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di Giorgio Bongiovanni
L’atto d’accusa di Agnese Borsellino


Ventisei anni sono ormai passati dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio e la pretesa di verità e giustizia è sempre presente, nonostante le sentenze che negli ultimi anni si sono succedute (Capaci bis, Borsellino quater e trattativa Stato-mafia). Troppi sono gli interrogativi che restano aperti su quanto avvenne tra maggio e luglio del 1992, una sorta di “anticipazione” di quel che sarebbe poi accaduto successivamente, con gli attentati in Continente. A chi vuol far finta di non sapere, o di non vedere, può essere utile ricordare le parole di Agnese Piraino Leto (vedova del giudice Paolo Borsellino) la quale ha riferito della piena consapevolezza del marito di una “trattativa in corso tra pezzi infedeli dello Stato e la mafia". Per questo credo sia importante rileggere quelle dichiarazioni raccolte in questo articolo, datato 2013. Parole di una verità tremenda che la moglie del giudice ha lasciato a tutto il popolo Italiano.


Il testamento di Agnese Borsellino 
di Giorgio Bongiovanni
Agnese Piraino Leto in Borsellino non ha mai smesso di parlare e chiedere verità. Da quando quella bomba, vent'anni prima, le aveva portato via il marito con il quale aveva condiviso una vita blindata e perennemente sotto scorta, non si è mai tirata indietro quando c'era da puntare il dito contro chi aveva voltato le spalle allo Stato e a Paolo Borsellino. Uno Stato defraudato della sua accezione più profonda proprio dai suoi rappresentanti, che non hanno disdegnato di sedersi al tavolo della trattativa insieme ai vertici di Cosa nostra. Per chi ha nascosto le proprie responsabilità dietro ipocrite dichiarazioni di amicizia e sostegno, non poteva esserci perdono. “L'uccisione di mio marito è una dichiarazione di guerra contro la mia città. Se è guerra, guerra sia: inviate i militari per presidiare il territorio e difendere gli obiettivi a rischio” aveva infatti replicato all'indirizzo dell'ex ministro Mancino, quando subito dopo il funerale di Paolo aveva messo le forze dello Stato a sua disposizione.
Agnese era insieme silenzio nel dolore e grido di giustizia, grido di accusa contro chi, all'indomani della strage di Capaci, abbandonò ulteriormente suo marito, rimasto a combattere una battaglia che da solo non poteva vincere: “Falcone rappresentava per lui come uno scudo. Senza il quale la sua esposizione è aumentata. Da qui probabilmente nasce l'esigenza di mio marito in quei 57 giorni di annotare scrupolosamente spunti di indagine, valutazioni, memorie personali di cui si riprometteva di parlare con i pm allora in servizio alla Procura di Caltanissetta, titolari dell'inchiesta su Capaci. Nessuno però in quei lunghi 57 giorni lo chiamò mai. E' possibile che nelle pagine dell'agenda rossa, usata per i progetti di lavoro e per annotare i fatti più significativi, avesse scritto cose che non voleva confidare a noi familiari. Quell'agenda è stata recuperata sul luogo della strage ma, come si sa, è scomparsa. Se esistesse ancora e se fosse nelle mani di qualcuno potrebbe essere usata come un formidabile strumento di ricatto”. La famiglia Borsellino aveva segnalato l'esistenza di quell'agenda ad Arnaldo La Barbera (morto nel 2002, ndr) che aveva guidato il gruppo investigativo all'indomani della strage di via d'Amelio, ma lui si limitò a replicare “che questa agenda era il frutto della nostra farneticazione”. Dagli ultimi sviluppi delle indagini risultò poi che La Barbera, negli anni precedenti alla nomina di Capo della Squadra Mobile a Palermo, era stato per un periodo al soldo dei servizi segreti con il nome in codice “Catullo”. Non solo. Nell'ambito dell'inchiesta su via d'Amelio La Barbera aveva studiato il teorema investigativo a tavolino, trovando in seguito quei 'pentiti' che avrebbero portato in dibattimento una falsa verità. ”Forse qualcuno - rifletteva la 'vedova di guerra', come lei stessa si definiva - aveva l'ansia di arrivare celermente a un risultato. Ma mi chiedo come mai anche ai magistrati, nei tanti filoni processuali e nei vari gradi di giudizio, siano sfuggite le incongruenze del racconto di Scarantino”. “Posso solo dire, per esserne stata testimone oculare, che mio marito si adirò molto quando apprese per caso dall'allora ministro Salvo Andò, incontrato all'aeroporto, che un pentito aveva rivelato: è arrivato il tritolo per Borsellino. Il procuratore Pietro Giammanco, acquisita la notizia, non lo aveva informato sostenendo che il suo dovere era solo quello di trasmettere per competenza gli atti a Caltanissetta”. “Quella volta - ricordava in una nota dell'Ansa la signora Agnese - ebbe la percezione di un isolamento pesante e pericoloso. Non escludo che proprio da quel momento si sia convinto che Cosa nostra l'avrebbe ucciso solo dopo che altri glielo avessero consentito”.
Parole difficili da dimenticare: “Mio marito non era amato assolutamente in Procura. Paolo mi disse 'la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno', queste sono parole che sono scolpite nella mia testa, e sino a quando sono in vita non potrò dimenticare”.
In un cerchio che, in piena trattativa Stato-mafia, si stringeva sempre di più sul giudice Borsellino: “Ci furono due trattative Stato-mafia. E mio marito fu ucciso per la seconda. Quella che doveva cambiare la scena politica italiana” diceva nella sua ultima intervista al Corriere della Sera.
In un susseguirsi di tasselli che la moglie di Paolo prova a far combaciare per conoscere finalmente la verità: “Dopo la strage di Capaci mio marito disse che c'era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato” affermava in un suo intervento alla trasmissione Servizio Pubblico, per poi aggiungere: “Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”.
E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato'. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la 'mafia in diretta', parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano”. “Mi disse che il gen. Subranni era 'punciuto' - (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) - Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Uno stillicidio che si trascinò fino al giorno della strage: “Quel caldo pomeriggio del 19 luglio 1992, quando è stato eliminato un servitore scomodo dello Stato e i suoi angeli custodi ho avuto la sensazione di subire impotente una guerra combattuta da un nemico senza una precisa identità”. Le cui indagini hanno subito un pesante depistaggio “perchè sono venduti e comprati tutti. - diceva in un'intervista a Left - Quando succedono queste cose sono coinvolti tutti. C'è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile. Via d'Amelio non solo ha distrutto l'immagine dell'Italia, ma ha distrutto la mia vita. Io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone”. “Perchè - concludeva - non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite bene o male una vita. Io ci soffro da vent'anni e in silenzio. Io e tutta la mia famiglia. Che parole vuole che ci siano? Piango anche se di lacrime ne ho versate tante. Mi vergogno di essere italiana, spero che queste notizie facciano il giro del mondo”.
E nella sua ultima intervista al Corriere della sera: “Bisogna cambiare questa Italia di corrotti e corruttori, di ricattati e ricattatori, tutti che si tengono per mano come bambini in girotondo. Al centro schiacciano l'Italia. Si tengono fra loro stritolando un Paese. Ecco perché non ne posso più di sentire parlare di antimafia e di legalità in bocca a troppi che non potrebbero fiatare. La gogna ci vorrebbe, anche per chi riceve una comunicazione giudiziaria. Parlo della gogna del ridicolo, delle vignette, insomma un metterli a nudo invece di ritrovarceli protagonisti della vita pubblica”.
Così si esprimeva Agnese Borsellino sulla questione delle intercettazioni tra Mancino e il Quirinale, in una lettera raccontata dalla sua stessa voce a Servizio Pubblico: “Non ho il titolo nè la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex ministro, presidente della Camera e vice presidente del Csm, che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali”. “Non sorprende che l'attenzione dei media - aggiungeva - si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l'attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea”. “Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo - concludeva -: chi era e quale ruolo rivestiva l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del '92 incontrò mio marito? Perchè Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?”. E ancora: “Mancino, se proprio voleva, doveva telefonare a Loris D'Ambrosio a casa, incontrarlo al bar, ma non chiamarlo al Quirinale mettendo nel mezzo quel galantuomo di Napolitano. È gravissimo il comportamento di Mancino. Non mi fido di lui. Perché ricordo cosa mi disse mio marito: 'Al Viminale ho respirato aria di morte'. E Mancino non ricorda di averlo visto nei suoi uffici nel luglio '92”.
Tanta rabbia ma anche una forte determinazione: “Ho fiducia nel tempo. Non voglio vendetta, voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient'altro. - dichiarava in un'intervista rilasciata a La Storia Siamo Noi di Rai Educational - Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perchè gli italiani come me vogliono sapere perchè è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà”. Ma la verità Agnese non è riuscita ad apprenderla da questo nostro Stato. Ora sarà Paolo stesso a raccontargliela. Una verità inquietante e apocalittica di uno Stato italiano rappresentato, a quell'epoca, da personaggi che per paura e per ragioni di potere hanno chiesto e ottenuto la morte di Paolo Borsellino e la strage di via d'Amelio. E oggi oltre cinquanta persone potenti, appartenenti allo Stato e all'alta finanza, conoscono tutti i passi di quella dannata trattativa e di quell'omicidio di Stato.
Vogliamo ancora una volta ricordare a chi vive con la convinzione che la mafia non prende ordini da nessuno, che proprio Paolo e Agnese ci hanno rivelato profeticamente dove cercare e trovare la verità: “Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”.
Noi seguiremo in questa direzione fino al giorno in cui strapperemo con forza la maschera agli uomini di Stato che ordinarono e ottennero l'assassinio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Grazie signora Agnese

Giorgio Bongiovanni

Fonti:verbali di interrogatorio resi dalla signora Agnese Borsellino all'autorità giudiziaria di Caltanissetta (27 gennaio 2010); Ansa; Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino (Bongiovanni-Baldo, ed. Aliberti); Corriere della Sera; Left; La storia siamo noi; Servizio Pubblico
(
13 Maggio 2013)

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