannino, l'ex Presidente della Regione Rosario Crocetta (anche lui indagato con l'accusa di finanziamento illecito dei partiti e concorso in associazione a delinquere finalizzato alla corruzione), Marco Venturi (passato da fedelissimo a grande accusatore di Montante), ed ex dirigenti di Confindustria che sono anche voluti rimanere anonimi. Uno di questi ha raccontato dell’esistenza di uno "scatolone pieno di cassette registrate" inviato da Montante a Giancarlo Coccia, capo del personale di Viale dell’Astronomia. Un fatto che Confindustria ha smentito.


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Sigfrido Ranucci e Paolo Mondani


L'inchiesta ha anche raccontato un altro particolare che si incrocia con un'altra inchiesta, quella sulla trattativa Stato-mafia, condotta dai pm di Palermo Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, che nell'aprile 2018 ha visto il suo compimento con le condanne pesanti ad imputati come i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (rispettivamente sono state disposte pene a 28 e 12 anni), gli ufficiali del Ros Antonio Subranni e Mario Mori (condannati a 12 anni), l’ex capitano del Raggruppamento operativo speciale Giuseppe De Donno (8 anni), l'ex senatore Marcello Dell'Utri, condannato a 12 anni. Tutti imputati per il reato di attentato a corpo politico dello Stato. Tra gli imputati di quel processo, con l'accusa di falsa testimonianza ai pm, vi era anche l'ex ministro degli Interni Nicola Mancino, assolto in via definitiva. Quest'ultimo è stato un protagonista delle indagini nella nota vicenda delle intercettazioni telefoniche con l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A raccontare i fatti è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. "La sentenza - ha ricordato - spiega che mentre Cosa nostra faceva sette stragi, tra il 1991 ed il 1993, c'era una parte dello Stato che trattava con Totò Riina". Rispondendo alla domanda di Mondani, che ricorda la "giustificazione" dei carabinieri che si incontravano con Vito Ciancimino per "acquisire informazioni su Cosa nostra e far finire le stragi". "Quel dialogo, quella trattativa non evitò altro sangue, lo provocò" ha rimarcato il magistrato. E sul ruolo di Marcello Dell'Utri, già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa, ha poi ricordato: "Si fece intermediario delle richieste di Cosa nostra al governo Berlusconi già insediati nell'aprile 1994 e addirittura fino al dicembre 1994 Berlusconi fece arrivare centinaia di milioni nelle casse di Cosa nostra. Quindi, secondo questa sentenza, abbiamo un Presidente del consiglio, un Capo del governo italiano legittimamente insediatosi che paga Cosa nostra".
E rispetto ai "mandanti" della trattativa ha aggiunto: "Era e rimane, la sentenza lo dimostra, una trattativa politica".
Rispetto alla vicenda delle intercettazioni tra l'ex ministro Mancino ed il Capo dello Stato Di Matteo ha spiegato che: "Avevamo deciso di intercettare il ministro Mancino. Tra le tante telefonate che faceva indirizzava spesso le sue interlocuzioni e le sue richieste al consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio. Quelle richieste non furono immediatamente stoppate e respinte al mittente. Non depositammo invece le conversazioni che casualmente erano state intercettate tra Mancino ed il Capo dello Stato Napolitano perché le ritenevamo penalmente irrilevanti". Come ricordato dal giornalista Mondani, per Napolitano quelle telefonate non "dovevano neanche esistere" e così fu avviato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo che si concluse con la decisione della Corte Costituzionale, nel 2012, di distruggere quelle conversazioni. Oggi, però, i magistrati che indagano su Montante sospettano che una copia di quelle intercettazioni sarebbe finita nell'archivio dell'ex Presidente di Confindustria sicilia, grazie all'aiuto del colonnello dei carabinieri Giuseppe D'Agata, che era stato proprio alla Dia sovrintendendo le indagini sulla trattativa Stato-mafia. D'Agata è ad oggi indagato perché avrebbe fornito informazioni riservate a Montante e proprio grazi a quest'ultimo, dalla Dia, era passato ai servizi segreti civili (Aisi) sotto il comando dl generale Arturo Esposito, anch'egli indagato perché avrebbe fornito informazioni sull'inchiesta. Un altro funzionario della Dia, che si occupò dell'inchiesta Stato-mafia, non ha potuto escludere che D'Agata avrebbe potuto farsi una copia di queste ed anzi ha aggiunto che "se D'Agata voleva andare ai servizi quell'intercettazione era una bella dote. Lui in quanto capo centro della Dia di Palermo aveva le password e poteva entrare nei documenti in qualsiasi momento". Il commento di Di Matteo è stato ancora una volta lapidario: "Se ha fatto un uso improprio per la sua carriera, per il suo passaggio nei servizi segreti avrebbe non soltanto violato la legge ma sarebbe stato anche un traditore dei suoi uomini".
Quel che resta attorno a questa vicenda, al momento, è il contorno oscuro. Non si possono che condividere le parole dello stesso Sigfrido Ranucci che ha aggiunto: "Se sarà dimostrato ha tradito i suoi uomini ma anche lo Stato. Perché lo ha fatto? Solamente per ingraziarsi i favori di Montante, fare carriera, per quell'avidità che oscura le coscienze dell'uomo o perché Montante rappresenta qualcosa di inconfessabile? Quale ruolo ha avuto Montante nella storia del nostro Paese? E' forse il garante di un nuovo patto tra pezzi dello Stato, delle istituzioni imprenditoria e mafia? Quando l'acqua è sporca di fango è difficile distinguere l'antimafia vera da quella falsa. Se ci si riuscirà in questa vicenda e in quella della trattativa sarà solo perché le forze dell'odine e alcuni magistrati praticheranno l'antimafia vera. Semmai il problema è capire cosa è diventata oggi la mafia". E alla fine resta il grande interrogativo: "Nel corso della nostra inchiesta abbiamo incontrato politici, pezzi delle istituzioni, banchieri, imprenditori e magistrati anche double face. L'hanno fatto per una questione di carriera o una ragione di Stato? Siamo stati vicini col toccare quell'organismo criminale e mutageno che vive nelle e delle istituzioni. Quali funzioni ha avuto e quali funzioni avrà? E lo Stato saprà liberarsi di questo male di dentro? In altre parole, lo Stato sarà in grado di processare se stesso?".

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* Pubblichiamo nota ricevuta da Pietro Di Vincenzo

Egregio Direttore responsabile di “antimafiaduemila”,
con riferimento all’articolo intitolato “Report, il caso Montante e la Trattativa Stato-Mafia”, a firma di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari e pubblicato il 1° maggio 2019, desidero puntualizzare che anche se è vero che sono stato condannato a dieci anni di carcere per estorsione è altrettanto vero che si è trattato di estorsione contrattuale, che ha riguardato solo “tre dipendenti rispetto alle diverse migliaia” che, nel tempo, le mie imprese hanno avuto.
Per molti e, soprattutto, per coloro che giudicano serenamente, ciò la dice lunga!
Per capire la labilità del tutto basta soffermarsi a pensare che, nei libri paga e matricola delle mie imprese, per diversi decenni risultavano iscritte mediamente oltre 1.000 unità lavorative, come dimostrato in atti nel corso delle mie vicende giudiziarie. Non v’è soggetto obiettivo che non resti impressionato appena prende conoscenza del fatto che ho subito una condanna per “estorsione” solo per aver trattenuto una “imprecisata” quota parte dalla busta paga di “tre soli dipendenti”, mai determinata nel corso dei giudizi conclusisi, pertanto, in assenza di concreta quantificazione dell’ “ingiusto profitto”.
Ed invero, la suddetta condanna con pena edittale a dieci anni di carcere mi ha però assicurato un primato nazionale poiché nessuno, per condotte analoghe, per di più aggravate da sistematicità - a me mai contestata - e per importi considerevoli e specifici, ha riportato condanne del genere così eccessive.
Per quanto sopra detto è necessario, quando si richiama la notizia della mia condanna, chiarire alla collettività che l’estorsione non riguarda, di certo, una mia attività criminale di racket nei confronti degli imprenditori o di altri.
Dunque non è per nulla superfluo sottolineare che anche il fare riferimento in maniera generica ad una mia condanna per estorsione, senza spiegare correttamente i fatti, è fuorviante e mortifica la verità.
Non spiegare compiutamente la mia condanna significa assimilare me agli estorsori del racket e della mafia contro i quali, per anni, ho sporto innumerevoli ed inascoltate denunce e dei quali sono stato vittima; inoltre, ciò fa credere alla gente una verità assolutamente diversa rispetto a quella di vittima della mafia che sentenze passate in giudicato hanno sancito. Sentenze, peraltro, basate su prove e non già su sospetti.


Ci scusiamo per la mancata specifica della condanna per estorsione, in quanto non vi era certo l'intenzione di paragonarla agli estorsori dl racket e della mafia. Abbiamo provveduto già sopra al correttivo. Del resto abbiamo anche dato atto dell'assoluzione ricevuta. 

Foto di copertina © Imagoeconomica


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